Il percorso di Francesco Mario Pagano dalla monarchia illuminata alla Repubblica partenopea
Giuseppe Gangemi
Il 22 maggio 1982, Luigi Firpo tiene, nel Real Teatro di Corte di Napoli, una conferenza su Francesco Mario Pagano in margine a un convegno sul tema “Gli intellettuali napoletani dall’illuminismo riformatore alla rivoluzione del 1799”. Nella relazione, si scusa di interessarsi della rivoluzione napoletana del 1799 pur essendo solo uno specialista del Rinascimento. Riconosce che un salto di due secoli e più dalla sua zona di competenza può “spezzare le ginocchia” di uno studioso anche molto serio.
L’ammissione è tanto più meritevole quanto più quella relazione, presentata per un’iniziativa dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (IISF) diretto da Gaetano Marotta, è anche una carta di presentazione per farsi affidare, con il patrocinio dell’IISF, la pubblicazione delle opere complete di Pagano: Saggi politici in due volumi (uno per edizione); Scritti giuridici e Scritti letterari in altri due.
L’IISF affida il progetto a Firpo e questi si mette a lavorare. Nel 1988, riferisce Laura Salvetti, che collabora al progetto fin dall’inizio, i due volumi dei Saggi sono già impostati nelle linee generali. La morte, improvvisa, di Firpo per un ictus, appena l’anno dopo, ritarda la pubblicazione dei volumi. Il primo vedrà la luce nel 1993 (a cura di Firpo e Salvetti) e il secondo nel 2004 (a cura di Salvetti).
I due volumi, terminati a 22 anni dalla formulazione originaria del progetto permettono di dare una risposta storicamente fondata a quello che è il dilemma sempre presente relativamente a Pagano: se il suo abbandono delle posizioni di dispotismo o riformismo illuminato e il conseguente passaggio alle posizioni rivoluzionarie sia intercorso tra la prima e la seconda stesura dei Saggi politici. Prima di Firpo si credeva che la radicalizzazione delle posizioni di Pagano fosse conseguenza dell’influenza del processo di estremizzazione progressiva della Rivoluzione Francese e che questa sia stata la motivazione che ha portato Pagano a riscrivere i Saggi politici, nel 1791 e 1792, onde togliere le parti più moderate e superate e inserire parti nuove e più radicali. La pubblicazione dei Saggi di Pagano. a cura di Firpo e Salvetti il primo volume, nel 1993 e di Salvetti nel 2004, smentiscono questa ipotesi.
La fiducia nel dispotismo illuminato dei regnanti napoletani dura, secondo Firpo, “fino ad una data molto avanzata, praticamente fino ai processi di Stato del 1794” (Firpo, Luigi, Francesco Mario Pagano pp. 479-493, 1993, p. 481), di fatto fino alla decisione di difendere alcuni giovani sotto accusa.
Dimostrarlo non è stato sufficiente: alcuni preconcetti sono duri a morire. Nel luogo più impensabile, in quell’IISF che ha finanziato la ripubblicazione dei Saggi politici, in una pubblicazione dell’Istituto dedicata agli studenti del Liceo, i Saggi per la scuola, viene pubblicata, il 9 marzo 2018, una sintesi del pensiero di Pagano che contiene, nel volgere di appena un rigo, due madornali errori che rivelano la completa ignoranza dell’analisi di Firpo: “Nella seconda edizione dei Saggi, nel 1795, la condanna della monarchia è totale”. Il primo errore è la data di pubblicazione posticipata di tre anni e il secondo l’affermazione sulla monarchia. I due errori sono conseguenza di un rifiuto cognitivo.
Un rifiuto cognitivo non è un semplice errore; è un fatto collettivo che persiste impunemente in un determinato ambiente culturale (Napoli, l’IISF e quanti sono o si sentono specialisti del Settecento napoletano). Il rifiuto cognitivo sempre attraversa un ambiente culturale senza ricevere sanzioni o critiche perché è forte la disponibilità a condividerlo. In questo caso, è condivisa la convinzione che le rivoluzioni siano frutto di una mutazione interna all’illuminismo. Mutazione che qualcuno attribuisce alla sostituzione di Vico con Machiavelli (ma il caso Francesco Maria Greganti smentisce l’effetto di radicalizzazione conseguente alla lettura de Il Principe) e altri attribuiscono alle nuove idee giacobine che arrivano a Napoli con la flotta francese guidata dall’ammiraglio Latouche-Tréville.
Francesco Berti, specialista padovano del Settecento napoletano e di Pagano, ne L’uovo e la fenice. Mario Pagano e il problema della rivoluzione, sostiene che il senso della storia di Vico con scompare dalla riflessione e dall’azione concreta di Pagano. La partecipazione di quest’ultimo alla rivoluzione napoletana resta profondamente realista anche quando finisce in mezzo alla guerra civile. Pagano rimane sempre lucidamente consapevole che più si è vicini alla seconda barbarie, più l’azione riformatrice si deve fare guardinga e gradualista per poter essere accettata da tutti come soluzione adeguatamente equilibrata. Lucidità che Pagano mantiene, per esempio, nella discussione, in sede di governo provvisorio e di assemblea legislativa, della legge feudale da riscrivere. Contrariamente a molti componenti del governo provvisorio e del Comitato della Legislazione, Pagano propone di togliere ai feudatari solo quello che può essere dimostrato frutto di un’usurpazione e di redistribuirlo ai più bisognosi. Berti sostiene che sia il senso della storia che deriva dalla filosofia vichiana che porta Pagano a confrontarsi duramente con i più radicali membri del governo provvisorio della Repubblica che di senso storico non ne hanno affatto, essendosi formati, se mai si sono formati (come sosterrà Vincenzo Cuoco) alla scuola di Pietro Giannone, o se si sono soltanto improvvisati rivoluzionari perché, mancando di adeguata elevatezza mentale, illuministi o riformisti non sono mai stati.
Del resto, nemmeno Eleonora Fonseca Pimentel, portavoce ufficiale del governo repubblicano con il proprio Monitore napoletano, crede che l’adesione alla rivoluzione sia conseguenza di un fatto culturale. Nel numero otto della rivista, parlando di Gaetano Filangieri, definisce i suoi scritti vessilli della rivoluzione in quanto era massone (“iscritto a società chiuse ai profani”).
Concludendo, la rottura di Pagano con la monarchia napoletana non nasce da fatti culturali, ma dalla convinzione, provata sulla propria pelle, circa l’incompatibilità dei Borbone con il riformismo dopo le scelte, sempre più repressive, che essi operano. Dopo che egli stesso, pur innocente (viene accusato da un ex procuratore fatto arrestare da Pagano – Berti, p. 3, nota 2 -), viene tenuto in prigione per 29 mesi (dal 27 febbraio 1796 al 25 luglio 1798), si convince che le Repubbliche napoleoniche possono solo essere il male minore. Accetta così di collaborare, per frenarne gli eccessi, come, del resto, fino a tutto il 1795, aveva cercato di fare collaborando con una monarchia che si mostrava sempre più repressiva (il 24 novembre 1794 accetta la carica di giudice dell’Ammiragliato ed esercita il ruolo per 15 mesi).