Giuseppe Mazzini terrorista
Padre nobile dell’Italia unita e “cattivo maestro”. Era pronto a tutto pur di cacciare lo straniero. Fino ad usare tattiche terroristiche come a Milano nel 1853.
Desta sicuramente qualche stupore l’accoglienza irata che è stata riservata al film di Mario Martone, Noi credevamo, presentato nelle scorse settimane al Festival di Venezia, dove viene esibito un Risorgimento fatto non soltanto di nobili imprese, di battaglie gloriose, di accorte manovre diplomatiche ma anche di un «cuore di tenebra» terroristico impersonato da Giuseppe Mazzini. In un articolo del «Corriere della Sera», Giovanni Belardelli ha definito questa rappresentazione «semplicemente una sciocchezza», ribattendo che se terrorista è colui che uccide un certo numero di persone, del tutto innocenti, al fine di incutere un sentimento di panico nei rappresentanti del potere e di accreditare contemporaneamente la propria forza presso l’opinione pubblica, questa definizione non può certo riguardare Mazzini, il quale si era limitato a invocare soltanto il legittimo diritto di resistenza contro la tirannia.
La verità storica contrasta però con questa difesa di ufficio del «padre nobile» della nostra epopea unitaria, come dimostra il recente volume di Giuseppe Rizzo Schettino, Terrorista per sistema, non per cuore. Vita di Carlo Bianco (Carocci, € 10,80), che tratteggia molto bene i rapporti tra il creatore della Giovane Italia e il conte di Bianco di Saint-Jorioz legato alla tradizione massimalista di Robespierre, Babeuf, Buonarrotti. Sicuramente Mazzini tentò di prendere le distanze da questa linea politica estremista, sostenendo, nel 1833, di «aborrire lo spargimento del sangue fraterno e di non volere il terrore eretto a sistema» e sottoponendo l’opera di Saint-Jorioz (Manuale pratico del rivoluzionario italiano) ad una vera e propria censura preventiva. L’operazione di editing non fu però completa e Mazzini lasciò nel testo dell’aristocratico piemontese una frase molto significativa nella quale si affermava che «per ottenere la liberazione della patria anche i mezzi, ritenuti come barbari nelle guerre regolari, dovevano essere utilizzati per atterrire, spaventare, distruggere il nemico».
Passando dalle parole ai fatti, è difficile non parlare di una strategia terroristica mazziniana, se si pensa alla fallita insurrezione milanese del febbraio 1853. Allora, il partito mazziniano progettò di assassinare tre aristocratici milanesi, postisi al servizio dell’amministrazione austriaca, in modo da provocare la reazione del governo, che si prevedeva talmente dura da suscitare una rivoluzione tra le masse operaie della città. Durante i preparativi della rivolta, uno stretto collaboratore di Mazzini, Felice Orsini, il quale poi cercò di uccidere Napoleone III, nel gennaio del 1854, provocando una carneficina tra i passanti parigini, aveva affermato che «la prima legge della cospirazione imponeva il ricorso ad ogni mezzo che valga a distruggere il nemico».
Questa tattica stragista, di cui direttamente o indirettamente Mazzini fu «cattivo maestro», incontrava la ferma disapprovazione di altri esponenti del movimento democratico. Carlo Cattaneo rimproverò Mazzini per la sua ostinazione a immolare i suoi seguaci «in progetti intempestivi e assurdi». Garibaldi ricordò con amarezza, nelle sue Memorie, gli inganni e la duplicità della politica mazziniana, concepita da «un uomo che parla sempre di popolo, ma non lo conosce». Marx, in un articolo del «New York Daily Tribune» dell’8 marzo 1853, sparse tutta la sua tagliente ironia per deprecare le «rivoluzioni improvvisate» di Mazzini che comportavano l’inutile sacrificio di insorti e popolazione. Nel 1858, il grande giornalista francese Emile de Girardin avrebbe rincarato la dose, affermando che Mazzini era incapace di far distinzione «tra le congiure e le insurrezioni, tra il pugnale dell’imboscata e il fucile della barricata». Ancora più duro sarebbe stato il giudizio del moderato italiano Luigi Sanvitale che parlò esplicitamente dell’ispirazione «terroristica» del rivoluzionario genovese, il quale «disseminando menzogne, induce incauta gente a cieche frenesie sciagurate».
Paradossalmente, tuttavia, l’unico regicidio portato a termine durante il periodo risorgimentale non fu imputabile alla responsabilità di Mazzini. Nel marzo del 1854, il duca di Parma, Carlo III di Borbone, veniva pugnalato a morte da un oscuro artigiano, Antonio Carra. L’ipotesi di un presunto «grande complotto mazziniano», sulla quale si erano indirizzate in un primo momento le indagini si rivelava però del tutto inconsistente. Secondo una diversa ricostruzione, ancora tutta da verificare, dietro l’omicidio del duca si allungava, invece, l’ombra di Cavour che avrebbe deciso di utilizzare lo strumento dell’assassinio politico per favorire l’espansione della monarchia piemontese nella pianura padana. Se la veridicità di questa pista venisse dimostrata, il gesto di Cavour, letto in un’ampia prospettiva storica, non dovrebbe comunque provocare nessuno scandalo e nessuna indignazione. La nascita di ogni nazione è stata sempre segnata, a partire dalla fondazione di Roma, da un battesimo del sangue. Ed in questo, almeno, non è veramente possibile parlare di un’«eccezione italiana».
Eugenio Di Rienzo
(Pubblicato il 9 ottobre 2010 – © «Libero»)