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Il governo dei Nobili a Napoli: Autonomismo, decentramento, partecipazione governativa dei Seggi cittadini. (decima parte)

Posted by on Set 25, 2017

Il governo dei Nobili a Napoli: Autonomismo, decentramento, partecipazione governativa dei Seggi cittadini. (decima parte)

L’ORGANIZZAZIONE DEI SEDILI

IL RETICOLO URBANISTICO DEI SEDILI

 Dal periodo della regnanza normanna a quella angioina con la sua riforma, il numero dei seggi era così composto:

1 – 4 SEGGI MAGGIORI, corrispondenti topograficamente ai 4 quartieri più antichi della città di Napoli

2 – 25 SEGGI MINORI all’interno di quelli Maggiori. Questi sedili si suddividevano, a sua volta, in:

  1. A) OTTINEper il popolo;
  2. B) TOCCHIo Tocci per la nobiltà.

Molti di questi seggi minori presero il nome dalla famiglia nobile più potente ivi residente, nonché dalla chiesa presente nel quartiere, come dal luogo stesso. Tale moltitudine di seggi, distribuita su tutta la città in forma di maglia reticolare, garantiva un più funzionale decentramento dell’ordinamento amministrativo ed una maggiore autonomia governativa sulle decisioni territoriali. Ciò è documentato sia dalla lettera di S. Gregorio Magno ai napoletani, sia dalla scrittura d’immunità concessa da re Tancredi agli amalfitani (1190).

Simile modello di organizzazione amministrativa si diffuse anche in altre città regie del Mezzogiorno, quali ad esempio Aquila, Lucera, Sorrento, Trani e Cosenza, seppur anche nelle città demaniali si formarono aggregazioni nobiliari.

Dalla riforma di re Roberto d’Angiò (metà XIII sec.), il numero dei seggi scese a cinque e successivamente a sei, includendo quello di Popolo, restando invariato fino all’epoca della loro abolizione nel XIX secolo.

 

LA STRUTTURA DEL SEGGIO

 

Il seggio, oltre ad essere formato spesso da un edificio a pianta quadrata con una piccola sala per riunioni ristrette, aveva anche un locale adibito a sala per le assemblee, ove si riunivano i vari delegati iscritti delle aree rionali dei quartieri. Tali delegati erano scelti dagli iscritti al seggio che si chiamavano “cavalieri di seggio”,  mentre le consorti erano dette “dame di piazza”. Costoro provvedevano, in assemblea, alla nomina annuale dei rappresentanti di seggio, chiamati “consoli” nel basso medioevo e poi eletti ( sei deputati per ogni seggio, cinque eletti per quello di Nido, per un totale di ventinove rappresentanti con età superiore a ventuno anni) “pel mandato che ricevevano di elezione dal rispettivo seggio”.
Gli eletti erano rappresentanti delle principali famiglie aristocratiche, residenti nell’area, preposti ad occuparsi dei pubblici affari.
Costoro si radunavano periodicamente nel sedile per discutere in pubblico dibattito di varie problematiche cittadine, per le quali faceva seguito una specifica delibera. Questi esponenti, comunque, appartenevano a famiglie che erano, a detta dell’Ammirato, “un’ordine di discendenza, la quale trahendo una persona principio, e ne’ figliuoli, e da’ figliuoli a nipoti, e così per conseguente da’ nipoti a pronipoti ampliandosi”.

Gli eletti, su scelta del seggio, potevano recarsi a corte per riferire al sovrano quanto era stato deliberato dall’assemblea della piazza. Gli eletti, inoltre, avevano diritto di sedere nel Collaterale e precedevano negli onori i feudatari ed i supremi ufficiali del regno in tutte le solennità. Venivano consultati periodicamente dai sovrani, quando doveva essere promulgata una legge, rappresentando così un prezioso organo di rappresentanza cittadina, atto a scongiurare eccessive politiche fiscali.
Gli eletti dei sedili, con i feudatari del regno (principi, duchi, marchesi, conti, baroni) nonché con i sindaci, formavano il parlamento dei deputati della città di Napoli, che deliberava su numerose e variegate iniziative (donazioni alla corona: quelle del 1507-1520-1523-1524, la difesa militare, le campagne di guerra, accordi economici-commerciali etc).
Esisteva, poi, un parlamento generale che riuniva esclusivamente i baroni del Regno delle varie province per decisioni urgenti ed importanti sulla sicurezza dello stato o sulla raccolta della regalia reale(60).
L’ascrizione al seggio di nuove famiglie avveniva per il tramite di una commissione giudicante interna (poi sostituita nel tempo da altri organi), atta ad esaminare tutte le prove nobiliari (il vivere “more nobilium”), e si formalizzava attraverso una cerimonia con regole fissate dai capitoli del seggio. Tra le antiche prerogative, sull’esempio dei Tebani, si diffuse quella di ammettere tra la nobiltà “que’ del popolo, ch’eran ascesi a gradi di ricchezze, e quegli ancora che per lungo tempo erano nobilmente vissuti, ed avevano lasciato il mercantare, ed altri simili mestieri, o che per lungo tempo erano vissuti con arme e cavalli”. Si giunse, poi, ad aggregare sulla base del solo principio del “vivere nobilmente”, sia nel caso di “cittadini come forestieri”, nonché in base al contrarre “parentela co’ Nobili” o al vivere in un quartiere del seggio.

Il Mazzella, invece, ha evidenziato nella sua opera che taluni requisiti richiesti per appartenere alle classi nobili dovevano essere:

1.- “l’antichità”, cioè il “contar molti gradi, o come dir si debbia molte generationi, o’ ver molte età”;

2.– “lo splendore”, cioè “honori e dignità avute…baronaggi e titoli..le lettere, il valor militare, la fede, la liberalità, e la giustizia, e soprattutto la santità, la patria”.
E’ da evidenziare che i sedili, seppur erano autorizzati a questionare con controlli sui requisiti necessari al patriziato, non entrarono mai in merito nelle controversie sui diritti successori al titolo tra gli eredi. Taluni seggi, come Nido e Capuana, giunsero, invece, ad espellere quei personaggi ritenuti non più degni di appartenere alla piazza, a causa di un loro comportamento nefasto o per fatti incresciosi. Re Filippo II  stabilì, come già detto, che l’aggregazione di una famiglia al seggio doveva ottenere la nomina regia. Difatti, sotto tale sovrano fu respinta la richiesta del menzionato gruppo di nobili di aprire le “piazze” ad altre famiglie, aumentandone il numero.
Il viceré di Napoli, don Giovanni Mariquez de Lara, giustificò il sovrano rifiuto con l’aver voluto evitare un contrasto tra la nobiltà di Piazza e la nobiltà fuori Piazza o extra sedile.
Tale diniego reale intese non modificare l’organizzazione dell’antico governo cittadino, nonostante l’espansione della città di Napoli con suo modificato assetto urbanistico e consequenziale crescita degli abitanti, nonché la riduzione del numero degli esponenti di alcuni seggi (Porto e Montagna) a causa dell’estinzione di talune famiglie ascritte.
In sintesi fu preclusa, alla più recente nobiltà ed al ceto borghese, la possibilità di entrare a far parte del governo amministrativo, rappresentando, inoltre, un primo tentativo palese della monarchia di indebolire il governo dei sedili, garante dell’antico sistema oligarchico aristocratico. Del resto, i sovrani ed i viceré, videro nei sedili, per la loro forza sociale e politica, la costante minaccia degli equilibri governativi all’interno della città e del regno. Ciò spiega, difatti, i divieti imposti nel corso dei secoli alle piazze a riunirsi in assemblee, senza autorizzazione reale giustificatrice. Qualora il governo reale veniva a conoscenza di iniziative del genere da parte dei sedili, provvedeva allo scioglimento delle adunate con l’uso della forza.

Il Mazzella, invece, ha evidenziato nella sua opera che taluni requisiti richiesti per appartenere alle classi nobili dovevano essere:

1.- “l’antichità”, cioè il “contar molti gradi, o come dir si debbia molte generationi, o’ ver molte età”;

2.– “lo splendore”, cioè “honori e dignità avute…baronaggi e titoli..le lettere, il valor militare, la fede, la liberalità, e la giustizia, e soprattutto la santità, la patria”.
E’ da evidenziare che i sedili, seppur erano autorizzati a questionare con controlli sui requisiti necessari al patriziato, non entrarono mai in merito nelle controversie sui diritti successori al titolo tra gli eredi. Taluni seggi, come Nido e Capuana, giunsero, invece, ad espellere quei personaggi ritenuti non più degni di appartenere alla piazza, a causa di un loro comportamento nefasto o per fatti incresciosi. Re Filippo II  stabilì, come già detto, che l’aggregazione di una famiglia al seggio doveva ottenere la nomina regia. Difatti, sotto tale sovrano fu respinta la richiesta del menzionato gruppo di nobili di aprire le “piazze” ad altre famiglie, aumentandone il numero.
Il viceré di Napoli, don Giovanni Mariquez de Lara, giustificò il sovrano rifiuto con l’aver voluto evitare un contrasto tra la nobiltà di Piazza e la nobiltà fuori Piazza o extra sedile.
Tale diniego reale intese non modificare l’organizzazione dell’antico governo cittadino, nonostante l’espansione della città di Napoli con suo modificato assetto urbanistico e consequenziale crescita degli abitanti, nonché la riduzione del numero degli esponenti di alcuni seggi (Porto e Montagna) a causa dell’estinzione di talune famiglie ascritte.
In sintesi fu preclusa, alla più recente nobiltà ed al ceto borghese, la possibilità di entrare a far parte del governo amministrativo, rappresentando, inoltre, un primo tentativo palese della monarchia di indebolire il governo dei sedili, garante dell’antico sistema oligarchico aristocratico. Del resto, i sovrani ed i viceré, videro nei sedili, per la loro forza sociale e politica, la costante minaccia degli equilibri governativi all’interno della città e del regno. Ciò spiega, difatti, i divieti imposti nel corso dei secoli alle piazze a riunirsi in assemblee, senza autorizzazione reale giustificatrice. Qualora il governo reale veniva a conoscenza di iniziative del genere da parte dei sedili, provvedeva allo scioglimento delle adunate con l’uso della forza.

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