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Il governo dei Nobili a Napoli: Autonomismo, decentramento, partecipazione governativa dei Seggi cittadini.

Posted by on Dic 30, 2019

Il governo dei Nobili a Napoli: Autonomismo, decentramento, partecipazione governativa dei Seggi cittadini.

1. L’AUTONOMISMO OLIGARCHICO DEL PATRIZIATO E DEI BARONI NEL REGNO

La nobiltà cittadina di Napoli, al pari di quella municipale francese “Noblesse de cloche” ha partecipato al secolare funzionamento del sistema di governo urbano e di quello del Regno, mantenendo nel tempo un evidente livello di autonomia, rispetto al potere centrale reale e papale, nonché garantendo il rispetto dei princìpi di decentramento e partecipazione nell’amministrazione.

La storia di Napoli, capitale del regno è, quindi, legata da un vincolo simbiotico con quella delle tante famiglie patrizie, con loro genealogie ed ascendenti ivi residenti nel corso dei secoli. Questi gruppi familiari, che scelsero di vivere in determinate aree della città e del regno con proprie regole e nel rispetto di tradizioni e costumanze locali sin dall’origine dell’antica Partenope, sono stati presenti quali importanti protagonisti della crescita urbanistica e sviluppo economico dell’Urbe.

Difatti, tale ceto nobiliare ha lasciato diverse tracce del proprio livello socio-culturale, degne del lignaggio di appartenenza, nella compagine cittadina partenopea, edificando maestosi ed artistici palazzi gentilizi, imponenti cappelle familiari, suntuose chiese e contribuendo pure alla nascita di famose opere pie assistenziali.
Tra gli enti caritatevoli-assistenziali, sorti a Napoli, si annovera il Pio Monte della Misericordia, fondato dai nobili Cesare Sersale, Giovan Andrea Gambacorta, Girolamo Lagni, Astorgio Agnese, Giovan Battista d’Alessandro, Giovan Vincenzo Piscicelli, Giovan Battista Manso. Altro esempio fu il piccolo conservatorio, prima, Eremo di Suor Orsola Benincasa, poi, di cui le cronache riferiscono che “presero esempio gli Eletti della città, e tutti i cittadini…uomini e donne, giovani e vecchi nobili cittadini, e plebei, si spogliarono di tutt’il meglio che avevano per impiegarlo in limosina di questa fabbrica(1). E’altrettanto noto il contributo di taluni nobili allo sviluppo di un’economia pre-capitalista locale, tramite la fondazione di rinomati “banchi”, specializzati nell’attività creditizia già dal XV secolo.
Il latifondismo feudale, inoltre, ha garantito nei secoli un micro-sistema economico locale, basato su un’agricoltura sviluppata e su varie attività di allevamento collegate. Il mecenatismo dell’aristocrazia, inoltre, favorì la presenza in Napoli di famosi artisti (architetti, pittori, scultori) e letterati che produssero capolavori di grande successo.
In sostanza, il patriziato napoletano ha contribuito all’abbellimento, seguendo le mode raffinate del tempo, così come alla crescita urbana (strade, quartieri, edifici pubblici) ed economica della città e delle province del regno. La fama di tanto splendore, raggiunto dalla città di Napoli nel corso dei secoli, si diffuse rapidamente in tutti gli stati esteri e fu tale da incuriosire ed invogliare molte personalità straniere nel visitare la corte partenopea e suoi luoghi cittadini. E’, inoltre, opportuno ricordare i numerosi personaggi, dai nobili natali, che dettero grande impulso alla poesia, alla musica ed alle arti, partecipando alla formazione di illustri accademie culturali, frequentate, poi, anche da studiosi di altri paesi. Memore delle antiche tradizioni politiche ellenico-romano, legate alle forme di governo democratico-libertario-repubblicano, il suddetto ceto non accettò tanto facilmente il dispotismo e le monarchie assolutiste (La città di Napoli “in tutto il medio evo erasi retta a municipio bizantino, con forme repubblicane. Solo nel 1130 Ruggiero Normanno v’introdusse le forme monarchiche(2)). Combattuta, all’interno del ceto, tra il sentimento di fedeltà e devozione all’autorità monarchica e l’ideale progettualità di un governo oligarchico in un regno autonomo ed indipendente, il patriziato napoletano si trovò in diversi avvenimenti politici non unito, per tale divergenza.
Nonostante il susseguirsi delle varie regnanze, favorevoli o meno alla presenza di un cotale sistema di potere familiare oligarchico, è opinione comune ritenere la “schiatta” napoletana non “ vano avanzo d’una spenta istituzione, ma un potente ordine d’uomini, ai quali era commesso il conservare le usanze ed i privilegi della Città e del Regno di Napoli”(3). Tale potente ceto dimostrò nel corso delle varie monarchie, succedutesi nel regno di Napoli, di essere in grado di sollevare ben organizzate rivolte politiche, coinvolgendo le masse popolari. Ciò è quanto avvenne nel 1485, allorquando la nobiltà baronale, comandata dal principe Roberto Sanseverino, sollevò grande tumulto contro Ferdinando I d’Aragona, chiedendo l’aiuto del duca Giovanni d’Angiò e dello stesso Papa. La causa, scatenante la rivolta, fu il tentativo della corona Aragonese di rinsaldare il prestigio ed il potere monarchico nel regno [I principali nomi dei baroni ribelli furono: Pirro del Balzo (principe di Altamura), Antonello Sanseverino (principe di Salerno), Girolamo Sanseverino (principe di Bisignano), Piero di Guevara (marchese del Vasto), Giovanni della Rovere (duca di Sora), Andrea Matteo Acquaviva (principe di Teramo), Giovanni Caracciolo (duca di Melfi), Angliberto del Balzo (duca di Nardò), Antonio Centenelli (duca di Melfi), Giovan Paolo del Balzo (conte di Nola), Pietro Bernardino Gaetano (conte di Morcone). Francesco Coppola (conte di Sarno), Francesco Petrucci (conte di Carinola), Giovanni Antonio (conte di Policastro)(4)].
L’alleanza dei baroni tenne testa all’esercito aragonese per circa un anno di combattimenti, riportando clamorosi successi. La divisione interna al gruppo dei feudatari, causata anche dalla presenza di una nobiltà rampante di recente formazione mercantile, gli odi feroci ed una profonda rivalità sviluppatasi tra taluni esponenti portarono il principe di Salerno, rappresentante la vecchia casta feudale, a commettere vari errori. La monarchia soffocò, così, nel sangue questa prima rivolta di cortigiani (Tra il 1486 ed il 1487 furono condannati e giustiziati Francesco Coppola, conte di Sarno, Antonello Petrucci e suoi figli Francesco, conte di Carinola, e Giovanni Antonio, conte di Policastro. Mentre vari baroni congiurati finirono nelle prigioni di Castelnuovo, ove nella notte del natale 1491 vennero soppressi(5)).
Contro il governo assoluto dell’imperatore Carlo V, nuovamente la nobiltà cittadina ed i baroni si schierarono, parteggiando per l’armata francese, comandata dal Lautrec, scesa in Italia per volere sia del re di Francia che d’Inghilterra e della Svizzera, per liberare papa Clemente VII dalle prigioni di Castel S.Angelo. Nel 1528, molti casati filo-francesi, “ricordevoli di quel dominio sotto la casa d’Angiò(6), parteggiarono per Odetto de Foix, visconte di Lautrec, causa il “tedio ed odio del dominio spagnuolo”. Tra i nobili anti-spagnoli, che particolarmente emersero nel conflitto, si ricordano Andrea Matteo Acquaviva, duca d’Atri, “il principe di Melfi, il conte di Conversano, e Federico Gaetani figlio di Onorato duca di Traetto e conte di Fondi, ed Errico Pandone duca di Boiano e conte di Venafro, cognato del conte di Conversano ed Alfonso Sanseverino duca di Somma(7).
Il Lautrec trovò concreti sostegni e supporti da parte di questa aristocrazia, allorquando cominciò ad invadere il regno con le sue truppe. Le adesioni alla causa francese furono numerose ed importanti, come testimoniano gli elenchi dei ribelli, redatti dal governo vicereale al termine della contesa ispano-francese. Tra gli esponenti più rinomati della nobiltà del regno vengono citati: Sergianni Caracciolo (principe di Melfi), Antonio Carafa (principe di Stigliano), Alberico Carafa (duca d’Ariano), Andrea Matteo Acquaviva (duca d’Atri), Errico Pandone (duca di Boiano), Ferrante Orsino (duca di Gravina), Alfonso Sanseverino (duca di Somma), Ferrante Castriota (duca di S. Pietro in Galatina), Giovan Bernardino Zurlo (duca di Nocera), Giovan Vincenzo Carafa (marchese di Montesarchio), Roberto Bonifazio (marchese d’Oria), Niccolò Maria Caracciolo (marchese di Castellaneta), Giacomo Maria Gaetani (conte di Morcone), Giovan Francesco Carafa (conte di Montecalvo), Raimondo Orsino (conte di Pacentro), Giulio Antonio Acquaviva (conte di Conversano), Francesco Sanseverino (conte di Capaccio), Giacomo d’Alessandro (barone di Cardito), Antonio di Somma (barone di Castigliano) e decine e decine di altri feudatari(8).

Molti di costoro non usufruirono degli indulti di Carlo V del 24 aprile 1529 e del 28 aprile del 1530, tanto da essere fatti morire in segreto. E’, poi, da ricordare anche un altro significativo episodio di intolleranza del patriziato partenopeo verso il dispotismo vicereale.

Si tratta dei moti insurrezionali politico-religiosi della nobiltà napoletana contro l’aborrita Inquisizione “al modo di Spagna”. La prima reazione si verificò a fine 1509 con l’arrivo dell’Inquisitore spagnolo, Andrea Palazzo, a Napoli. Gli eletti, i gentiluomini ed i baroni con il Popolo si recarono dal viceré Cordova per richiederne l’allontanamento, giurando con atto pubblico “prima le honore, posponendo la ribellione, da perdere la robba et la vita che permectere se facesse tale inquisiscione”.
Il patto di affratellamento, tra patriziato e popolo, si confermò anche nell’adunata del 21 ottobre 1510 in San Lorenzo, nella quale si sancì che “in segno de dicta unione se abrazorono et basaro tucti…et per lo advenire essereno boni figlioli, patre, fratri et una cosa”.
Questo primo tentativo spagnolo di introdurre un valido strumento di controllo politico a sostegno del governo vicereale, con cui stroncare ogni forma di dissidenza tra i sudditi, fu sospeso per essere poi riproposto nel 1547, sotto il viceré Toledo.

Alcuni anni prima, tra l’altro, nel 1535-36, passando l’imperatore Carlo V per Napoli, furono accolte le proteste dei principali esponenti dell’aristocrazia cittadina verso il governo autorevole ed energico di detto viceré Pietro de Toledo, per il quale se ne chiedeva la destituzione dalla carica. Il viceré, non solo fu confermato, ma si acuirono con maggior durezza i rapporti con le rappresentanze del Regno, del Parlamento, delle città e degli eletti, causa anche l’intensificarsi del prelievo straordinario (donativi), in seguito alle delibere di varie assemblee(9).
In proseguo, con l’accendersi dei moti del 1547 contro il tribunale dell’Inquisizione spagnola [L’imperatore Carlo V ordinò al vicerè di introdurre “l’inquisizione a modo di Spagna” che fu presentata dal Breve apostolico a mezzo di editto, affisso “alla porta del Duomo”.
La reazione della città fu immediata tanto che “minacciò il vicario dell’Arcivescovo”. Gli eletti “riunirono i nobili ed i popolani..e si decise di mandare una deputazione – tra cui vi era Antonio Grisone – dal vicerè Pietro di Toledo” che calmò gli animi con promesse ingannevoli.
Al secondo tentativo del 21 maggio di riaffissione dei “cedoloni” sull’Inquisizione, il popolo corse alle armi “col suono della campana di S.Lorenzo”, raccogliendosi in piazza S. Agostino.
”I nobili allora mossi dal comune pericolo si riunirono a’ plebei loro diedero il nome di fratelli, e fecero con loro causa comune”
(10).
Il viceré Toledo raccolse circa tremila spagnoli nei castelli per soffocare nel sangue la rivolta scoppiata nell’urbe. La situazione precipitò quando tre “algozzini”(sbirri) del Tribunale della Vicaria furono attaccati da un gruppetto di giovani nobili, intenzionati a liberare un prigioniero accusato dall’Inquisizione. Il vicerè Toledo li fece arrestare e “ne fece scannare tre in pubblico” (Fabrizio d’Alessandro, Antonio Villamarino, Gio. Luigi Capuano) da uno schiavo moro nella piazza di Castelnuovo.
Subito dopo, il Toledo cavalcò impavido per la città con uno stuolo di spagnoli a segno di sfida, nello sdegno di tutta la cittadinanza. Il popolo con i nobili si unirono nell’associazione detta Unione” (retta da Cesare Mormile, il priore di Bari, l’Eletto Giovanni Di Sessa) per contrastare il viceré, organizzando ambascerie presso l’imperatore Carlo V e fortificazioni difensive in S. Maria la Nova ed a Monteoliveto.
Numerosi furono i cruenti combattimenti contro gli spagnoli, tanto da costringerli a ritirarsi nei castelli. Per evitare il precipitare delle contestazioni, Carlo V decretò l’abolizione dell’Inquisizione, garantendo promesse di amnistia, poi non rispettate.
Tra i giustiziati vi furono Giovanni Vincenzo Brancaccio(11).], si presentò, nuovamente, l’unione tra ceto nobiliare e popolare. Alla guida della rivolta si pose, ancora una volta, un Sanseverino, dichiaratosi acerrimo nemico del Toledo. Scoppiarono in città violenti tumulti di piazza, che videro così uniti i rappresentanti delle piazze aristocratiche con il popolo contro le truppe spagnole, a causa degli esemplari castighi inflitti dal viceré. Detto principe Ferrante Sanseverino ed altri patrizi si offrirono, poi, alla causa rivoluzionaria quali ambasciatori presso l’imperatore Carlo V, che però confermò l’obbedienza al governo vicereale.
Questo nuovo episodio di difesa e salvaguardia dei princìpi di indipendenza ed autonomia politica, goduti dalla schiatta napoletana e dalla rispettiva città, si concluse con sanguinosi processi, una pesante ammenda da pagare e varie condanne………

Altro tentativo di rivendicazione indipendentista fu quello relativo ai tumulti per il “mancamento del pane” nel maggio 1585. La causa scatenante fu un’imprevista carestia di grano, le cui riserve erano state esportate in grande quantità in Spagna per volere del re.
Gran parte degli eletti, il prefetto dell’annona ed i sindaci proposero di fronteggiare la crisi, diminuendo la materia prima nella panificazione, pur mantenendo inalterati i prezzi. Vi si oppose l’eletto del Popolo, Giovan Vincenzo Starace, ritenendo tale proposta una manovra speculativa basata su una frode alimentare, che avvantaggiava le categorie dei feudatari-latifondisti, dei commercianti, panificatori e bottegai. I disordini contro gli spagnoli portarono alla morte straziante del suddetto eletto per mano dello stesso spietato popolo, preoccupato per la crescente situazione di disagio. In questo tumulto la nobiltà tentò di “calmare” il popolo, cercando -su consiglio governativo- di persuaderlo dal compiere atti vandalici e violenti, nonostante l’offesa subita dal viceré in una festa cittadina, ove i posti più onorevoli furono riservati agli spagnoli(12). Questo episodio di cruenta contestazione, rispetto a quelli passati, contro il governo complice del viceré, Pietro Giron duca di Ossuna, vide quali principali protagonisti i diversi settori della borghesia cittadina, accorta al bisogno di riforme e di equiparazione al rango dei nobili [Tra gli incolpati, protagonisti della ribellione, il droghiere Gianlionardo Pisano, la cui casa in piazza della Sellaria fu rasa al suolo e vi fu “piantato un epitaffio di marmo..ed alquante finestrine, con alquante finestre, con le graticole di ferro, vi fe’ metter dentro più di venti teste, con molte delle mani di quei miseri, che furono per tal causa impiccati” (13) ].
Questa classe media emergente si rese altrettanto complice nella rivolta politica di Masaniello del 1647, per rivendicare una riforma nell’ordinamento amministrativo cittadino “tutto sbilanciato a favore del patriziato urbano raccolto nei seggi nobili(14). L’esplosione popolare si manifestò con il tentativo governativo di imporre nuove tasse, tra cui il dazio sul consumo della frutta, il cui casotto fu dato alle fiamme in piazza Mercato nella notte dell’Ascensione (6 giugno 1647). Il pescivendolo Masaniello si trovò a capo delle scorribande e degli assalti successivi contro i simboli ed i rappresentanti delle gabelle, ricevendo sostegno da vari ispiratori, come Giulio Genoino, rappresentante dei gruppi nobiliari antispagnoli, nonché dagli “occulti conspiratori” (15).

Lo stesso cercò, pure, il sostegno di Don Tiberio Caraffa, duca di Bisignano e maestro di campo del battaglione di Napoli, perché “compassionevole e della plebe amico(16). Altri nobili, invece, si attivarono per far rientrare la sommossa, avanzando “larghe promesse…o con ampie concessioni scritte”, come nel caso del principe di Satriano, di Bisignano e di Montesarchio. Tra l’altro, su questa vicenda dell’aggravio fiscale, anche i seggi presero posizioni discordanti. Secondo il citato studioso Bisaccioni, i sedili di Nido e Capuana si mostrarono attivamente contrari alle nuove imposizioni, pur rimanendo fedeli al viceré, duca d’Arcos. Questa fedeltà fu così riconosciuta nei capitoli del 7 settembre, postumi ai moti, allorquando si sancì l’interdizione dalle cariche pubbliche al solo patriziato di Porto, Montagna e Portanuova per la loro partecipazione ai moti. E’, inoltre, utile per meglio comprendere la posizione politica oligarchica della nobiltà partenopea, citare la “Regale Repubblica” di Napoli, sorta posteriormente al tumulto tra la fine del 1647 ed il 1648 sotto la protezione del re di Francia [Lo studioso Conti(17) riferisce dell’esistenza di vari bandi emessi, tra l’ottobre 1647 e l’aprile 1648, dal “Fidelissimo Popolo” napoletano, di cui quello datato 17 ottobre 1647 riguarda l’appello ai vari regni per combattere la Spagna.

Altro del 22/24 ottobre cita la costituita repubblica per la quale “questo Regno Repubblica, acciò niuno Re, Monarca o Regulo possi havere altra pretensione”.  Al duca di Guisa fu conferita carica di “Generale dell’armi” della repubblica e “Difensore della sua libertà”. Tutti questi bandi repubblicani e spagnoli hanno costituito la fonte documentaria dell’opera realizzata da J.Howell(18).] e della di lui fedele guida, Enrico di Lorena duca di Guisa.

Tale governo fu formato da tre senatori per il popolo e tre per la nobiltà [ I senatori del Popolo furono: Agostino Mollo, Gennaro Annese, Vincenzo D’Andrea; i nobili: Diomede Carafa, Cesare da Bologna, il principe Francesco Filomarino di Roccadaspide(19). ], oltre a due senatori (un popolare, un nobile) per ogni provincia (per un totale di 24 senatori). 
La scelta dei circa 30 senatori della Repubblica(20) rispettò il principio di pari uguaglianza tra nobiltà, popolo e province. In un editto di quel tempo si accenna alle Province, sollecitate nell’invio di rappresentanti a Napoli “per trattare per commune beneficio”, così come ai seggi cittadini tali da essere trattati “come nell’antichi tempi.. quelli Nobili, che producono le loro nobili attioni, o in virtù, o in arme”. Pertanto, l’ordine nobiliare del regno (feudatari e patriziato cittadino) si dovette equilibrare per rappresentanza numerica e funzioni con l’ordine popolare, rinunciando anche a prerogative secolari (la gestione fiscale) e ridimensionando la propria sfera d’influenza(21).

Ai nobili sarebbe rimasto, in modo formale, il tradizionale comando degli eserciti e delle ambascerie (già affidato a Francesco Toraldo, principe di Massa), mentre ai popolari il controllo economico della condotta della guerra per il tramite del “provveditore generale” (Vincenzo D’Andrea). Costui si rivelò “uomo che per valore d’ingegno, e per altezza di mente e vigor d’animo nell’eseguire quel che intraprendeva, era senza dubbio il primo fra’sollevati; il quale aborrendo ogni sorta di dominio, si aveva dato a credere di erigere la città ed il regno in repubblica” (22)

Tale Serenissima Real Repubblica di Napoli si ispirò al “modello classico di Roma repubblicana” con i suoi equilibri tra ceti sociali e tentò di emulare la contemporanea repubblica olandese “delle sette province unite”. Questa sorta di repubblica popolare, su modello federale-rappresentativo con suoi incaricati provinciali e cittadini, si formò su un’unità di intenti tra popolo e nobiltà volta al raggiungimento dell’indipendenza dalla Spagna ed alla salita di un proprio re, godente della protezione della corona francese. Questo progetto rivoluzionario, comunque, sfumò per il ritiro dei nobili, consapevoli del sopravvenuto disimpegno del sovrano francese verso l’impresa bellica partenopea, nonché per il manifesto disaccordo popolare nell’accettare una nuova regnanza(23).
Inoltre, l’immagine troppo radicale e violenta di una repubblica popolare fece indebolire le alleanze interne ed esterne, contrarie ad un governo, sempre più spostato sul versante del popolo minuto, nonché antimonarchico, antiassolutista e rivoluzionario sanguinario.

Simile repubblica, ove il popolo si sostituiva al sovrano con la minaccia di sottrarre i beni ai legittimi possessori per interesse privato (esproprio repubblicano per pubblica utilità), sollevò grandi timori tra vari esponenti compartecipi della società locale e di altri stati. Comunque, già il 16 luglio, nella solenne ricorrenza della Madonna del Carmine, il tumulto era rientrato con l’assassinio del pescivendolo Masaniello, le cui spoglie furono poi sepolte nella chiesa del Carmine, oltre allo sterminio dei suoi fedeli collaboratori. Nei mesi successivi, infine, fu sedata definitivamente ogni altra forma di lotta, proseguita dal Toraldo, l’Annese ed il Guisa(24).

Ben altro sviluppo ebbe, invece, la rivolta aristocratica del 1701 in Napoli, nota alle cronache col nome del suo principale protagonista, il principe di Macchia, D. Gaetano Gambacorta. Questa congiura scoppiò nel periodo in cui si aprì la questione successoria alla morte dell’imperatore Carlo II d’Asburgo e si profilò il passaggio della corona spagnola con i suoi domini ad un principe francese, Filippo di Borbone duca d’Angiò. A Napoli, in tale epoca, andò ad affermarsi un partito di aristocratici, capitanati da Tiberio Carafa principe di Chiusano, che ispirati da “un vago ideale autonomistico(25)  fecero un primo tentativo di delegittimare il vicerè, duca di Medinaceli, per contrapporgli il potere delle piazze e del corpo degli Eletti.
I congiurati, che si affiancarono al Carafa furono: il duca Francesco Spinelli di Castelluccia, Giuseppe Capece, Francesco e Bartolomeo Ceva Grimaldi duca di Telese, Savero Rocca dei marchesi di Vatolla, Malizia Carafa, Giambattista di Capua principe della Riccia, Cesare d’Avalos, marchese del Vasto, Francesco Gaetani principe di Caserta, Carlo ed Antonio Evoli dei duchi di Castropignano, Francesco Chassignet barone di Lisola ed altri nobili, sostenitori del partito asburgico-autonomista(26). Costoro, difatti, approfittando della contesa successoria tra i Borbone e gli Asburgo, tentarono di stringere un’alleanza con l’imperatore d’Asburgo, dell’ausilio del conte di Lamberg e del cardinale Grimani. Assicuratisi dalla loro parte la guarnigione militare di Castel Nuovo, nonchè influenti gruppi popolari, i congiurati spedirono a Vienna D. Giuseppe Capece per definire gli accordi di alleanza con il suddetto imperatore, Leopoldo I.
Si affiancarono ai congiurati altri valenti sostenitori, quali il principe di San Severo, Carlo di Sangro, Gaetano Gambacorta principe di Macchia che fu nominato “Generalissimo”. Gli eletti napoletani, invece, rimasero fedeli al viceré Medinaceli, il quale continuò a governare secondo le disposizioni della Spagna. I nobili cospiratori, ottenuto l’avallo imperiale sulle concessioni ed una promessa d’intervento armato tramite il principe Eugenio di Savoia, programmarono, quindi, la presa di Castel Nuovo, della chiesa di S. Lorenzo e del mercato, agendo con scorribande e saccheggi tra il 22 ed il 23 settembre 1701(27).

Il principe di Macchia giunse, pure, a lanciare un proclama onde convincere la nobiltà reticente (specie quella spagnola o filo-francese) a scendere in aiuto ai congiurati, senza però riuscire a persuadere gli Eletti cittadini. Lo scontro decisivo con le truppe regie ed un piccolo nucleo alleato di nobili, guidati dal principe di Montesarchio, avvenne il 24 settembre all’altezza tra lo Spirito Santo, Port’Alba e S. Lorenzo, con la messa in fuga dei ribelli. Si sedarono, poi, le rivolte scoppiate in Aversa, Isernia e Salerno. Il dopo-sommossa fu costellato da una violenta e sanguinosa repressione, voluta dal viceré Medinaceli per punire duramente i principali colpevoli(28). Il fallimento della rivolta fu, a detta di molti storici, da imputarsi alla “grande massa del popolo, su cui aveva fatto leva il Gambacorta per convincere gli altri nobili alla sommossa, resta assente, indifferente allo svolgersi dei fatti”.
Nella rivoluzione “passiva”(29) del 1799, che vide la nascita della Repubblica Napoletana, una parte della nobiltà si rese protagonista, con il ceto della borghesia “avanzata” e di quella intellettuale radicale, di un programma di iniziative riformiste ed anti-assolutiste dell’assetto istituzionale, seppur con l’ausilio di una forza militare straniera, comandata dal gen. Championnet(30). Durante la breve durata di questo governo giacobino-democratico-illuminista furono varate le leggi sulla eversione-soppressione della feudalità e scioglimento dei fedecommessi e majoraschi.
I sedili lasciarono il posto a sei municipalità indipendenti(31) e furono poi aboliti i titoli di nobiltà. A Napoli tra le fazioni politiche affermatesi vi fu quella che sosteneva che il governo cittadino fosse affidato, non al vicario Pignatelli (essendo il sovrano ritiratosi in Sicilia), bensì agli Eletti del senato municipale. Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, con altri nobili rivendicarono, inoltre, un governo aristocratico con nuovo re, scelto dalla Spagna (32).
La Repubblica partenopea sopperì con lo sviluppo delle insorgenze controrivoluzionarie della Santa Fede, capitanate dal cardinale Ruffo. Al rientro di re Ferdinando si ordinarono arresti e condanne a morte verso i ribelli, incriminati di lesa Maestà per aver collaborato con l’invasore francese e per insubordinazione verso il vicario.

fonte http://www.nobili-napoletani.it/sedili_di_Napoli.htm

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