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Il mito di Parthenope, la sirena che culla Napoli

Posted by on Gen 11, 2017

Il mito di Parthenope, la sirena che culla Napoli

Che Napoli sia una città di origine greca lo si evince dalla sua pianta ippodamea [da Ippodamo: architetto e urbanista greco antico, primo ad utilizzare e teorizzare schemi planimetrici regolari nella pianificazione delle città].

 

Per chi mastica poco di urbanistica, sarà più agevole trattare un altro tema tipicamente ellenico che in tutto il mondo accompagna l’immagine di Napoli.

Parliamo di Parthenope.

Diverse sono le leggende che la tradizione orale ha tramandato sino ai giorni nostri. Assume varie forme, ognuna delle quali rispecchia la polivalenza e la contraddittorietà della città di cui è emblema. A volte è sirena, altre principessa, altre fanciulla greca, altre ancora uccello. I caratteri del mito cambiano, ma ogni racconto è contrassegnato dal connubio tra amore e tragicità, dalla descrizione della bellezza di Parthenope e dalla materia centrale della storia: il sorgere di Napoli.

Il culto di Parthenope nasce nella tradizione del popolo, di origine greca, a est dell’antico insediamento ai piedi del Vesuvio, sui promontori compresi tra Sorrento e Capri in un periodo certamente precedente all’approdo euboico che diede vita alla città di Cuma nel VIII secolo a.C.

I primi templi a lei dedicati nell’antica Neapolis sorsero molto probabilmente sull’acropoli di Sant’Aniello a Caponapoli e il suo culto perdurò fino al periodo romano. Nei sotterranei della città venivano praticati in suo onore vari riti esoterici dedicati alla fecondità marina, per i quali si faceva uso anche di simboli fallici e orgiastici con riferimento al Dio Priapo. Su una di queste grotte sorge oggi la Chiesa della Madonna di Piedigrotta, il che suggerisce l’accostamento quasi profano tra Maria Vergine e Parthenope, il cui nome, dal greco Παρθενόπη, significa appunto vergine.

Ancora oggi Parthenope è una presenza viva nella città: la ritroviamo nei monumenti, nei disegni sui muri, nei cori da stadio, nei ritornelli delle canzoni, nel repertorio storico.

In quanto a storia, inorgoglisce pensare che Publio Virgilio Marone, uno dei più grandi autori latini, abbia deciso di incidere sulla sua tomba la frase «tenet nunc Parthenope», ossia «ora mi tiene Parthenope», per ribadire che il suo corpo è nel sottosuolo napoletano, tra le braccia di Parthenope.

Tra le leggende che abbracciano la sua figura, una è di matrice omerica. La sirena Parthenope, insieme alle sorelle Leucosia (la bianca) e Ligea (dalla voce chiara) viveva sugli scogli di Sirenusse (gli scogli delle Sirene, appunto), nell’attuale Positano. Le tre sirene, nate dall’unione di Acheloo con una delle Muse, erano divinità marine per metà donna e per metà uccello a cui soltanto recentemente, in epoca medievale, furono tolte le ali per essere trasformate in donne-pesci.

Parthenope, la sirena più bella di tutto il golfo, tentò invano di sedurre col suo canto l’eroe Ulisse, di ritorno verso Itaca. Per non cadere nell’incantensimo del canto della sirena, si fece legare dai suoi uomini all’albero maestro della nave, indicando loro di non liberarlo neanche se li avesse supplicati: riuscì così a vincere la forza ammaliatrice delle sirene e a superare gli scogli. Le sirene, lacerate dal mancato successo, decisero di uccidersi. Parthenope andò a morire sull’isolotto di Megaride, dove sorge oggi Castel dell’Ovo e dove è sepolta Santa Patrizia, una dei patroni della città di Napoli. Il suo corpo fu raccolto dai pescatori del luogo, che da quel giorno la onorarono con sacrifici e fiaccolate sul mare.

Questa leggenda ebbe una forte diffusione in concomitanza con la crescita musicale e artistica di Napoli, dovuta anche alla divulgazione degli scritti di Petronio e Apuleio prima, e di Petrarca e Boccaccio poi. A tal proposito Aurelio Fierro, uno dei più grandi artisti della musica napoletana, scrive: «il canto d’amore di Parthenope lo consideriamo nastro di partenza della storia della canzone napoletana.»

Una seconda leggenda racconta di una fanciulla greca e del suo amore per Cimone, ostacolato da suo padre che l’aveva promessa in sposa a Eumeo. La giovane dagli occhi neri e dalla pelle candida trascorreva le sue giornate seduta sugli scogli del mar Jonio a osservare l’oceano e a sognare luoghi lontani, fino a quando Cimone le propose di fuggire verso un paese sconosciuto dove potersi amare liberamente. Approdarono su una nuova terra, dove il loro amore produsse fiori e piante di rara bellezza. La voce si sparse in Fenicia e in Egitto, così che da ogni luogo accorsero persone vogliose di vivere in un paradiso terrestre. Quel paradiso era Napoli, il cui popolo si contraddistinse sempre per l’alto grado di civiltà. Le prime abitazioni erano sorte in collina, ma ben presto la città si estese in pianura e sulla costa; furono costruite le mura per la difesa del territorio e due templi dedicati alle protettrici della città, Cerere e Venere. Parthenope, divenuta madre di dodici figli, veniva amata e rispettata, la sua parola era legge, e per molto tempo regnò la pace. Secondo alcuni, tuttavia, ben presto accorsero in città loschi individui che, invidiosi della ricchezza di Napoli, seminarono terrore e morte. Da più di cinquemila anni, Parthenope lotta perché nella sua terra, quella nata dall’amore e dalla speranza, possa ritornare la serenità.

Una terza leggenda narra dell’amore della sirena Parthenope per il centauro Vesuvio. Ciò avrebbe scatenato la gelosia di Zeus, che li punì trasformando lui in un vulcano e lei nella città di Napoli.

Esiste poi una quarta leggenda meno conosciuta, che tuttavia appare come la più credibile, perché priva dell’impronta fantastico-mitologica. Narra di un re greco che, di fronte all’ennesima carestia cui era costretto il suo popolo, inviò un gruppo di giovani su delle imbarcazioni che avrebbero dovuto raggiungere la terra promessa della Magna Grecia. Una soluzione simile avrebbe permesso ai giovani di rifarsi una vita in una nuova regione e agli anziani di sfamare meno bocche nella loro terra natia. Al termine del tormentato viaggio, quando ormai i giovani avevano raggiunto la meta, perse la vita Parthenope, la più giovane delle tre principesse che si trovavano sulla nave. L’approdo nella nuova terra fu segnato dall’accorato rito funebre della fanciulla.

Le spoglie di Parthenope non furono mai ritrovate, ma molti sostengono che ella si sia trasformata nella morfologia di Napoli: capo ad oriente, piedi ad occidente. Secondo altri, come la scrittrice Matilde Serao, «Parthenope non è morta, Parthenope non ha tomba. Ella vive, splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene […]; quando vediamo comparire un’ombra bianca allacciata ad un’altra ombra, è lei col suo amante, quando sentiamo nell’aria un suono di parole innamorate è la sua voce che le pronunzia, quando un rumore di baci indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi, quando un fruscio di abiti ci fa fremere è il suo peplo che striscia sull’arena, è lei che fa contorcere di passione, languire ed impallidire d’amore la città. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale… è l’amore.»

In un tale turbinio di storie e fantasie, l’unica certezza che sembra di scorgere è che Napoli è figlia di un prodigio.

Irene De Dominicis

fonte testo e foto

ilvaporetto.com

 

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