Alta Terra di Lavoro

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IL NOSTRO SANGUE VENDUTO

Posted by on Lug 22, 2025

IL NOSTRO SANGUE VENDUTO

Enrico Fagnano

Ho l’impressione che più il popolo meridionale acquisti consapevolezza delle ingiustizie subite dal 1860 ai giorni nostri, più i difensori (non certo disinteressati) dell’ortodossia filosabauda alzino il tiro. Nei mesi passati, in particolare, ne ho sentite veramente di tutti i colori. Nell’intervento che ho tenuto nell’ultimo Convegno di Sud e Civiltà a Villa Domi ho dimostrato come sia priva di ogni fondamento l’affermazione (per alcuni versi addirittura ridicola) che il Sud dall’Unità abbia ricevuto vantaggi e benefici.

Sull’argomento sto preparando anche diversi video, con i quali spero di chiudere, una volta per tutte, la questione. I narratori prestati alla storia, però, non si riposano mai. Ultimamente ho sentito dire che la sconfitta dell’esercito meridionale non è stata dovuta ai tradimenti dei suoi ufficiali e, anzi, questi tradimenti addirittura quasi non ci sarebbero stati.

Per quanto riguarda la sconfitta delle Due Sicilie, le cause furono molteplici e non è questa la sede per esaminarle, ma per quanto riguarda i tradimenti degli ufficiali, sentire che non ci furono è sorprendente. Infatti le testimonianze che li provano sono numerosissime e in questo articolo io ne riporterò molte, alcune delle quali davvero incontrovertibili, perché provenienti dai vertici dello Stato invasore.

Il responsabile delle operazioni segrete nel Regno delle Due Sicilie era l’ammiraglio Persano ed ecco cosa si legge nel suo diario personale (‘Diario privato-politico-militare nelle campagne navali del 1860 e 1861’, Arnaldi, 1870): ‘L’esercito borbonico non merita scuse: né sa risolversi a fronteggiare e combattere le forze garibaldine né si delibera a proclamare l’indipendenza nazionale. La marina reale s’è per lo meno decisa per il partito dell’unificazione. Lasciamo andare se non avesse meglio provveduto al proprio onore difendendo la bandiera e il suo Re e rendiamoli merito di aver spiegata una volontà e d’essersi affrancata da quei tentennamenti, che son pur sempre la più brutta pecca in tutto e per tutto. Non è forse così?’

In questo breve passaggio, quindi, l’alto ufficiale sabaudo conferma inequivocabilmente che la marina borbonica passò subito quasi in blocco dalla parte dei Piemontesi, mentre gli ufficiali dell’esercito tardavano a prendere la stessa decisione.

Vale la pena di sottolineare, però, come l’ammiraglio, che era pur sempre un militare animato da valori in un certo senso sovranazionali, nel suo scritto privato non possa fare a meno di esprimere il suo sdegno per il comportamento di altri militari, che tradivano i loro giuramenti.

Sempre nel ‘Diario privato’ del Persano più avanti si legge: ‘Il nostro trovarsi là non dovrebbe comprometterci, quando si rimanga semplici spettatori; e basterà ad impedire che i legni napoletani agiscano; i quali, anche facendolo, non lo farebbero che pro forma, preparati a togliersi dall’azione al primo inciampo: questo almeno è l’accordo preso con alcuni loro comandanti.’

C’erano, quindi, accordi con i vertici della marina borbonica, che si era impegnata a non creare problemi, come in un certo senso conferma anche Garibaldi nelle sue ‘Memorie autobiografiche’ (Barbera, 1888), quando scrive: ‘Altra circostanza ben favorevole alla causa nazionale fu il tacito consenso della marina borbonica, che avrebbe potuto, se interamente ostile, ritardare molto il nostro progresso verso la capitale. E veramente i nostri piroscafi trasportavano liberamente i corpi dell’esercito meridionale lungo tutto il litorale napoletano senza ostacoli; ciò che non avrebbero potuto eseguire con una marina assolutamente contraria.’

Sulla questione esplicito è il Persano, che nel citato ‘Diario privato’ scrive. ‘Le proteste d’annessione per parte della marina reale si fanno più ferme che mai, e le eccezioni sono in sì piccolo numero, che non vale la pena di tenerne conto.’

L’alto ufficiale si esprime negli stessi termini anche nella lettera inviata il 6 agosto 1860 a Cavour, nella quale scrive: ‘Gli Stati Maggiori di questa marina si possono dire tutti nostri, pochissime essendo le eccezioni.’

Ciò che stava accadendo, d’altro canto, è reso evidente anche dal dispaccio inviato il primo giugno 1860 da Cavour al suo ammiraglio a Napoli (riportato sempre nel ‘Diario privato’), nel quale si legge: ‘Alcuni ufficiali della Marina napoletana avendo manifestati sentimenti italiani al signor marchese d’Aste, ho mandato a quest’ufficiale col telegrafo, l’ordine di coltivare questi sentimenti e di continuare le trattative apertesi; facendogli facoltà di assicurare a coloro che promuovessero un pronunciamento della Squadra gradi e promozioni vantaggiose.’

Una conferma delle manovre svolte nell’ombra, e del successo delle stesse, ce la fornisce indirettamente Roberto Martucci ne ‘L’invenzione dell’Italia unita’ (Sansoni, 1999), quando descrive la sorprendente carriera dell’ufficiale della marina Guglielmo Acton nella nuova nazione dopo la caduta delle Due Sicilie. Ecco lo storico leccese cosa scrive: ‘In tal modo, anche per il capitano di vascello Guglielmo Acton, a Marsala, quella bizzarra guerra non dichiarata e combattuta solo da alcuni, determinò una decisiva svolta nella propria carriera, destinata a rivelarsi brillantissima dopo l’unità. Ammesso nella marina italiana con grado superiore, promosso contrammiraglio, fu ministro della Marina nel governo Lanza (1870), senatore del Regno dopo il 1871, infine cognato del presidente del Consiglio Marco Minghetti che ne sposò nel 1864 la sorella, la celebre Donna Laura Acton delle cronache mondane del successivo ventennio: troppe coincidenze per un solo destino.’

Il lapidario commento finale lascia compiutamente intendere tutto il non detto.

Addirittura anche i giornali parlavano apertamente dei tradimenti, in particolare da parte degli ufficiali della marina. Ecco cosa scrive ‘L’Eco di Fiume’ il primo settembre 1860: ‘Nell’armata di marina segue il disturbo degli ufficiali. Il capitano Mansi, il guardia marina Acton, non so se fratello o nipote del ferito nel Monarca, ed altri han disertato. Si è scoperta una congiura tra la ciurma dell’Ettore Fieramosca contro gli ufficiali tacciati di favorire Garibaldi.’

Per chiudere il discorso sulla marina borbonica, all’epoca era noto che i suoi mancati interventi fossero stati determinanti per la vittoria degli invasori, tant’è vero che in un suo discorso alla Camera il 2 luglio 1861 il deputato Gennaro San Donato tra l’altro affermò: ‘La marineria da guerra napoletana che, bisogna convenirne, rendette grandissimi servigi alla causa italiana.’

Uno dei primi ufficiali borbonici a tradire il Regno delle Due Sicilie fu il generale Alessandro Nunziante, che passò ai Piemontesi non tanto per motivi ideali, ma più che altro per sfuggire al processo per i gravi abusi effettuati durante la costruzione del suo palazzo nell’attuale piazza dei Martiri. La sua precoce presenza al fianco degli invasori è documentata da una lettera invita il 9 agosto 1860 da Cavour all’ammiraglio Persano e da questi riportata sempre nel suo ‘Diario privato’. Ecco il conte cosa scrive: ‘Il problema che dobbiamo sciogliere è questo: aiutare la rivoluzione, ma far sì che al cospetto d’Europa appaia come atto spontaneo. Ciò accadendo, la Francia e l’Inghilterra sono con noi. Altrimenti non so cosa faranno. Nunziante è a Berna, lo ho invitato col telegrafo a recarsi a Torino.’

Nunziante, quindi, in quel momento era già a disposizione di Cavour, il quale addirittura gli dava precise disposizioni, come a un qualsiasi suo subordinato.

Nella capitale sabauda, d’altro canto, era noto che molti ufficiali borbonici fossero passati agli invasori e lo dimostra l’articolo intitolato ‘Il creduto prodigio di Garibaldi’, pubblicato il 13 settembre 1860 sul giornale torinese ‘Piemonte’ (che alcuni giorni dopo, come è facile immaginare, venne chiuso). Il tono del testo è sarcastico, e spesso addirittura dissacratorio, ma l’autore descrive con precisione quanto stava accadendo. Ecco quello che, tra l’altro, scrive: ‘Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sinora così strane che i suoi ammiratori hanno potuto chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo sconfigge eserciti, piglia d’assalto città in poche settimane, si fa padrone di un reame con nove milioni di abitanti e ciò senza navigli e senz’armi: altro che veni, vidi, vici! Non havvi Cesare che tenga a petto di Garibaldi. Eppure i miracoli non li ha fatti lui ma il grande generale Nunziante e gli altri ufficiali dell’esercito che, con infinito onore dell’armata napoletana, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico.’

Anche in questo caso, come in molti altri, illuminante è il commento di Massimo D’Azeglio, che era a conoscenza di molti retroscena e che in una lettera scritta il 17 settembre al giurista Michelangelo Castelli (riportata nel suo ‘Carteggio politico’, a cura di Luigi Chiaia, Roux, 1891) in sostanza conferma la ricostruzione delle vicende del Sud Italia fatta dall’anonimo redattore del ‘Piemonte’. Ecco quello che, non senza una certa ironia, il letterato piemontese scrive: ‘Nessuno più di me stima ed apprezza il carattere e certe qualità di Garibaldi; ma quando s’è vinta un’armata di 60 mila uomini, conquistato un regno di 6 milioni, colla perdita d’otto uomini (le cifre sono ovviamente e volutamente fantasiose), si dovrebbe pensare che c’è sotto qualche cosa di non ordinario, che non si trova dappertutto, e non credersi per questo d’essere padrone del globo.’

I tradimenti, quindi, ci furono e si può dire che gli stessi Piemontesi all’epoca non ne facessero un segreto.

Tra gli ufficiali delle Due Sicilie che vennero meno ai loro giuramenti, ci fu anche il generale Fileno Briganti. Il suo comportamento, che non lascia spazio a dubbi, viene dettagliatamente descritto da Giuseppe Buttà (cappellano dell’esercito e tra i militari assediati a Gaeta), il quale nel suo ‘Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta’ (Savastano, 1875) riporta: ‘Il generalissimo Vial da Monteleone aveva dato ordine al generale Briganti di correre con la sua brigata sopra Reggio e a Melendez di soccorrere costui in caso di bisogno. Briganti, che doveva condursi subito a Reggio, rimase a Villa San Giovanni: spinto però dagli ordini pressanti di Vial, e dagli uffici di Melendez, radunò la sua brigata e partì. Non volle condurre con sé quattro obici, che aveva, dicendo che erano solamente buoni per la parata di Piedigrotta. Il capitano di artiglieria Vincenzo Reggio perché gli rispose che quegli obici erano stati buoni in Catania, ne ebbe rimproveri e insulti.

La brigata Briganti partì da San Giovanni il 20 agosto, mentre doveva partire il 19, marciò lentamente, ad ogni momento faceva alto; giunse a Reggio la mattina del 21, quando già i garibaldini si erano impossessati della Città, ed avevano munita questa di barricate. Villa San Giovanni dista poche miglia da Reggio e Briganti impiegò un giorno ed una notte per percorrere quella via. Costui tutto aveva ben calcolato per favorire il nemico! Giunta la brigata sul ponte dell’Annunziata, il Briganti non dava alcun ordine di attacco, ma due compagnie del 14° di linea, condotte dal Capitano Gagliani per impazienza ed impeto attaccarono la Città. Briganti fece di tutto per farle tornare indietro, però quelle avanzarono, presero barricate e scompigliarono il nemico. Quel triste Generale, degno del nome che portava, in luogo di sorreggere quelle due compagnie lanciandosi con tutta la brigata sopra i nemici, volle imitare il Landi a Calatafimi. Ordinò la ritirata di tutta la colonna, lasciando quelle due compagnie alle prese con circa tremila garibaldini.’

Nel testo di Buttà si fa riferimento al generale Landi, che aveva inaugurato le lunga serie di inspiegabili ritirate dell’esercito duosiciliano. Luogotenente del re in Sicilia all’epoca era Paolo Ruffo di Bagnara, principe di Castelcicala, della cui fedeltà ai Borbone era impossibile dubitare, il quale venne immediatamente richiamato a Napoli e a sostituirlo fu il generale Lanza, che arrivò nella capitale siciliana il 16 maggio, dando l’impressione di volerla abbandonare al più presto nelle mani di Garibaldi. Il Castelcicala pochi mesi dopo lasciò Napoli e si trasferì a Parigi, dove sarebbe morto nel 1866. Malvisto sia dal nuovo potere, dal quale si tenne sempre distante, sia dai borbonici, che lo consideravano a torto responsabile della sconfitta in Sicilia, proprio in un articolo pubblicato nella capitale francese nel 1864 sul giornale ‘L’Union’, parlando per l’ennesima volta dei fatti accaduti in quei giorni drammatici, accusò apertamente il Landi di tradimento (come ricorda Salvo Di Matteo in ‘Quando il Sud fece l’Italia’, Arbor, 2011).

Tornando al Briganti, comunque, fu uno dei pochi ufficiali delle Due Sicilie (forse addirittura l’unico) ad essere punito per il suo tradimento. Infatti fu ucciso dai suoi stessi militari, che avrebbero preferito morire per il proprio re, anziché arrendersi senza combattere.

Questo episodio creò uno stato di agitazione negli altri ufficiali in procinto di vendersi all’invasore, i quali cominciarono a temere per la propria vita. Emblematica a questo proposito è la vicenda del generale Caldarelli, che cedette Cosenza senza combattere. Sulla sua resa, ecco cosa scrive Pietro Calà Ulloa (ultimo primo ministro del governo napoletano in esilio) in ‘Lettres napolitanes’ (Dentu, 1864): ‘Si era pensato che il generale Caldarelli avesse abbandonato Cosenza, si fosse ritirato su Salerno evitando gli scontri; e si presumeva che egli tutto al più si era inoltrato nelle montagne per cercare la sua sicurezza nella lontananza, ma poi si apprese, senza dubbio, che egli aveva patteggiato col comitato e che marciava con le orde garibaldine; oltre all’effetto morale, che era grande, tolse ancora all’esercito del re una brigata per la difesa.’ Ed ecco invece a proposito dei successivi timori del generale per la propria vita, cosa dice il patriota Giacomo Oddo ne ‘I Mille di Marsala’ (Scorza Di Nicola, 1864): ‘Nei soldati del generale Caldarelli cominciarono tosto ad apparire funesti indizi di un nuovo assassinio; pareva che si volesse dare a lui quella stessa fine che si era data al Generale Briganti. Il Caldarelli tosto si accorse di ciò che si tramava contro di lui e chiese a Garibaldi di essere protetto e garantito: Il Dittatore affidò questo incarico al Generale Giuseppe La Masa, che accompagnato dal suo aiutante Nizzari e da una guida del Dittatore, Pareto di Genova, seguì il generale Caldarelli fino alla Certosa di Padula, dove era acquartierata la truppa.’

I traditori, quindi, ci furono e spesso si aggregavano al generale delle camicie rosse, il quale si preoccupava anche, come abbiamo visto, di garantirne con tutti i mezzi l’incolumità.

Per concludere sull’avanzata di Garibaldi nel Sud Italia e sulle incredibili rese dei generali incontrati sulla sua strada, ecco cosa scrive l’ufficiale borbonico Luigi Gaeta in ‘Nove mesi a Messina’ (Tipografia Luongo, 1862): ‘E se nei fatti di Sicilia e Calabria Garibaldi ha visto qualche volta la falange napoletana ritirarsi avanti a lui, non ha mai sognato essere ciò l’effetto di magia, a lui addebitata, né l’infinitamente elogiato valore dei mille di Marsala. Vedeva e sapeva pienamente essere l’effetto dell’oro ch’egli prodigava a pochi capi dell’esercito, vergogna dell’umanità, che novelli Escariota, per un pugno d’oro, vendevano vita, sangue ed onore di tante migliaia di soldati ciecamente loro affidati. Sapeva Garibaldi poco o nulla di scienza militare, né abbisognargli, perché i Cavour, i Villamarina, i Liborio Romano, i Nunziante, i Pianell formavano per lui piani d’attacco e di difesa. Sapeva benissimo che mille non possono battere centomila, come uno non può battere cento.’

Numerose sono anche le tracce del danaro letteralmente corso a fiumi per comprare i sudditi dei Borbone e portarli dalla parte degli invasori.

Il conte Guido Borromeo, segretario particolare di Cavour, come riportato ne ‘La Liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia: I carteggi di Cavour’ (a cura de La commissione editrice, Zanichelli, 1949), annotava sul suo registro quanto segue:

‘Somme date per facilitare la rivoluzione a Napoli: £ 50.000 al principe Lequile, £ 25.000 al principe Napolitano, £ 1.000 al Duca di San Donato, £ 4.000 al Colonnello Ribotti, £ 2.000 al signor Romeo, £ 5.000 a De Pretis, £ 3.000 all’ingegner Aristide Ferrari, £ 3.500 al Generale Vetter, £ 2.500 alle sorelle Andreoni, £ 1.500 al Generale Lovera; totale £ 97.500.’

Sempre per corrompere i Napoletani Cavour fornì a Persano un milione di lire piemontesi, che all’epoca erano una quantità di danaro davvero considerevole. A questo proposito ecco l’ammiraglio cosa scrive sul suo ‘Diario privato’: ‘Sua Eccellenza il conte di Cavour mi avvisa di aver ordinato che fosse messa a mia disposizione una non lieve somma di danaro perché me ne servissi a promuovere il pronunciamento che doveva far partire il Re da Napoli … Appongo il mio visto ad una domanda fatta dal Comitato di 1.000 ducati e ad una tratta di 4.000 ducati a favore di Nisco … 31 agosto. Ho dovuto somministrare altro danaro. 20.000 ducati al Devincenzi, 2.000 al Console Fasciotti e 4.000 al Comitato per guadagnare (ovvero per corrompere, nda) soldati …’

Nel Sud venivano inviate in continuazione somme considerevoli. Tra le testimonianze che ce lo confermano, c’è anche quella del deputato Nicomede Bianchi, il quale ne ‘Il Conte Camillo di Cavour, documenti editi e inediti’ (UTE, 1863) scrive:’ Il Deputato Bottero ebbe l’incarico dal conte di Cavour di cooperare a questo passaggio dei garibaldini sul continente, e partì da Torino con 500mila franchi; subito dopo una eguale somma portò in Sicilia l’ex Deputato Bartolomeo Casalis.’

Il danaro fu uno strumento utilizzato anche per facilitare l’avanzata delle camicie rosse, come documenta, tra gli altri, Giuseppe Buttà, che nel citato ‘Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta’ scrive: ‘Il colonnello Dusmet ebbe offerti ducati tremila da un vecchio settario, in toletta da signore, mandato da Garibaldi. Dusmet, tipo di gentiluomo e di vero militare, disse a quel vecchio settario: Non ti rispondo con la punta dei miei stivali perché voglio rispettare la tua canizie, vecchio imbecille. Bisogna riflettere che Garibaldi offriva tremila ducati ad un semplice Capo di reggimento; figuratevi che altre somme pagò a superiori che lo secondarono!’

In conclusione, numerosi ufficiali dell’esercito napoletano, e in generale numerose personalità delle Due Sicilie, passarono ai Piemontesi, il più delle volte per danaro, ma anche per altri benefici personali. Le testimonianze e i documenti riportati lo provano in maniera assolutamente incontrovertibile ed è impossibile (per non dire, ridicolo) negarlo.

Eppure io temo che prima o poi saremo costretti ancora a tornare sull’argomento.

Per realizzare questo mio breve saggio, mi sono avvalso anche delle ricerche di uno dei più attenti studiosi della nostra storia, il professore Vincenzo Giannone, che voglio pubblicamente ringraziare per il prezioso contributo da lui offerto alla ricerca delle verità tradite.

continua…….

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