Il mondo di Fra’ Diavolo (IV). Le origini di un “brigante”
di Pasquale Scarpati
– La situazione politica, economica e sociale non era ancora in subbuglio, quando l’8 del mese di aprile del 1771 nella “Insigne Collegiata e Parrocchiale Chiesa di S. Maria Maggiore” in Itri fu battezzato un bimbo della famiglia Pezza a cui si impose il nome di Michele, Arcangelo, Domenico e… – rivolgendosi a me con un sorriso -, il solito… Pasquale.
– Già, Ma viene sempre in… coda – pensai, sorridendo in me stesso.
– Nel 1754 al catasto onciario di Itri erano registrate sei famiglie con il cognome Pezza. Esse risultavano suddivise in due nuclei: il primo insediato nell’antico centro “alla Giudea di S. Martino”, il secondo nel Borgo, alla “Centa Nova”.
Molte delle famiglie Pezza vivevano nel quartiere giudaico, e pertanto lo stesso cognome poteva derivare da un’origine ebraica. Il termine “Pezza” stava sicuramente ad indicare il mestiere umile di commerciante di stracci, tipico lavoro israelita e da cui prese nome la contrada “lo Straccio” in cui crebbe e visse la sua infanzia il piccolo Michele.
Riuscii a fermare per un attimo questo “fiume in piena” ed intervenni:
– A Ponza ricordo che la “pezza” indicava un terreno coltivato ma solo quello situato a Santa Maria, forse perché era ed è l’unico luogo dell’Isola in cui il terreno si presenta pianeggiante per un buon tratto, quindi simile ad una “pezza”; nelle altre località prendeva il nome di “catena di terra” forse perché gli appezzamenti, piuttosto sottili, si susseguivano gli uni vicino agli altri concatenati dai sentieri di acque dilavanti o dalle palette di fico d’india.
Mio padre mi diceva infatti: – Guaglio’, va’ a piglia’ ’a cucuzzella da zi’ Sabettina dint’a pezza – e non aggiungeva altro poiché, appunto, la “pezza” esisteva soltanto a Santa Maria.
Quando, invece, si voleva indicare un altro appezzamento di terreno posto alle pendici di una collina, soleva dire: – Iamm’ ’n faccia a… (e il nome della collina ); oppure, dint’a… (se l’appezzamento era situato in una valle); oppure dint a chell’ ’i …(se l’appezzamento confinava o bisognava attraversare il terreno di qualche antico proprietario); oppure abbascie a… (se bisognava scendere per giungere all’appezzamento per lo più posto vicino al mare). Gli articoli si aggiungevano a seconda il nome della località.
Non appena tacqui, subito lui riprese: – I genitori di Michele si chiamavano Francesco Pezza e Arcangela Matrullo. Alla morte del suocero, Francesco ereditò l’intero patrimonio poiché Arcangela era l’unica figlia. Esso era costituita da una casa, un oliveto, due vigneti. Da bracciante, di conseguenza, divenne un piccolo commerciante-imprenditore. La famiglia era composta da 4 maschi e 7 femmine. Morta la mamma, il padre oramai anziano si risposò con Giacinta Pennacchia da cui ebbe una figlia a cui diede il nome della prima moglie.
Michele era un bimbo molto vivace e dal carattere turbolento (era furb’ e manesco). A cinque anni, sopravvissuto a una grave malattia, fu votato, secondo l’uso del tempo, a San Francesco di Paola per cui gli fu fatto indossare l’umile saio fino a che non divenisse logoro. Pertanto il suo nome si faceva precedere dalla parola: fra’. Si dice che poiché era riottoso agli insegnamenti del canonico, don Nicola de Fabritiis, e poiché di frequente disubbidiva, costui in un momento d’ira lo avesse apostrofato: “Tu non sei fra’ Michele, tu sei fra’ Diavolo”. Con questo soprannome sarà conosciuto.
Terminata la scuola, fra’ Diavolo si dedicò ad una delle attività artigianali più fiorenti del territorio locale: la lavorazione di basti e finimenti sotto la direzione di Eleuterio Agresti. Ma i rapporti del giovane Pezza con il proprio maestro e soprattutto con il fratello di quest’ultimo, Francesco, detto Faccia d’Argento andarono deteriorandosi con il passare del tempo fino al compimento del loro duplice omicidio. Il movente pare sia stata l’insofferenza per le bastonate ricevute. Altri, invece, dicono per motivi passionali: durante una rissa Fra’ Diavolo, innamorato di una donna sposata, avrebbe pugnalato un rivale in amore.
Non gli rimase che darsi alla fuga. Poiché aveva fatto anche il conducente di muli, conosceva ogni anfratto ed ogni sentiero delle zone circostanti. Formata una compagnia di cinque uomini batteva la campagna al pari di altri briganti del luogo comandati dai Tatta. Altri omicidi gli furono attribuiti anche se nel successivo atto d’indulto si fece menzione esclusivamente dei due omicidi commessi a Itri.
– Bisogna anche dire – aggiunse – che in quei tempi le condizioni di sicurezza pubblica erano molto precarie. Banditi, contumaci e latitanti, invadevano le montagne, le selve e le campagne.
Esisteva un vero e proprio tariffario per chi volesse far uccidere un rivale o un nemico, senza “sporcarsi le mani”. Con la complicità delle autorità ognuno si faceva giustizia da sé. I contumaci si ponevano al servizio di altre persone facendo la guardia ai loro campi o vendicando, al loro posto, un torto subito. La contumacia divenne così una vera e propria sorta di “speculazione”, in quanto garantiva ai briganti di poter sopravvivere e alle volte perfino di far fortuna. Famoso era il motto: “Beate quelle case che hanno avuto il contumace!”.
Fra’ Diavolo si pose al servizio del barone Antonio Felice di Roccaguglielma presso una località degli attuali monti Aurunci chiamata Campello e successivamente andò a Sonnino, paese di confine con lo stato Pontificio; la zona, situata al confine con la “terra di nessuno”, era molto frequentato da persone dedite al brigantaggio tra cui il famoso Antonio Gasbarrone.
La sua latitanza fu sostanzialmente breve perché già nel 1797 (aveva allora 26 anni) aveva richiesto la commutazione della pena che fu accolta il 20 gennaio 1798. Gli fu permesso di arruolarsi per tredici anni in uno dei reggimenti esistenti in Sicilia o nel reggimento Messapia.
Fuggito Pio VI da Roma e proclamata la Repubblica Romana, il 23 novembre del 1798 Ferdinando inviò un esercito al comando del generale Mack – guarda un po’… austriaco – per ristabilire sul trono di Pietro il Pontefice Romano. Entrò, pertanto, a far parte della coalizione (la seconda) con Russia e Gran Bretagna.
Il 27 di novembre le truppe entravano in Roma mentre i francesi del generale Championnet si ritiravano ordinatamente. Il 29 dello stesso mese lo stesso re giungeva a Roma acclamato come liberatore. Ma i francesi, raccolte le forze, passarono rapidamente alla controffensiva e sconfissero ripetutamente il Mack che dovette precipitosamente ripiegare nonostante la superiorità numerica (sessantamila uomini contro trentamila).
I soldati, laceri, scalzi, mezzo morti dal freddo e dalla fame, scappavano via, abbandonando ogni cosa, non appena si diceva loro che i francesi erano alle costole.
L’esercito invasore commetteva, come accadeva in ogni guerra d’i tiemp’ miei (…credo volesse dire: antica!), soprusi ed angherie sia contro la popolazione inerme sia contro la Chiesa.
Già dall’agosto 1798 Terracina era stata posta sotto assedio da parte dell’esercito francese comandato dal generale Etienne MacDonald e già da allora erano stati passati per le armi tutti coloro che osavano resistere. Si costituiva un governo repubblicano, si piantava l’albero della libertà e si nominava il comandante della città.
Intanto il generale Gabriel Venance Rey marciava, con i legionari polacchi e un reggimento di dragoni francesi, lungo la consolare Appia; oltrepassò la Torre dell’Epitaffio e la Portella; entrò a Fondi dove fece un gran bruciare di carte, nei conventi e nelle chiese. Molte di queste, poi, furono adibite a stalle e sconsacrate.
Ciò provocò l’insorgenza antifrancese autorizzata anche da un proclama del re Ferdinando in data 8 dicembre 1798 (ma è un falso retrodatato).
Il Re incitando alla resistenza dispose che: – (…) le popolazioni di ciascuna città, terre o casale del regno che si leveranno in massa armata, si presceglieranno un comandante ed un sotto comandante a loro piacimento per dirigerle negli attacchi (…) Ciascheduna università fornirà di viveri per otto giorni gli individui armati che si riuniranno in massa, ed il denaro che dovrà erogare gli sarà, in seguito, rimborsato dal regio erario”. Nacque così la Massa con regole stabilite dall’alto. Regole che prevedevano l’inquadramento degli ufficiali ed il mantenimento della truppa.
La difesa del forte S. Andrea ed il disonore della resa di Gaeta
La divisone Rey proseguì la sua marcia per Gaeta lungo la via Appia in un terreno impervio stretto tra i monti, le paludi ed il mare. A guardia del passo vi era questo Forte che tu vedi, munito di cinque pezzi di artiglieria. Considerato imprendibile frontalmente, poteva, però, essere facilmente attaccato sui fianchi.
Resosi conto di tale pericolo Fra’ Diavolo, che si era rifugiato ad Itri perché il reggimento Messapia si era disciolto, il 17 dicembre del 1798 con molti uomini insorgenti reclutati tra soldati in ritirata e quanti volevano difendere le proprie famiglie, si presentò al comandante del forte, capitano Sicardi, offrendogli l’appoggio dei suoi uomini. L’ufficiale accettò l’offerta e pertanto gli uomini si disposero sui monti che vanno da Sperlonga a monte Fusco.
Seguirono 11 giorni di combattimenti feroci che videro i franco-polacchi segnare il passo senza riuscire a forzare la gola.
Ma il 29 dicembre del 1798 il capitano Sicardi si arrese e passò al nemico.
– ’N’atu fellone: mamma mia… ma quante ce ne stevene! …Chiù ’i chill’ ’i mare!
In meno di due ore i franco-polacchi giunsero ad Itri, saccheggiandola, come avvenne per Castellone e Mola.
– Uaglio’, che brutta cosa! ’U turrente Pontone, ’u torrente i’ Rialt’ e Rio Fresco erano chine ’i muòrt’ e ’i sangue. Passavane a fil’i baionetta tuttuquante, pure i criature. Nun te dich’i priévet’: ’i scannavane ’ncopp’all’altare comme se faceve ’na vota cu’ll’animale pe’ sacrificio agli dei. Si te luvàve ’a tonaca e abiuravi, forse ’a putìve scampa’. Chi puteva fuieva pure annude comm’e ’nu verm’. I viecchi venevene pigliate a caucie, arrunzate, sbattute ’nterra e i zuòccol’ d’i cavalle facevaen ’u riest’. S’arrubbavene tuttecose: pecore, ciuccie, vacche, farina, uoglie. Vine russe e sanghe s’ammischiavene pe’ miezz’a via! I femmene giovene nun te ne diche..!
Quann’ a Ponza arrivavane ’sta gent’ e i sarracine e nun se puteve scappa’ pe’ via d’u mare, ’i nascunnevene int’a paglia, dint’i rrotte pe’ ’ncoppa Trebbiént’ o ’ncoppa ’a ’Uardia. Ma chill’ ievene là e cu’ i baionètt’ bucavene ’a paglia’ p’i cerca’… e po’ se facevene da’ i sorde.
Ma tant’… chill’ futtevene e se ne futtevene: èrene stranier’ e – decimm’accussì – “brava gente” che purtava ’a libertà!
– Che munn’ che era allora! …Oggi invece… – pensai.
Subito dopo le truppe avanzarono su Gaeta difesa dal maresciallo svizzero Carlo Tschudy. Ma costui si arrese senza sparare un colpo.
– Ahò! Chill’ nun teneve i palle! …Ma era anche svizzero quindi tendenzialmente neutrale. Quindi nun se ne futteve niente! I stranier’ nun fann’ nient’ p’a bella faccia toia’”
– Palle di cannone, spero – aggiunsi mentalmente.
– Si pensa che l’abbia fatto perché aveva al suo comando una forza composta da appena 270 uomini inesperti ed ignudi, che vi erano, inoltre, 400 ammalati e che, nella notte tra il 29 ed il 30 di dicembre, erano giunti, stanchi ed estenuati, 40 uomini di cavalleria, una cinquantina di cacciatori ed alcuni fucilieri di montagna. Le artiglierie erano obsolete – ma chesta cca nunn’era ’na novità”.
Comunque anche la forza nemica era composta da appena 600 uomini, anch’essi male armati e privi di pezzi di artiglieria e quindi non in grado di assaltare la Piazza.
Il bottino che fecero i francesi fu ingente: 190 cannoni di grosso calibro, 15 scialuppe armate, 30 feluche cariche di grano e vettovaglie, molti pontoni che furono utilizzati per oltrepassare il Garigliano.
– Ma dich’io… mentre Fra’ Diavolo fermava i nemice, pecché nunn’ hann’ mannate i rinforzi alla Piazzaforte ’i Gaeta? Già se cacavene sott’ d’a paura o erano disorganizzati comm’è semp’ succiéss’ a ’stu Paese’!
fonte
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