Alta Terra di Lavoro

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Il Natale per “leggere” la Storia

Posted by on Dic 26, 2020

Il Natale per “leggere” la Storia

Le tappe trattano argomenti importanti e perenni per la formazione cristiana attraverso il metodo che Il Cammino dei Tre Sentieri, ovvero l’unione della Dottrina (la Verità) della Vita Spirituale (la Bontà) e del fascino della Verità Cattolica (la Bellezza). All’interno delle singole tappe vi sono i passaggi, indicati con la numerazione progressiva. 

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Benedetto XVI nell’udienza generale del 4 gennaio 2012 disse: “Il Natale è gioia perché vediamo (…) che Dio è il bene, la vita, la verità dell’uomo e si abbassa fino all’uomo, per innalzarlo a Sé: Dio diventa così vicino da poterlo vedere e toccare. La Chiesa contempla questo ineffabile mistero e i testi della liturgia di questo tempo sono pervasi dallo stupore e dalla gioia; tutti i canti di Natale esprimono questa gioia. Natale è il punto in cui Cielo e terra si uniscono.”

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Cari pellegrini e amici del C3S, soffermiamoci su quest’ultima espressione: “Natale è il punto in cui Cielo e terra si uniscono”. Benedetto XVI dice in maniera molto bella che il Natale è la novità della storia, una novità che rende questo evento il punto d’incontro che dà ragione alla compenetrazione tra natura soprannatura, tra Cielo e terra.

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La verità della compenetrazione tra natura soprannatura esiste di per sé, esiste di fatto e la ragione la può e la deve rilevare, ma è indubbio che l’Incarnazione la evidenzia ancora di più.

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Ma il Natale è anche il discrimine della storia. Non a caso siamo soliti dire: “prima di Cristo” e “dopo Cristo”. Dunque, se il Natale costituisce il discrimine della Storia, esso può anche essere il criterio di giudizio del divenire storico. Poi vedremo in che senso.

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La Tappa è divisa in quattro parti:

Nella prima si parla dell’essenza del Natale.

Nella seconda si tocca il “cuore” dell’argomento, ovvero il Natale come chiave interpretativa per “leggere” la storia.

Nella terza si fanno alcune riflessioni sugli effetti del rifiuto del Natale.

E infine nella quarta parte si individua ciò a cui il Natale obbliga relativamente al rapporto tra l’uomo e la storia.

L’essenza del Natale

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Qual è l’essenza del Natale? L’irruzione della luce. San Giovanni lo dice chiaramente: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.” (Giovanni 1,9)

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D’altronde il motivo dominante dell’atmosfera del Natale è la luce che fende le tenebre: “In Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre (…) .” (Giovanni 1, 4-5). Il Natale è lo splendore della luce. Pensiamo all’uso di illuminare gli alberi. Si crede, a torto, che questa usanza venga dal Nord-Europa e che sia posteriore alla devozione del presepe. Non è proprio così. Si tratta di una tradizione tipicamente cattolica e originatasi in Medio Oriente. Si era soliti, in quelle terre, in prossimità del Natale porre dei frutti su alberi spogli per l’inverno (frutti che poi sono diventati le moderne palline di vetro). Infatti, alcuni vangeli apocrifi raccontano che quando Gesù nacque gli alberi fruttificarono (malgrado l’inverno) e la natura iniziò a splendere, e quindi ad illuminarsi.

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Sempre Benedetto XVI nell’udienza del 4 gennaio 2012 disse: “La liturgia natalizia è pervasa di luce. La venuta di Cristo dirada le tenebre del mondo, riempie la Notte santa di un fulgore celeste e diffonde sul volto degli uomini lo splendore di Dio Padre”.

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Facciamo qualche riflessione sulla Luce. Nel libro del Genesi, quando si parla della creazione, l’avvento della luce introduce alla nascita delle forme. Prima dell’inizio tutto è acqua, e sappiamo quanto l’acqua rappresenti la fluidità, cioè l’informe per eccellenza. Non a caso, una nota frase idiomatica per indicare ciò che è impossibile dice: … è come fare un buco nell’acqua. Il ghiaccio si può scolpire, l’acqua no.

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La forma è ciò che prende consistenza e si presenta come realtà distinguibile da ciò che distinguibile non è. Ma se è vero che la forma (che è consistenza) esiste di per sé, è pur vero che, per essere riconosciuta, ha bisogno della luce. Solo grazie alla luce può essere riconosciuta.

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E’ la luce che illumina il vero. E’ la luce che illumina l’esistere. E’ la luce che fa riconoscere il significato, che lo evidenzia.

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Sant’Agostino (354-430) capì quanto fosse importante l’approccio conoscitivo di cui parla Platone, ma per lui era ovviamente inaccettabile il presupposto di quell’approccio che prevedeva la convinzione dell’esistenza dell’anima prima della nascita del corpo. Sant’Agostino non poteva accettare che la conoscenza umana si attuasse attraverso una reminiscenza: l’anima avendo contemplato le idee nell’Iperuranio conserverebbe nella memoria tali idee di cui poi si servirebbe al momento della conoscenza. Non potendo cristianamente accettare una simile teoria della conoscenza, sant’Agostino sostituì la reminiscenza con l’illuminazione: Dio illumina l’anima affinché questa possa davvero conoscere. Sant’Agostino, insomma, dice che senza la luce non è possibile la conoscenza. Meglio: senza la luce non è possibile un adeguato esercizio dell’intelligenza.

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Tutto il Medioevo farà tesoro dell’intuizione di Sant’Agostino: senza la luce non è possibile l’esercizio dell’intelligenza. Anche l’altro grande filosofo del medioevo, san Tommaso d’Aquino (1225-1274), che pur sostiene una teoria della conoscenza diversa e anche più corretta di quella del Vescovo d’Ippona, concorda sul fatto che senza la luce (che è la Grazia di Dio) non può esserci efficace intelligenza. Attenzione: non stiamo dicendo “non può esserci intelligenza” bensì “efficace intelligenza”. Anche san Tommaso, infatti, afferma il primato della libera volontà e quindi concorda sul fatto che, senza l’esercizio delle virtù, non può esserci vera sapienza.

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A proposito del rapporto pensiero medioevale-luce, un importante filosofo del XII e XIII secolo, Roberto Grossatesta (1175-1253), scrive: “La luce è bella di per sé, poiché la sua natura è semplice, e ha in sé tutte le cose insieme (…). Essa tra le cose corporali è la dimostrazione più evidente per via analogica della somma Trinità. Perciò Dio, che è luce, ha cominciato l’opera dei sei giorni dalla luce stessa, di cui tanto grande è la dignità.”

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Dunque, la luce è lo splendore del Vero. Il Natale è la manifestazione tangibile, splendente, della bellezza di un Dio che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito (…)” (Giovanni 3, 16).

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La luce è bellezza e la bellezza è luce. La bellezza è nella dimensione della luce. Gesù dice di se stesso: “Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre.” (Giovanni 12, 46). Gesù come Verità incarnata, venuto nel mondo, si definisce luce. Una luce per illuminare il mondo, anzi per liberare il mondo dalla schiavitù delle tenebre.

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E’ la luce il comune denominatore della Bellezza e della Verità. Anzi, possiamo dire che proprio perché la luce accomuna tanto il Vero quanto il Bello, questi sono costitutivamente legati. Torniamo al Prologo di san Giovanni: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno accolta.” (Giovanni 1, 1-5)

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La luce produce due effetti: permette la conoscenza perché illumina, riscalda perché dà tepore. Alla conoscenza corrisponde la verità; al tepore l’amore. Dunque, la luce è unione di conoscenza amore e in questa unione diventa

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Non è un caso che alla mancanza della luce sia legata proporzionalmente la mostruosità. Gli abissi marini sono inesplorati, ma si sa che più si va in profondità, più le specie animali sono mostruose. E non è un caso che anche gli animali notturni non siano belli quanto quelli diurni.

Il Natale per “leggere” la storia

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Fatte queste riflessioni sul significato della luce e dopo aver detto quanto il Natale sia legato a questo simbolo, passiamo alla seconda parte: il Natale per “leggere” la storia. Non allontaniamoci dalla luce. Essa, quindi, dà la possibilità di vedere. Senza la luce c’è solo il terrore delle tenebre. Le tenebre procurano angoscia perché disorientano, cioè impediscono di scorgere la direzione da prendere, la possibilità di governare gli spazi. Quando si è in un locale sconosciuto e va via improvvisamente la luce elettrica, si è presi dal panico, che è l’angoscia soffocante. In quel caso s’invoca la luce e, quando essa ritorna, l’angoscia sparisce come per incanto. Questo è solo un banale esempio per capire quanto invocazione luce siano correlati.

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Non può essere costruita una storia, conforme al cuore dell’uomo e ai suoi reali bisogni, quando si fa a meno di tradurre nelle strutture politiche e in tutte le manifestazioni dell’umano il grido che invoca la luce di Dio, quando cioè non è preso in considerazione il costitutivo rapporto tra invocazione luce. Rapporto che, come abbiamo detto prima, è nella più vera dimensione umana.

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Il Vangelo di Marco (10, 46-52) racconta di una ricerca di luce, una ricerca che è espressa con un grido. E’ il grido di Bartimeo, un uomo che aveva perso la vista: “In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: ‘Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!’ Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: ‘Figlio di Davide, abbi pietà di me!’ Gesù si fermò e disse: ‘Chiamatelo!’. Chiamarono il cieco, dicendogli: ‘Coraggio! Alzati, ti chiama!’. Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: ‘Che cosa vuoi che io faccia per te?’ E il cieco gli rispose: ‘Rabbunì, che io veda di nuovo!’. E Gesù gli disse: ‘Va’, la tua fede ti ha salvato’. E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.”

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Riflettiamo su quel grido: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!” In quel grido c’è l’uomo. Ci siamo tutti noi che invochiamo la luce. Anche coloro che vogliono presentarsi in tutt’altro modo. Anche coloro che fanno di tutto per sopprimere quell’invocazione, pensando che la vita sia altro dal bisogno di aiuto.

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In che senso c’è tutto l’uomo? La risposta è chiara: perché l’uomo non può fare a meno –pena il suo fallimento- di porsi onestamente dinanzi al suo essere. E se lo fa, scopre l’incapacità ad essere risposta al proprio mistero. Alcuni versi di Cesare Pavese (1908-1950) dicono: “Tu sei come terra che nessuno ha mai detto. Tu non attendi nulla se non la parola che sgorgherà dal fondo come un frutto tra i rami.”   La vita è attesa di qualcosa che deve sgorgare dal fondo, non può che essere così. La vita è desiderio di un significato tanto atteso, come si attende di scoprire e poter cogliere un frutto tra i rami. La vita è attesa ed invocazione della Luce!

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Facciamo adesso una considerazione importante. La facciamo ponendoci una domanda: fino a che punto questa inevitabile invocazione ha costituito il “timone” con cui l’uomo ha orientato la sua storia?

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A riguardo possiamo dire che la storia umana è finora (sottolineiamo “finora” per non cadere in errori millenaristici) divisa in tre parti.

La prima dalla creazione all’avvento di Cristo.

La seconda dall’avvento di Cristo fino alla piena realizzazione della societas christiana.

La terza dal declino della societas christiana fino alla dissoluzione contemporanea. Poi –ovviamente- cosa accadrà dopo non lo sappiamo.

Nella prima abbiamo prevalentemente l’invocazione senza la luce; nella seconda l’invocazione e la luce; nella terza la luce senza l’invocazione. Approfondiamo.

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Nel primo periodo abbiamo il desiderio dell’uomo di trovare una risposta al mistero della sua creaturalità, ma questa risposta (cioè la luce) non c’è per due motivi: primo, la cultura di allora era pregna di una pseudo-religiosità in cui l’uomo doveva ritenersi o espressione del divino (monismo gnostico) o strumento del divino; secondo, perché ancora non si era compiuta la Rivelazione vera.

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Nel secondo periodo (dall’avvento di Cristo alla societas christiana) troviamo tanto l’invocazione quanto la risposta, cioè la luce. La luce c’era proprio perché, con l’Incarnazione, si era completata la Rivelazione. Il Cristianesimo, infatti, è la religione che con più evidenza soddisfa il bisogno della risposta che appunto scaturisce inevitabilmente dall’invocazione. In questo periodo tutto esprimeva la coesistenza armonica di invocazione e luce. E’ quella compenetrazione tra natura soprannatura di cui abbiamo parlato prima. L’invocazione è la dimensione naturale, la luce è la dimensione soprannaturale. Prediamo come esempio la politica. Lo Stato autenticamente medioevale veniva concepito come una realtà organica, come un corpo, un corpo costitutivamente legato alla sua anima, cioè alla dimensione spirituale. Il concetto di bene comune, così come si espresse nei secoli della civiltà cristiana, faceva riferimento ad un bene integrale, cioè non riducibile al solo benessere materiale, bensì ad una realizzazione totale, legata anche al destino eterno. Ma non solo. Anche l’arte esprimeva la coesistenza armonica di invocazione. Rodolfo Papa, docente di Storia delle teorie estetiche presso la Pontificia Università Urbaniana, scrisse sull’agenzia online Zenit del 2.5.2011: “La cura della luce naturale esplicita la visione complessa del mondo propria dei secoli in cui il Cristianesimo informa tutta l’attività creativa artistica. I manufatti e i materiali venivano realizzati, i metalli come pure le pietre più o meno preziose, venivano incisi, cesellati, intarsiati e tagliati per poter catturare la luce. La luce era il mezzo per far brillare e splendere i materiali e nel contempo il fine dell’azione artistica. La luminosità di una determinata materia ne indicava anche il ruolo e la posizione all’interno di una struttura gerarchizzata di elementi, collocati in modo tale da esaltare al massimo la luce. Esemplare è il caso dell’abate Suger di Saint Denis (1137-1151), che trasformò la sua abbazia riorganizzandola in ogni aspetto e in modo speciale nella cura della bellezza della luce; egli, per esempio, affermava che la bellezza delle pietre multicolori e splendenti nella casa di Dio lo induceva a pensare che «per Grazia di Dio, io possa essere trasportato da questo mondo inferiore a quello superiore per una via anagogica»; come commenta Panofsky: «l’intero universo materiale diviene una grande “luce” composta di innumerevoli piccole luci come tante lanterne; ogni cosa percepibile, fatta dall’uomo o naturale, diviene simbolo di ciò che non è percepibile, una pietra d’appoggio sulla via del Cielo; la mente umana, abbandonandosi all’“armonia e luminosità”, che è il criterio della bellezza terrestre, si trovava “guidata in alto”, verso la causa trascendente di questa “armonia e luminosità” che è Dio».”

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Nel terzo periodo (dalla crisi della societas christiana alla dissoluzione contemporanea) troviamo la luce ma non più l’invocazione. Troviamo la risposta (la luce) perché culturalmente il Cristianesimo è ancora presente, ma non troviamo più l’invocazione perché la modernità si è costruita sulla pretesa di rendere l’uomo dio-di-se-stesso, fondamento di tutto, per cui, in tal modo, non c’è spazio né per il riconoscimento del limite né, pertanto, per l’ineluttabilità dell’invocazione.

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Ma torniamo al grido di Bartimeo: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. E’ proprio un tal grido che orienta la storia. Ed è un grido che invoca la luce. E’ il panico delle tenebre, della sofferenza, della precarietà, che invoca la soluzione. E’ il panico della cecità acquisita, del non poter più scorgere la verità nella e per la propria esistenza.

Gli effetti del rifiuto della Luce

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Dunque, ora siamo nel terzo periodo. Un periodo, ovviamente, da ritenersi in senso generale e non –grazie a Dio- in senso individuale. Un periodo in cui si rifiuta la luce. Ebbene, tale rifiuto causa tre conseguenze:

La prima: la tristezza

La seconda: la malvagità con la cupidigia

La terza: la stoltezza

Senza la luce … la tristezza

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Citiamo ancora Cesare Pavese (1908-1950): “Sei la camera buia / cui si ripensa sempre / come al cortile antico / dove s’apriva l’alba.” Il poeta piemontese pensa a ciò che è accaduto nella sua vita, dove il buio ha sconfitto la luce. La “camera buia” si contrappone al “cortile antico dove s’apriva l’alba”. Il buio della tristezza si contrappone alla luce della gioia. La gioia che il poeta piemontese identifica con il cortile antico. Il cortile è il luogo dell’infanzia, è il luogo dei giochi spensierati.

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L’uomo senza una luce che possa illuminare la propria vita, è inesorabilmente schiacciato dal non-senso della vita stessa. Ciò è attestato dal nostro mondo in cui c’è tanto divertimento, c’è tanto piacere …ma non c’è più la gioia, che deve avere in sé la stabilità. La gioia non si dissolve, non è soggetta a situazioni transitorie, bensì perpetuamente si rinnova nel rispondere al mistero e alle sofferenze della vita.

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L’uomo senza la luce finisce con l’odiare se stesso, avvertendo il peso di una vita a cui non poter dare significato. Erode, colui che emblematicamente avversò la luce che venne nel mondo (talmente l’avversò da volerla uccidere, eliminare fisicamente) morì con una terribile infezione: dalle sue pudende si produssero dei vermi che arrivarono a distruggerlo, cioè a roderlo. Lo racconta Giuseppe Flavio (37-100) nella sua Guerra giudaica. La vita senza luce, è vita talmente bassa da trasformarsi in cibo per vermi. E così anche Erode sarà arrivato ad odiare se stesso. Non semplicemente un odio esistenziale, ma anche fisico.

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La privazione della luce rappresenta il massimo della punizione. Antigone, accusata per aver compiuto un atto di pietà (la sepoltura del fratello Polinice), è privata della luce dal nuovo re di Tebe, Creonte. In questo caso la luce è anche sinonimo di giustizia. Sofocle (496-406 a.C.) nella sua Antigone fa dire proprio alla protagonista che è condotta a morire chiusa in una caverna: “Soffro: il mio occhio non ha più diritto al chiarore dell’alba. La mia fine brucia: nessuno la bagna di pianto”. Il dominio dell’ingiustizia e della menzogna priva della luce.

Senza la luce … la malvagità con la cupidigia

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San Giovanni scrive: “Chiunque fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte da Dio.” (Giovanni 3, 21)

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La fantasia del grande scrittore inglese John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), tra tanti personaggi, inventò Gollum, l’hobbit dominato dalla cupidigia dell’anello del potere. Gollum originariamente si chiamava Sméagol e un giorno, insieme all’amico Déagol, trovò sul fondale di un fiume l’anello del potere, forgiato da Sauron. Ne volle essere l’unico proprietario e, al diniego di Déagol, uccise l’amico. La sua mente si ammalò diventando totalmente dipendente dall’anello. Ecco come Tolkien lo descrive nel capitolo II de La Compagnia dell’Anello“Afferrava i pesci nelle profondità dei flutti con dita invisibili e li mangiava crudi. Un giorno di gran caldo, mentre si chinava sull’acqua per rinfrescarsi, sentì qualcosa bruciargli la nuca e fu abbagliato da una luce fortissima che si rifrangeva sul ruscello affliggendo i suoi occhi bagnati. Si domandò cosa fosse, perché si era dimenticato dell’esistenza del Sole. Allora, per l’ultima volta, volse la testa verso l’alto e mostrò i pugni. ‘Ma abbassando lo sguardo vide in lontananza le cime delle Montagne Nebbiose, dalle quali nasceva il torrente. Un pensiero gli balenò improvviso alla mente: ‘Sotto quelle montagne sì che farà fresco! Lì, all’ombra del buio, il Sole non potrebbe più guardarmi (…). Ed allora partì di notte per le alture, dove trovò una piccola caverna dalla quale erompeva il torrente oscuro(…). L’anello lo seguì nelle ombre (…).” Gollum, dunque, odia la luce, perché il suo cuore è ormai dominato dalla cupidigia e dalla cattiveria.

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Se si rifiuta la luce, sparisce l’evidenza del limite, sparisce l’evidenza della propria piccolezza, sparisce l’evidenza del proprio bisogno …e si cade inevitabilmente nell’egoismo.

Senza la luce …la stoltezza

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Senza la luce vi è il decadimento dell’intelligenza. Precisiamo: dell’intelligenza …che è un presupposto necessario della conoscenza scientifica, ma che non necessariamente sfocia nella conoscenza scientifica stessa. Quando l’intelligenza non c’è o non funziona come dovrebbe, la conoscenza scientifica diviene astratto intellettualismo. Un intellettualismo non provato dai fatti, anzi fragile e contraddittorio di suo, proprio perché svincolato dall’intelligenza.

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Ecco allora l’assurdo dei nostri tempi. Un assurdo che richiederebbe molto più tempo per essere esaminato, ma che può essere così riassunto: pretendere di reggere l’uomo e il vivere sociale senza ancorarli al riconoscimento di un vero metafisico. Si tratta della più evidente stoltezza.

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Pensiamo alla questione dell’emergenza educativa. Le giovani generazioni sono refrattarie al rispetto delle regole. Da tempo nelle scuole italiane si parla della necessità di sensibilizzare gli studenti alla cultura della legalità; e poi, nello stesso tempo, si fa capire che il bravo docente deve essere “politicamente corretto”, deve saper mettere in discussione tutto, deve soprattutto educare i suoi studenti al dubbio. E non è stoltezza questa? Ma come è possibile educare i ragazzi alla cultura della legalità, e poi affermare che la verità non esiste? Ma dove si agganciano oggettivamente le regole se non si riconosce un vero metafisicamente inteso?

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Nel famoso dramma di Ugo Betti (1892-1953), Corruzione al Palazzo di Giustizia, scritto nel 1944, un personaggio, Croz (che è anch’egli un giudice) afferma: …Questi giudici mi hanno sempre rivoltato lo stomaco. (…) essi esprimono il parere che certe azioni siano giuste ed altre no. Come una salsiccia è appesa a un’altra salsiccia, così questo parere è appeso a dei codici…, via via, ad altri codici e leggi e tavole… sempre più antiche. L’inconveniente, mio caro… …è che manca il gancio principale, l’uncino originale… mancando il quale… ecco tutta la fila di salsicce per terra!

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Citiamo ancora Cesare Pavese (1935-1950). Ne Il mestiere di vivere scrive: “Idiota e lurido Kant. Se Dio non c’è tutto è permesso. Basta con la morale. Solo la carità è rispettabile. Cristo e Dostoevskij. Tutto il resto sono balle.”

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Attualizziamo il discorso ai nostri giorni. Facciamo riferimento alla stoltezza (perché di stoltezza si tratta) dell’antipolitica, un argomento di cui in questi anni tanto si è parlato.

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Sul quotidiano La Stampa, in data 17 settembre 2012, comparve un bell’articolo di Michele Brambilla. Leggiamone un passaggio: Gli italiani, diceva Flaiano, sono mossi da uno sfrenato bisogno di ingiustizia. (…) Negli ultimi mesi le cosiddette storie di tangentopoli e di malapolitica hanno riguardato soprattutto amministrazioni regionali, in un asse che attraversa tutta la Penisola: Nord, Centro, Sud. (…)  Si ruba a Roma come si ruba in Gallia, questa è l’ovvia verità. Non lo diciamo per mettere in discussione il sistema delle autonomie, che anzi ha indubbiamente i suoi innegabili benefici. Ma per mettere almeno una pulce nell’orecchio di chi si illude che i guai del nostro Paese – che da molti anni sono tanti, e non riguardano solo la violazione del settimo comandamento – possano essere risolti a colpi di riforme, di leggi, di norme, di raccolte di firme, di referendum, e così via. Ricordate di che cosa si parlava in Italia nella primavera del 1992, a Mani Pulite da poco scoppiata? Di un referendum, appunto. Quello che avrebbe spazzato via il vero cancro della Prima Repubblica, cioè il sistema proporzionale e le preferenze. Gli italiani accorsero in massa ad approvare il nuovo sistema elettorale maggioritario. Come sia andata a finire nella Seconda Repubblica quanto a debito pubblico e moralità privata, lo sappiamo bene. Che l’Italia abbia bisogno di riforme, è senz’altro vero. Ma la crisi di oggi – non solo italiana, ma mondiale – è una crisi soprattutto morale. È il nostro modo di vivere (per «nostro» intendendo quello di tutti noi, non solo della casta) che va ripensato. (…) la vera emergenza, in Italia, negli ultimi decenni è quella educativa. Invece continuiamo a illuderci che tutto si possa risolvere con emendamenti, norme, commi e paragrafi. 

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C’è un famoso proverbio che dice: quando qualcuno indica il cielo, lo stupido guarda il dito. E’ infatti un errore tanto frequente quanto grave quello di scambiare il contorno per sostanza e viceversa. Vi ricordate il Movimento 5 Stelle parlare tanto attaccamento alle poltrene dei vecchi politici, e adesso? Cosa sta accadendo?

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La questione è che ogni attività legittima che l’uomo è chiamato a compiere (quindi anche l’attività politica) può trovare la sua continua rigenerazione con la rigenerazione (chiediamo scusa per il gioco di parole) dell’uomo stesso.

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Se l’uomo non vive in sé la dimensione del limite, quindi la consapevolezza del peccato e il conseguente timore del giudizio di Dio, tutto diviene possibile … indipendentemente dal fatto che ci siano o meno i partiti e le loro potentissime segreterie.

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Chiediamoci: che cosa fa sì che l’uomo riconosca la possibilità di donarsi, di servire e di sacrificarsi? La speranza. Sì, la speranza che non tutto finisca nel qui e ora, che quello che si compie oggi troverà un compenso domani, che la vita che si conduce oggi è una preparazione di un’altra più piena e più vera. Se tutto questo non c’è, sarà anche possibile occasionalmente servire e sacrificarsi … ma, di certo, verrà meno la motivazione convincente e persuasiva tanto per servire quanto per sacrificarsi.

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Si racconta che durante l’assedio di Parigi del 1870, un fratello delle Scuole Cristiane curava un soldato che aveva il vaiolo nero. Nel vederlo, un giornalista si stupì e gli disse: “Quel che fate voi, io non lo farei per diecimila franchi!” Ma il religioso rispose: “Ed io pure non lo farei per diecimila franchi: non sono mica pazzo.” Poi baciò il Crocifisso e aggiunse: “Lo faccio per Lui!”

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Diciamolo francamente: se la vita è solo questa, è meglio comandare che ubbidire, è meglio avere il potere piuttosto che non averlo. Ma se c’è un’altra vita che dipende dal giudizio che si riceverà da Dio, allora sì che si capovolge la prospettiva. Dice un antico detto monastico: ubbidire e meglio che comandare, perché ubbidendo si è certi di non sbagliare (ovviamente quando si ubbidisce non tradendo la legge di Dio).

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Dunque, quando si rifiuta la luce si genera storicamente: tristezza, cupidigia e stoltezza.

A cosa obbliga il Natale?

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Il Natale, proprio perché è l’irruzione della luce nel mondo e proprio perché la luce dissipa le tenebre (cioè le distrugge e le sconfigge), obbliga alla militanza, obbliga ad una scelta di campo. Ovviamente, la vera fede cristiana già obbliga a questo, ma è indubbio che il Natale ricordi ancor meglio quanto il cristiano non possa fermarsi in mezzo al guado, non possa e non debba scegliere la tiepidezza

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Dinanzi alla scelta tra la luce e le tenebre non c’è indecisione né compromesso che tenga. Bisogna lottare radicalmente affinché la luce possa essere ri-accolta da quante più anime.

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Prima abbiamo evocato il personaggio di Gollum, come colui che, preso dalla cupidigia dell’anello del potere, odia la luce e si rintana per trovare conforto nelle tenebre. Ebbene, nella fantasia di Tolkien, Gollum non è un personaggio totalmente cattivo, o meglio: la sua cupidigia che lo ha portato finanche ad uccidere l’amico Déagol non gli ha dato la spinta per mettersi totalmente dalla parte del male. Gollum è come chi pretende di avere i classici due piedi in una scarpa. E’ sempre in bilico. E, a seconda della propria convenienza, ora favorisce il Male ora il Bene.

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Ma luce va scelta sempre: guai se si è tiepidi. Nell’Apocalisse è scritto: “All’angelo della Chiesa di Sardi scrivi: Così parla Colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle: Conosco le tue opere; ti si crede vivo e invece sei morto. (…) Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. (…) Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese.” (3, 1-6)

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Il vecchio Simeone, mosso dallo Spirito Santo, così parla di Gesù: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione (…).” (Luca 2,34) Il cristiano deve essere segno di contraddizione: non può venire a patti con le tenebre.

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Il Natale ci costringe a scegliere da che parte stare. Sant’Agostino (354-430) scrive: “Due amori quindi hanno costruito due città: l’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste. In ultima analisi, quella trova gloria in se stessa, questa nel Signore. Quella cerca la gloria tra gli uomini, per questa la gloria più grande è Dio, testimone della coscienza. Quella solleva il capo nella sua gloria, questa dice al suo Dio: “Tu sei mia gloria e sollevi il mio capo” (Salmo 111, 4).”

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E san Luca riporta queste parole di Gesù: “I figli di questo mondo (…) verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.” (Luca 16, 8)

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Nella Messa di Mezzanotte del 24 dicembre del 2005, Benedetto XVI disse: “La luce di Betlemme non si è mai spenta. Lungo tutti i secoli ha toccato uomini e donne. (…). A partire da Betlemme una scia di luce, di amore e di verità pervade i secoli.”

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Il Natale ci costringe a metterci lungo questa scia di luce, una luce che non si è mai spenta, perché il Natale non terminerà mai.

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Giovannino Guareschi (1908-1968) scrive: “E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l’ora su macchine a razzo superatomico e per far cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino.’

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Ma non solo fra mille anni. Anche quando questi tempi termineranno, anche quando non nasceranno più uomini perché si sarà chi in Paradiso e chi all’inferno, anche allora – per sempre – il Natale rimarrà: nell’eterno amore di Gesù per la Sua Santissima Madre, nel Suo eterno bisogno di essere abbracciato dalla Madre.

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Il Cammino dei Tre Sentieri formula a tutti i suoi amici l’augurio per un Santo Natale dando un consiglio:

Ogni qual volta ci si metterà quest’anno dinanzi all’umile mangiatoia del presepe, si dicano queste cose a Gesù Bambino: “Scelgo Te, o Signore! Potrei andare con l’immaginazione a visitare una comoda casa di Betlemme, potrei con l’immaginazione andare ad ascoltare qualche seduta del potente Senato romano o consultare qualche prezioso libro della ricchissima biblioteca di Alessandria … No. Io decido di venire da Te, dinanzi a questa semplice mangiatoia, dove i tuoi vagiti si mescolano all’odore della stalla, dove il freddo pungente ti fa tremare tutto … decido di venire da Te, o Signore … non scelgo le comodità e i fasti illusori, non scelgo il Mondo … scelgo Te che sei venuto con la tua luce a illuminare e a salvare il Mondo.

Corrado Gnerre

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