Il governo dei Nobili a Napoli: Autonomismo, decentramento, partecipazione governativa dei Seggi cittadini. (le note finali)
A chiusura delle pubblicazioni precedenti chiudiamo con le note.
Note:
1) Parrino, Teatro de’ Viceré il Conte di Castrillo, T. III, pp.193-194.
2) S. De Renzi, Tre secoli di rivoluzioni napoletane, Napoli 1885, p.29.
3) S.Volpicella, Studi di Letteratura, Storia ed Arti, Napoli, 1876, p.15.
4) Cfr.C.Porzio, La congiura dei Baroni del regno di Napoli contro il re Ferdinando I, Milano 1965,ristampa Ed.Rizzoli.
5) cfr.E.Perito, La congiura dei baroni e il conte di Policastro, Bari, 1926.
6) Santoro, La spedizione di Lautrec nel regno di Napoli, a cura di T.Pedio, Galatina, 1972, p.58.
7) Ibid.
8) cfr.N.Cortese, Feudi e Feudatari napoletani nella prima metà del cinquecento, Napoli, 1929, pp.28-150.
9) Le assemblee furono quelle del 1536, 1538, 1539, 1541, 1543, 1546, 1549, 1552.
10) S.De Renzi, Op. cit., p.52.
11) cfr.U.Folieta, Tumultus Neapolitani sub Petro Toleto, Napoli, 1769; A.Liberati, Tumulti avvenuti in Napoli nel 1547, Siena, 1910.
12) S. De Renzi, Op.cit., p.74.
13) T.Costo, Dell’Istoria del Regno di Napoli, Napoli, pp.399 e ss.
14) G. D’Agostino, Re Viceré Rivolte, Napoli, 1993, p.101.
15) Cfr. M. Bisaccioni, Historia delle Guerre Civili de gli ultimi tempi, Venezia, 1652. Scrive l’autore (p.449) in merito a questi rapporti di alleanza tra nobili e popolo che “togliere il Genoino a Maso e al popolo era un togliere un timone ad una nave agitata da’flutti”.
16) S. De Renzi, Op. cit., p.106.
17) V. Conti, La rivoluzione repubblicana a Napoli e le strutture rappresentative, 1647-1648, Firenze 1984, p.5.
18) A History of the late revolutions in the kingdom of Naples del 1652.
19) M.Miato, Maolino Bisaccioni,Istoria delle Guerre Civili di Napoli, Firenze, 1991,pp.XIII-XIV.
20) Archivio di Stato di Firenze, Mediceo, 4146, Napoli 22 marzo 1648. Il carteggio di Vincenzo de Medici riferisce, invece, dell’esistenza di 32 senatori, di cui 10 arcivescovi, 10 deputati della nobiltà, 10 deputati del popolo, 12 deputati delle Provincie.
21) La neonata repubblica garantì: 1.la nomina dell’eletto del popolo mediante “pubblico parlamento” da tenersi presso la chiesa di S.Agostino con la partecipazione dei capi delle Ottine; 2. l’Eletto del popolo restava in carica sei mesi ed aveva “tanti voti quanti i cinque sedili de’nobili”; 3. l’abolizione della gabella sulla frutta e la spettanza al popolo della determinazione delle nuove imposizioni; 4. la possibilità di rimanere in armi per il popolo, fino a quando non giungevano le conferme reali della Spagna 5. il divieto agli stranieri di mantenere alcuni principali uffici (cfr.S.De Renzi,Op.cit.,p.137)
22) F.Capecelatro, Diario, contenente la storia delle cose avvenute nel reame di Napoli negli anni 1647 al 1650, Napoli, 1665, parte III, p.497.
23) Secondo alcune fonti storiche, Masaniello respinse il messo dell’ambasciatore francese di Roma, con sua proposta di sottomissione alla corona di Francia, asserendo che “non voleva altra corona se non quella della Madonna” ( S. De Renzi, Op.cit., p.120). I suoi successori, poi, mal tollerarono la fedeltà alla corona spagnola.
24) Il duca di Guisa fu catturato sulle colline di Santamaria, mentre tentava di mettersi in salvo, e rinchiuso nel castello di Gaeta. Fu imprigionato anche il principe di Montesarchio, torturati Gennaro Annese, Tiberio Ferro, Paolo Bicchiero, Pasquale di Santantimo ed Andrea Ruocco.
25) G. D’Agostino, Op.cit.,p.105. Si aggiunga tra le cause il diffuso clima anti-spagnolo, presente nel ceto aristocratico, contro il quale si era scagliato il viceré Medinaceli con ogni forma repressiva. “Furono mandati in esilio i principi di Montesarchio e di Troja ed il principe Carafa della Rocella, e don Diomede Carafa duca di Maddaloni era morto in una fortezza presso Madrid…nelle carceri di Castelnuovo il duca di Torella per atti di superbia; aveva mandato il duca di Airola prigioniero in Capua…Il principe della Riccia fu sostenuto nel Castel di S.Eramo per ingiustizie commesse a due suoi vassalli di Montoro” e poi perseguitato tanto da trovare rifugio presso il monastero dei padri Crociferi a porta S.Gennaro. Numerosi nobili ivi accorsero a sostegno del principe e “fu così che si concepì la prima idea della cospirazione” contro il dispotismo ispanico (S.De Renzi, Op. cit., p.202). L’autonomismo dalla Spagna si prefiggeva il “ripristino degli antichi privilegi goduti dal patriziato sin dall’epoca degli angioini”(G.Vico, La congiura dei principi Napoletani del 1701, a cura di E. De Falco, Napoli, 1970, p.12).
26) Gran parte di questi patrizi apparteneva “alla nobiltà di spada, sfarzosa e pomposa ma povera di potere economico-politico”(G.Vico, Op.cit.,p.17).
27) Il duca di Vasto aveva raccolto una banda di ribelli, guidata da Scarpa-leggia, che da Benevento si spostò verso Napoli a seguito del duca di Castelluccia, dei Carafa e del principe di Macchia. Da porta S.Gennaro, costoro si portarono nei quartieri bassi, raccogliendo circa seimila persone, per poi raggiungere la Vicaria, ove furono liberati prigionieri ed incendiato e saccheggiato il tribunale ed i suoi archivi. Si spostarono in S. Lorenzo, mentre il principe Macchia prese il campanile di S.Chiara, lo Spirito Santo, le fosse del grano, giungendo al seggio di Porto e mettendo in ritirata il viceré in Castelnuovo.
28) Carlo Di Sangro fu decapitato, il Capece evitò analoga condanna suicidandosi, i Carafa e gli Spinelli fuggirono in esilio, raggiungendo il principe Eugenio di Savoia, mentre il principe di Riccia, il duca Giuseppe d’Alessandro di Pescolanciano, i fratelli Acquaviva e tanti altri nobili napoletani furono condotti nelle prigioni di Castel Nuovo, poi liberati dalle milizie austriache del conte di Daun. Il Di Capua, gli Acquaviva ed il Chassignet non rividero la libertà, perché trasferiti nelle carceri della Bastiglia, in Francia.
29) Tale definizione è attribuita a Vincenzo Cuoco, il quale intese riferire che si trattò di un moto non generato dalle popolazioni locali,come avvenne per la rivoluzione francese del 1789, bensì imposto esternamente dagli eserciti invasori francesi nel regno di Napoli.
30) Di fatto, già nel 1794 taluni aristocratici furono condannati per coinvolgimento nei tumulti contro il governo, quali: L. de Medici, il Colonna di Stigliano, il conte di Ruvo, il duca di Canzano.
31) Queste furono chiamate: Sannazzaro, Montelibero, Colle Giannone,Umanità, Sebeto, Masaniello.
32) Il Capece Minutolo fu autore delle opere “Discorso sulla Decadenza della Nobiltà” (1803), “I pifferi di montagna” (1820), “Perchè il sacerdozio dei nostri tempi e la moderna nobiltà dimostrati non siansi ugualmente generosi ed interessati come gli antichi per la causa della monarchia e dei re”. Sostenitore dell’utilità della monarchia e difensore dei privilegi della classe aristocratica-baronale, partecipò alle vicende del ’99, asserendo quale eletto del sedile di Capuana, che l’autorità governativa, in assenza del re, doveva spettare ai nobili e non al vicario Pignatelli. Avverso, pure, alle decisioni giacobine di abolizione dei feudi senza indennizzo per i proprietari, si sottrasse ad una condanna a morte decretata dai repubblicani, riuscendo a fuggire.Non evitò, però, l’arresto per complicità con i rivoluzionari, con il rientro del re Ferdinando. Il Capece Minutolo nella sua opera “Discorso sulla Decadenza della Nobiltà” illustrò la situazione di crisi del ceto aristocratico, ormai svilito delle sue antiche funzioni di “generosità”, nonché sempre più escluso dal governo reale assoluto, grazie all’opera di diffamazione svolta dai magistrati e ministri, nonché dai “filosofi” miscredenti, che lottavano contro il Trono e l’Altare. Tale tesi prese spunto dall’opera dell’abate Augustin Barruel e da quella del de Montesquieu, con la quale si ribadiva che la nobiltà rappresentava l’essenza reale per la Monarchia (“dove non vi è Monarca non vi è nobiltà,ove non vi è nobiltà non v’è Monarca”) e senza la quale, il sovrano diventava dispotico ed assolutista, con rischio di essere rovesciato dai rivoluzionari (“Il chiamare privatamente a sé il Sovrano tutto il potere snerva l’energia dei sudditi”).
33) P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, T.IV, Napoli, 1821, pp.253-254.
34) Cfr. M.T.Varrone, De Lingue Latina liber 15,nel lib.3: “Phratria, est Graecum vocabulum partis hominum, ut Neapoli etiam nunc”. Pietro della Senna (Testo di Strabbone) conferma questa costumanza greca, introdotta nella Partenope ellenica come lo fu per il Ginnasio, scrivendo “Plurima tamen di Graecorum Institutorum supersunt vestigia, ut Gymnasia Epheboru Cactus, Fratriae”.
35) Cfr. JJ. Draco, De Origine et jure Patriciorum, Libri tres, Basileae,1627.
36) Cfr. O. Gentili, De Patriciorum Origine, Varietate Praestantia et Juribus, Libri quatour, Romae, 1736.
37) Esiste un’estesa storiografia sulle costumanze del patriziato (patres=fondatori) nell’epoca della Roma repubblicana ed imperiale. Alcuni cenni per ricordare i percorsi di crescita culturale dei giovani rampolli nelle arti della grammatica, della retorica e filosofia dell’antica Grecia. Le consuetudini dei matrimoni giovanili, combinati dai genitori, servì a garantire alla Gens di appartenenza un maggior prestigio. Si annoverano, poi, le tradizionali cariche politico-amministrative, cui il nobile poteva ambire, quali: questore (amministrava il tesoro statale), edile (sovrintendeva ai lavori pubblici), pretore (presiedeva ai tribunali), console e proconsole (con funzioni di comando militare e di governo della Provincia). Era, quindi, consuetudine affidare incarichi politici ai “membri delle antiche e illustri famiglie” perché ritenute custodi secolari del buon governo della città. Difatti, l’opinione diffusa sull’alto senso di responsabilità-moralità,sul sentito patriottismo, goduto dalla nobiltà di sangue portò una grande maggioranza di patrizi a coprire importanti cariche pubbliche, tra cui il Senato romano. Per renderli inattaccabili, il senato-consulto del 219 a.C. vietò a costoro di dedicarsi “agli affari, alla banca, al commercio”, cioè a tutte quelle attività che assicuravano lauti guadagni al ceto medio dei cavalieri (cfr R. Ferruzzi, Roma dalle origini alla fine dell’Impero d’Occidente, Torino, 1947). I membri del patriziato, elevati al rango senatoriale, in epoca romana e post-barbarica, oltre a rispettare il divieto di svolgere “mestieri ignobili” (tra cui anche l’attività teatrale e gladiatoria citata dal senato-consulto del 22 a.C.) dovevano mantenere comportamenti morali adeguati alla propria “dignitas” familiare o meglio a quel “rango privilegiato che sottrae l’individuo alla sorte comune, ma esige anche da chi la possiede una condotta esemplare”(cfr.A.Giardina, L’uomo romano, Bari 1994; AA.VV., Cavalli e cavalieri nella storia, nella letteratura e nell’architettura del Molise, Campobasso, 2003). Il ceto aristocratico aveva, quindi, per il rango sociale riconosciuto, un “onore” da tutelare e salvaguardare nella discendenza di sangue.
38) C. Tutini, Dell’origine e fundazione de seggi di Napoli,del tempo che furono istituiti e della separatione dei Nobili dal Popolo,Napoli, 1644, Cap.4-6.
39) F. Pagano, Istoria del Regno di Napoli, Palermo, 1832, p.423.
40) Cfr. F. Capecelatro, Degli Annali della città di Napoli, P. II, 1631-1640, Napoli, 1850.
41) N. Della Monica, Le grandi famiglie di Napoli, Roma, 1998, p.12
42) La tradizione baronale delle province del Mezzogiorno d’Italia fonda le sue radici nel sistema romano di acquisizione delle terre da parte dei coloni e dei fedeli miles (cui spettava ricompensa in terre, “donativa”, al termine del servizio o per meriti di guerra). La proprietà terriera comprendeva la villa o fortilizio, dimora del signore, presso cui si avvicinarono le popolazioni locali (familiari, amici, clienti) per fuggire alle incalzanti scorribande delle tribù barbare, avvicendatesi sul territorio italico da metà dell’anno quattrocento. Costoro ricambiavano la ricercata protezione del padrone-notabile con sue soldatesche, offrendo servizi ed impegni, cioè “l’accomandigia” basata sul principio di somma fedeltà e fratellanza d’armi (cfr. R.Barber, Il mondo della cavalleria, Milano, 1974). Questo patto di fedeltà verso il signore-sovrano, in cambio di protezione e sostentamento, era poi garantito dall’onore (“signum magnanimitatis”) del feudatario (l’Acquaviva definì l’onore quale “sole della vita; come il sole fa distinguere i colori, così esso fa distinguere il gentiluomo dal furfante”). Tale forma di servizio contraccambiata rappresenta il perno su cui si formò il sistema socio-economico del vassallaggio feudale, sia nel regno longobardo con i suoi ducati che in quello franco con le sue contee e marchesati. La baronia feudale cominciò, pertanto, ad essere trasmessa nella rispettiva discendenza familiare primogenita mascolina, nonché essere istituzionalizzata con un titolo nobiliare di concessione regia. Queste signorie mantennero la loro indipendenza e furono impegnate ad ingrandire i propri possedimenti, accrescendone la potenza a spese della corona, tanto da rappresentare una sorta di stato nello stato (E.Gothein, Il Rinascimento nell’Italia Meridionale, Firenze, 1915, p.5). Un noto esempio è la storia del ramo napoletano degli Orsini che giunsero a possedere, sotto re Ferrante, cinque ducati e sette Grandi Uffici della Corona. Quante più proprietà fondiarie feudali possedeva il Casato, tanto maggiore era la potenza della famiglia, che spesso si riuniva sotto un riconosciuto capo-famiglia (è il caso dei “Caldoreschi”, gruppo familiare dei Caldora, che erano soliti presentarsi in gran numero ed uniti nei parlamenti di Ferdinando il Cattolico, dei Sanseverino, dei Caracciolo etc.), nonostante le consuete liti. Si ricorda, poi, che ai vassalli, secondo il diritto feudale, il signore concedeva il permesso di far celebrare i matrimoni. Taluni baroni, inoltre, ebbero il diritto di battere moneta (principe di Taranto e di Salerno), nonché di esercitare il potere giudicante nel feudo o di nominare i governatori e capitani. Nel tempo, crebbe l’interesse dei baroni verso le attività speculative, garanti di buoni e facili guadagni (commercio del grano e dell’olio), mentre si astennero dall’esercizio dell’agricoltura per il mercato. Per tali prerogative rivendicarono forme di governo autonomo ed individualista con l’appoggio delle dinastie straniere, di cui detti signori si fecero ardenti sostenitori in base alle circostanze (come nel caso del partito angioino e durazzesco). Dalla regnanza degli Angioini, in poi, la corona cercò di non inimicarsi i feudatari, offrendo loro cariche e titoli in cambio di fedeltà ed alleanza. I contrasti e le lotte, comunque, non mancarono quando una delle parti non rispettò gli accordi e consuetudini. I baroni giunsero a mettersi al servizio anche di stati forestieri (come per la Repubblica di Venezia) in qualità di mercenari. Difatti, si contano tra le loro fila numerosi capitani e famosi condottieri (Giacomo Caldora, Francesco Sforza).
43) Discorso Istorico sopra l’ordine, ossia milizia del cingolo militare in Sicilia dal Gran Conte Ruggeri istituita, del sacerdote Giovanni d’Angelo e Cipriani (testo di fine ‘700).
44) Tra i provvedimenti del 1298 per i membri del seggio di Capuana vi era quello di astenersi per cinque anni da spese superflue, quale l’abbigliamento lussuoso e sfarzoso, di cui dava sfoggio la nobiltà per confermare il proprio rango sociale.
45) Sotto gli Svevi si verificò che vari esponenti del patriziato cittadino entrarono nelle schiere delle famiglie baronali per i meriti ed i favori riconosciuti dai sovrani, nonché per matrimoni contratti. Tale nobiltà di seggio cominciò, così, a godere di una particolare importanza politica, riconosciuta in tutto il regno per la loro residenza cittadina in Napoli (“Da molti secoli infatti ella era stata la capitale della Campania e la sede del governo, e per nobiltà e riputazione vinceva senza contrasto tutte le altre città”. I. Bracelli, De Bello Hispaniensi, Roma, 1573, p.14 t.) e soprattutto per il significativo numero accentrato e ben organizzato di patrizi ivi dimoranti. Queste famiglie patrizie andarono mostrando interesse, a quel tempo, nella produzione delle proprie terre, da cui traevano prodotti per il proprio consumo. Difatti, per tale motivo, re Federico ritirò la legge sulla mobilizzazione dei demani, con cui si consentiva anche ai non nobili l’acquisto di dette terre reali (cfr.E.Gothein, Op.cit., p.35). L’interesse per l’agricoltura e la guerra fu in seguito gradualmente sostituito con quello per lo studio del diritto (jus longobardorum), che formò diversi funzionari fedeli alla corona, impiegati nei tanti uffici capitolini. Iniziò, così, a costituirsi, una nobiltà di funzionari di seggio (cfr.E.Gothein, Op.cit., p.39), che approfittò talvolta della propria posizione per curare ed accrescere gli interessi familiari. Invece, a questo “servizio per il Re”, taluni esponenti cadetti anteposero il “servizio per la Chiesa”, acquisendo varie cariche (sacerdoti, monaci, vescovi, suore etc.).
46) Cfr.Registro di Re Roberto, a.1338. Circa questa lite il Capecelatro (F.Capecelatro, Origine..Op.cit.,p.123) riferisce essere stata una contesa tra la nobiltà di Porto e Portanuova contro quella di Nido e Capuana su pari lignaggio. La sentenza reale stabilì “che i cittadini di Porto e di Portauova fossero più degni del Popolo, ma inferiori de’ Nobili di Nido, e di Capuana, e sono nominati dal Re, Mediani cittadini”.
48) Scrive il Capecelatro “il tumulto a fatica si posò con esservi accorso il Principe Ottone marito della Regina e tutti i maggiori Baroni, che si ritrovarono in Napoli” (F.Capecelatro, Origine..Op.cit.,p.128).
49) C. Torelli, Lo splendore della nobiltà napoletana ascritta nei cinque seggi.Giuoco d’arme, Napoli, 1678, p.14, ma ristampa Orsini de Marzo.
50) Nel 1291 esistevano due sindaci per gli “affari pubblici”, di cui uno “milite” ed uno “mercante”; nel 1300 la deputazione per le mura cittadine era formata da cinque nobili e un cittadino; poi nel 1385 gli “Otto del buon governo” furono sei nobili e due cittadini; nel 1400 la Deputazione sotto re Ladislao si compose di sei nobili e due cittadini; nel 1418 il governo pubblico sotto la regina Giovanna II fu formato da dieci nobili e dieci cittadini; nel 1435 il governo della città finì per essere di dieci nobili e sette cittadini.
51) Secondo il Summonte (G. A. Summonte, Historia della città e regno di Napoli, Napoli, 1748, L. I, p.251) era diffusa anche la consuetudine di accordare la nobiltà materna ai discendenti, nati da padre non nobile. Inoltre, sotto gli Angioini, l’educazione dei giovani nobili era, comunque, importante tanto da essere seguiti da educatori. Costoro avviavano la gioventù allo studio del diritto, seppur ben presto si diffuse un modello di educazione “umanista”(diritto, filosofia, arte del cavalcare, del giostrare, della scherma), come testimoniò il giurisperito Alessandro d’Alessandro nella sua insigne opera “Geniales Dies”. L’aspirazione professionale, post-studio, rimase nei giovani nobili, quella di diventare funzionario negli uffici reali.
52) L’ascrizione ai seggi di Capuana e Nido richiedeva, ad esempio, avere “quattro parti di nome e d’arme senza alcun ripezzo”, essere discendente legittimo e senza vizi, mentre i capitoli del sedil di Montagna prevedevano anche la possibilità di essere nobilitati dal re seppur mercanti.
53) E. Pontieri, Alfonso il Magnanimo Re di Napoli, 1435-1458, Napoli, 1975, p.50. Il re “sedeva sopra un carro dorato, tirato da quattro destrieri e preceduto da musici e tubicini; un baldacchino s’innalza sulla sua persona regalmente vestita di una lunga tunica di velluto cremisi foderato di martore calabresi e con nelle mani il globo e lo scettro, simbolo della sovranità; lo seguivano i baroni del Regno con alla testa Ferrante suo figlio, vescovi, patrizi, cavalieri”.
54) Fu creato il tribunale della Vicaria, cui spettò la decisione di ogni lite di diritto feudale, nonché si occupò dell’amministrazione dei beni della Corona ed il suo presidente fu il capo della polizia di Napoli.
55) E. Gothein, Op.cit.,p.46. In epoca aragonese, il patriziato fu alquanto accorto all’insegnamento educativo dei propri rampolli, facendoli avvicinare “alla vita di corte, al divertimento raffinato e mondano”. Il giovane nobile era solito essere seguito dal suo educatore nello studio della musica, del canto e della danza (G.Vitale, Op.cit., pp.40-45), oltre a saper “scivere bene”e “saper cavalcare”. Il modello educativo si compose, quindi, di nuove materie non rientranti negli schemi tradizionali d’insegnamento, che privilegiavano i “rigorosi compiti di governo e le gloriose gesta militari”. Comunque, si prediligeva l’insegnamento fisico, legato alle tecniche del guerreggiare (combattimento a cavallo con lancia e spada), che davano agli “equites” quella dignità cavalleresca (cfr.A.Galateo, De Educatione, 1505).
56) Scrive il Summonte (G. A. Summonte, Historia della città e Regno di Napoli, Napoli, 1748, p.15) “quei del popolo tumultarono, e fu costretto il re a cavalcare per la città, per sedare il romore, et in pena del tumulto, ne restò privo il Popolo della voce nel governo pubblico”.
57) A. Mattei, Storia d’Isernia, Napoli, 1978, Vol.II, pp.307-308. Nel 1531 il nuovo Vicerè, Pompeo Colonna, richiese altri seicento mila ducati nel Parlamento generale, nonostante le proteste dei deputati del Popolo (S.De Renzi, Op.cit.,p.43).
58) Durante il viceregno si diffusero modelli culturali selettivi sulle “buone maniere” (G. Vitale, Op.cit., pp.52-99), secondo le costumanze comportamentali della corte spagnola (servizio di tavola, elaborazione di cibi e vivande esotiche, abbigliamento squisito, il servire e prendere il cibo).In questi comportamenti educativi,estremamente raffinati e lussuosi (cfr.D. Carafa, Libro delli precepti,), si intravide una “tendenza al distacco aristocratico da parte degli strati superiori”(G.Vitale, Op. cit., p.56) che mantennero una spinta “fortemente selettiva nei confronti dei ceti emergenti” e della nobiltà medio-piccola di seggio. Il Galateo criticò questo modello educativo, perché lasciò quello schema umanistico (basato sulla conoscenza delle lettere, dell’addestramento fisico e delle armi) per altro concentrato sul lignaggio apparente e mistificatorio. Si diffuse, in questo periodo, il “dibattito sulla qualificazione nobiliare connessa con la nascita o addirittura con l’ascrizione a questo o a quel seggio”(G. Vitale, Op. cit., p.95). In merito, il Marchese (F. E. Marchesii, Liber de neapolitanis familis ad Hieronymum Carbonem, in Vindex neapolitanae nobilitatis Caroli Borrelli, Napoli,1653) sottolineò come l’antico lignaggio delle famiglie nobili di seggio doveva rimanere collegato ai fattori della ricchezza e virtù.
59) L’ordine citava “no se possiede intentar por mis Ministros actuales durante su Ministerio, ni por sus Parientes Reintegraciones a estas Plazas”. (Riflessioni intorno alla giustizia del divieto che hanno li signori Ministri a poter dimandare reintegrazioni agli onori delle Nobili Piazze Napoletane, Napoli, 1739, p.12).
60) Il Capecelatro (Origine della città, Op. cit., p.147) scrive che tale parlamento era “solito radunarsi ogni due anni” per decidere “il solito dono al Re di due milioni di ducati”.
61) Secondo il Capecelatro (Origine della città.., Op. cit., p.143) gli eletti, detti capitani del Tribunale dell’Annona, con il Prefetto dell’Annona nominavano il Grassiere, con il compito “di fare, che le cose vadano per lo loro dritto sentiero, e andando altrimenti, impedirle, e darne contezza al Re o al Capitan Generale”. Gli eletti con il Grassiere, poi, potevano punire i misfatti con varie pene, esclusa quella della morte.
62) cioè rango episcopale, con relative insegne e facoltà; furono concessi dal XVII al XX secolo con varie Bolle pontificie, l’ultima delle quali è la Bolla Neapolitaane Civitatis Gloria di Papa Pio XI, in data 15 agosto 1927, che concede all’Ill.mo e Rev.mo mons. Tesoriere il “titolo,dignità e privilegi del Protonotario apostolico ad instar e il titolo di Abate della soppressa Badia di Mirabella Eclano, con i privilegi degli Abati cassinesi” e agli Ill.mi e Rev.mi Cappellani, durante munere, i privilegi di Prelati domestici di Sua Santità.
63) L’Abate Tesoriere della Cappella viene nominato con Breve apostolico dalla Santa Sede, a cui risponde direttamente