Il Piemonte annullò lo stato sociale che i Borbone avevano eletto a patrimonio morale.
Quando si parla d’industria, l’immaginario collettivo pensa al Nord, pensa al triangolo industriale Milano, Genova, Torino, come se il Padreterno avesse eletto i padani a condurre l’economia, come se i meridionali fossero incapaci di produrre beni, ma solo in grado di consumare ricchezza. Leggendo le statistiche del primo censimento dell’unità d’Italia, ci accorgiamo che gli addetti nell’industria erano 1.595.359 nel Regno delle Due Sicilie contro i 376.955 del Regno di Sardegna, i 465.003 della Lombardia, i 66.325 del Ducato di Parma, i 71.759 di Modena, Reggio Emilia e Massa, i 130.062 della Romagna,i 16.344 delle Marche, i 10.955 dell’Umbria, i 33.456 della Toscana.
Questi sono dati forniti dal governo piemontese nel 1861 e quindi inconfutabili. 1.595.359 addetti nell’industria del Regno Borbonico contro 1.170.859 addetti del resto d’Italia.
La Campania nel 1860 era tra le regione più industrializzata del mondo ed oggi, dopo 152 anni di potere liberal massonico, è definita terra di camorra.
Per oltre un secolo scrittori salariati dal regime massonico hanno denigrato i Borboni ed il loro Regno, tanto che la parola borbonico, nell’accezione imperante, è diventata sinonimo di arretrato, di inefficiente.
Naturalmente i pennivendoli del Nord e del Sud, baldracche allo stato dell’arte, feccia immonda senza nerbo ed imputridita, letame e monnezza, ai quali stava e sta a cuore solo il più bieco servilismo nei confronti del regime piemontese prima e borghese massonico capitalista oggi, hanno infangato un popolo, un Regno e la sua amministrazione, la sua efficienza amministrativa e tributaria, hanno infangato i contadini del Sud che erano accorsi a difendere la loro patria chiamandoli briganti, hanno infangato la storia.
Oggi è sotto gli occhi di tutti la voragine debitoria di questo Stato!
Nel 1860 scannarono il Sud e il Sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: quasi un milione di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, un decimo della popolazione, 20 milioni di emigranti; la spoliazione delle terre demaniali e dei beni ecclesiastici, tutti i risparmi dei Meridionali rapinati.
I pennivendoli di regime continuano a scrivere libri di storia menzogneri sull’Unità d’Italia, danno al Sud colpe tremende di parassitismo; continuano a chiamare “borbonica” la cattiva amministrazione e la burocrazia di stampo piemontese e, soprattutto, sono riusciti ad inculcare nell’immaginario collettivo, senza spiegarne le cause, bombardando continuamente le menti ormai fiaccate della gente, che Sud vuol dire mafia, vuol dire camorra, vuol dire ‘ndrangheta, vuol dire far niente, vuol dire assistito. Questi pennivendoli sperano di mettere un velo sull’intelligenza umana, di far dimenticare a qualcuno le miserie del Nord, gli eccidi perpetrati dagli invasori piemontesi, le prepotenze dei liberalmassoni di ieri e di oggi e soprattutto vorrebbero farci dimenticare che il Sud era ricco.
Le finanze del Regno delle Due Sicilie nel 1860 costituirono un bottino enorme per i piemontesi ed i mercenari garibaldini al soldo inglese.
Vittorio Gleijeses nella sua Storia di Napoli scrive: “… il tesoro del Regno delle Due Sicilie rinsanguò le finanze del nuovo stato, mentre l’unificazione gravò sensibilmente la situazione dell’Italia meridionale, in quanto il Piemonte e la Toscana erano indebitate sino ai capelli ed il regno sardo era in pieno fallimento. L’ex Regno delle Due Sicilie, quindi, sanò il passivo di centinaia di milioni di lire del debito pubblico della nuova Italia e, per tutta ricompensa, il meridione, oppresso dal severissimo sistema fiscale savoiardo, fu declassato quasi a livello di colonia. Con l’unificazione, a Napoli, aumentarono le imposte e le tasse, mentre i piemontesi videro ridotti i loro imponibili e col denaro rubato al Sud poterono incrementare le loro industrie ed il loro commercio”.
Ferdinando Ritter ha scritto che: “… il Regno delle Due Sicilie contribuì alla formazione dell’ erario nazionale, dopo l’unificazione d’Italia, nella misura di ben 443 milioni di lire in oro, mentre il Piemonte, la Liguria e la Sardegna ne corrisposero 27, la Lombardia 8,1, il Veneto 12,7, il Ducato di Modena 0,4, Parma e Piacenza 1,2, la Romagna, le Marche e l’Umbria 55,3; la Toscana 84,2; Roma 35,3…“.
La ricchezza del Regno delle Due Sicilie era dovuta alla buona amministrazione pubblica che dava autonomia impositiva ai comuni. Il Sud godeva di un patrimonio aureo di poco inferiore al mezzo miliardo di lire in oro, più del doppio di quello degli altri Stati d’Italia.
Nel Regno delle Due Sicilie l’emigrazione era una parola inesistente nel vocabolario; tutti avevano un lavoro, l’occupazione era completa, la scuola era pubblica e gratuita per tutti, ne mancavano quelle private e quelle religiose; i vecchi venivano accolti in ospizi pubblici o religiosi; i braccianti agricoli, quando non trovavano lavoro nelle tenute dei possidenti, scorticavano le montagne demaniali e vi impiantavano vigne, frutteti, uliveti; i pastori avevano libero accesso ai pascoli; i pescatori utilizzavano pescherecci moderni costruiti nei cantieri navali del Regno; i naviganti solcavano tutti i mari del mondo trasportando le merci prodotte nelle fabbriche del Meridione d’Italia.
I prodotti agricoli, essendo il vanto di un’ agricoltura sana venivano trasformati negli opifici locali e destinati all’ estero dopo aver soddisfatto le esigenze degli indigeni.
Si rimane esterrefatti nel leggere le statistiche relative all’industria tessile, all’industria metalmeccanica a quella ferroviaria e mercantile del Regno delle Due Sicilie, in quanto le nostre orecchie sono state abituate da sempre a sentire parlare di un Sud povero, pieno di mafiosi e di nulla facenti, insomma un popolo di terroni.
Nel Meridione vi era una fittissima rete di opifici tessili che davano lavoro a decine di migliaia di operai, di fabbriche metallurgiche e mercantili che, con una grossa rete di maestri artigiani e una moderna industria di trasformazione agricola, formavano un tessuto laborioso di prim’ ordine.
Nel corso dei secoli il Sud era sempre stato un paese esportatore di materie prime ed importatore di manufatti.
Dal 1820 al 1860 la situazione cambiò radicalmente: una vera rivoluzione. Nel 1834 il Regno delle Due Sicilie esportò lana per 65.991 ducati; nel 1842 ne vennero importati 1.000 quintali per soddisfare le esigenze delle nostre industrie del settore; quantità che aumentò nel corso degli anni. Nel 1852 si importarono 15.000 quintali di lana.
Il cotone cominciò ad essere importato attorno agli anni trenta in quanto le industrie del Sud avevano esigenze nuove. Nel 1838 vennero importati 1710 quintali di cotone; nel 1852 i quintali arrivarono a 11.078. Il cotone filato passò dalle 1.439 tonnellate del 1830 alle 3.429 del 1855.
I prodotti manifatturieri in un primo momento servirono a soddisfare le esigenze del mercato interno in continua espansione, per poi essere esportati in tutto il mondo. Da grande esportatore di lana, il Sud divenne in un ventennio grande consumatore del prodotto. Nel 1855 s’importarono cotone e lana per circa 100.000 ducati, prodotti che venivano lavorati nelle industrie del Sud.
Intere zone del Regno delle Due Sicilie vennero rivoluzionate in poco tempo per la gran massa di operai impiegati in quelle industrie. 200 mila persone, di cui centomila donne, lavoravano nel settore. Nella Valle del Liri, in Ciociaria, gli imprenditori locali, aiutati da una politica bancaria equa, investirono in un anno quasi un milione di ducati nel settore tessile impiegando circa 15 mila operai su una popolazione di 30 mila abitanti producendo annualmente oltre 360.000 canne di tessuti.
Nel 1846 a Napoli ed in Terra di Lavoro lavoravano nel settore tessile 60 mila operai, pari al 28% della popolazione residente nel territorio.
Nel distretto di Salerno gli operai addetti nelle fabbriche tessili erano 10.244. Famosissime erano le tele di lino di Cava de’ Tirreni.
In una città come Arpino, sempre in Ciociaria, che contava 12 mila abitanti, vi erano 32 fabbriche che impiegavano 7.000 operai locali.
Questo pullulare di industrie aveva un unico titolare: il Banco di Napoli che, favorito dalle leggi del Regno e avendo grandi capitali da investire risparmiati dalle popolazioni meridionali, dava ricchezza rimettendo il denaro nel circuito locale. Il tutto veniva facilitato dalla continua protezione governativa.
L’INDUSTRIA METALMECCANICA NEL REGNO DELLE DUE SICILIE
Per difendere l’economia del suo regno, Ferdinando II il 15 dicembre del 1823 ed il 20 novembre del 1824, emise provvedimenti doganali che proteggevano lo sviluppo industriale autoctono. Già nel 1818, pochi anni dopo la Restaurazione, abbandonando i criteri liberistici che producevano utili per pochi e disoccupazione per molti, il Sovrano napoletano aveva imposto dazi elevati sui prodotti stranieri importati e dazi minimi sulle merci d’importazione necessarie allo sviluppo delle sue terre.
Quanto alle esportazioni, erano stati fissati dazi elevati per le materie prime che potevano essere lavorate dall’industria napoletana. Fin dal 1821, inoltre, erano stati aboliti i regolamenti sulle corporazioni. Erano stati spesso anticipati capitali ai manifatturieri da parte della Cassa di Sconto.
Questa politica fece dell’industria tessile e metalmeccanica due settori trainanti che portarono molti stranieri ad investire nel Meridione. Tra essi ricordiamo l’industriale Guppy che, che con il suo connazionale Pattison, aveva intrapreso a Napoli la costruzione di macchine agricole e macchine a vapore
La fonderia di Macry ed Henry, con sede al Ponte della Maddalena, con mille addetti operava nel settore del ferro fuso.
Ferdinando II divenne, di fatto, il più dinamico imprenditore del Regno. Nacque così il Reale Opificio Meccanico e Politecnico di Pietrarsa, nei pressi di Napoli, con mille operai specializzati, fiore all’occhiello dell’industria partenopea. Lo stabilimento fu inaugurato nel 1840 da Ferdinando II di Borbone. Pietrarsa fu il primo nucleo veramente industriale italiano; lì si producevano, con tecnologie avanzate, treni e locomotive. Le officine della Breda nacquero 44 anni più tardi e la Fiat 57 anni dopo.
Sempre su iniziativa del Re venne istituita la real fonderia in Castelnuovo (500 operai), la Real Manufattura delle armi in Torre Annunziata (500 operai), l’Arsenale di Napoli ed il Cantiere Navale di Castellammare (2.000 operai). 1.500 operai lavoravano alle Ferriere Mongiana in Calabria, con stabilimenti a Pazzano e a Bigonci. Quattro altiforni producevano 21.000 quintali di ghisa, mentre 200 operai specializzati lavoravano nello stabilimento metalmeccanico di Cardinale, sempre in Calabria, e producevano 2.000 quintali di ferro. Altri centri siderurgici e meccanici erano sorti a Fuscaldo (Calabria), Picinisco (Terra di Lavoro), Picciano (Abruzzo), Atripalda (Avellino). Altri ancora a Lecce, Foggia, Spinazzola: questi ultimi tutti specializzati nel produrre macchine agricole. In ogni paese nacquero piccole industrie, che erano il nerbo dell’ economia reale del Regno.
Di notevole importanza erano le industrie della pasta alimentare, della lavorazione del cuoio e per la produzione di colori, delle maioliche, di vetri, cristalli, metalli preziosi, stoviglie, saponi, mobili, strumenti musicali di precisione.
LE FERROVIE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE
Il 3 ottobre 1839 venne inaugurata la Napoli-Portici, la prima ferrovia italiana: la locomotiva a vapore coprì la distanza tra le due città in nove minuti, tra due ali di folla festante e curiosa di vedere tanta potenza in quello sbuffare di vapore.
I pennivendoli post-unitari si affannarono per sostenere l’inutilità di detta ferrovia, ritenuta un passatempo da giocattolo nelle mani del Re Borbone. In realtà quegli intellettuali da strapazzo tentarono di oscurare la grandezza illuminata di Ferdinando II che, fortissimamente, aveva voluto dare impulso all’intero assetto industriale del Regno. Altro che giocattoli! Dietro quella locomotiva c’erano le industrie di Pietrarsa, della Mongiana e mille altre; industrie con personale qualificato e specializzato e che preparavano i ragazzi con corsi di formazione.
Durante il discorso d’inaugurazione, Ferdinando II espose il suo progetto ferroviario. Il Sud doveva essere attraversato da due grandi dorsali ferroviarie: la prima doveva collegare Napoli a Brindisi e dalla città pugliese la ferrovia avrebbe dovuto raggiungere Pescara, Ancona Bologna e, passando per Venezia, avrebbe dovuto ricongiungersi con le ferrovie danubiane e renane.
La seconda, partendo dalla Calabria e dalla Basilicata avrebbe dovuto raggiungere Roma per poi proseguire per Firenze, Genova e Torino. Nel 1840 la via ferrata raggiunge Torre del Greco, nel 1842 Castellammare di Stabia, nel 1844 Nocera e quindi Salerno. A nord di Napoli si lavorava speditamente: nel 1843 la ferrovia giunse a Caserta e nel 1844 a Capua e Sparanise.
Sulla Gazzetta Piemontese del 30 marzo 1847, Ilarione Petitti di Roreto esprimeva la sua ammirazione per il programma ferroviario avviato nel Regno delle Due Sicilie.
Il Piemonte, arretrato e guerrafondaio, riteneva detti programmi fantascientifici; Cavour aveva altro a cui pensare e la storiografia ufficiale di regime fece passare per «grandi opere» la costruzione del canale chiamato poi di Cavour.
Il 16 aprile 1855 Ferdinando II emanò un decreto sottofirmato dal Direttore di Stato dei lavori pubblici, Salvatore Murena. L’art. 1 così recitava: “.. .Accordiamo concessione al Sig. Emanuele Melisburgo di costruire una ferrovia da Napoli a Brindisi…”.
Nello stesso giorno il Re firmò un altro decreto in cui all’art. 1 dichiarava: “accordiamo concessione al Barone D. Panfilo De Riseis, di costruire una ferrovia da Napoli agli Abruzzi, fino al Tronto, con una diramazione per Ceprano, una per Popoli, una per Teramo ed una per Sansevero…”.
Ferdinando II aveva previsto persino una ferrovia per il trasporto di animali dagli Abruzzi nelle Puglie per alleviare le fatiche dei mandriani e le relative perdite di giumente compensate così da un trasporto a tariffa conveniente!!!
Edoardo Spagnuolo, nel n°5 dei quaderni di Nazione Napoletana, così commenta la fine del sogno vissuto dalle popolazioni meridionali dopo l’annessione piemontese: ” I grandi progetti ferroviari del Governo Borbonico avevano dunque un fine preciso. Le strade ferrate dovevano divenire un supporto fondamentale per l’economia meridionale ed essere di servizio allo sviluppo industriale che il Mezzogiorno d’Italia andava mirabilmente realizzando in quei tempi. Il governo unitario, dopo aver distrutto le fabbriche del Sud a proprio vantaggio, realizzò un sistema ferroviario obsoleto che, assieme alle vie marittime, servì non per trasportare merci per le manifatture e gli opifici del meridione ma per caricare masse di diseredati verso le grigie e nebbiose contrade del Nord o delle Americhe”.
LA MARINA MERCANTILE, LA VERA CAUSA PER LA DISTRUZIONE DEL REGNO DELLA DUE SICILIE
Le industrie del Sud richiedevano continuamente materie prime e quindi c’era bisogno di navi che le trasportassero.
Essendo l’Italia meridionale attraversata da una dorsale appenninica formata di aspre montagne, e quindi da vie di comunicazione di difficile attraversamento, fu naturale, sin dai tempi dell’Impero Romano, che uomini e merci viaggiassero per mare.
Tutta la costa era punteggiata di centri i cui cantieri navali erano rinomati in tutto il mondo e che davano lavoro a migliaia d’operai che lavoravano nelle industrie collegate.
Nel 1818 il Regno delle Due Sicilie disponeva di 2.387 navi, nel 1833 il numero salì a 3.283, di cui ben 262 superiori alle 200 tonnellate e 42 che oltrepassavano le 300 tonnellate.
Nel 1834 i bastimenti arrivarono a 5.493 per salire a 6.803 nel 1838. Nel 1852 il numero di navi e bastimenti arrivò a 8.884.
Nel 1860 la flotta mercantile borbonica era la seconda d’Europa dopo quella inglese e contava 9.848 bastimenti per 259.910 tonnellate di stazza, dei quali 17 piroscafi a vapore per 3.748 tonnellate, 23 barks per 10.413 tonnellate 380 brigantini per 106.546 tonnellate, 211 brick schooners per 33.067 tonnellate, 6 navi per 2.432 tonnellate e moltissime imbarcazioni da pesca.
I cantieri navali erano sparsi per tutta la costa tirrenica, ionica e adriatica. Praticamente in ogni città costiera vi erano insediamenti accompagnati da scuole di formazione professionale e scuole marittime e nautiche.
Tutti pensano che Gaeta, allora, fosse solo una roccaforte militare che dava ospitalità a circa 10.000 soldati. In realtà attorno alla fortezza ruotava un’ agricoltura ricchissima ed avanzata costellata da circa 300 trappeti che davano lavoro a centinaia di persone, come pure vi erano fabbriche di sapone e di reti.
Gaeta, come altre città del Regno, era ricchissima e la sua flotta mercantile vantava molte società di navigazione con al servizio duemila marinai sempre in viaggio.
Essa era composta da 100 brigantini e martegane, da 60 a 220 tonnellate di stazza, 60 paranzelle da 30-40 tonnellate e circa 200 barche a vela da 2 a 20 tonnellate di stazza che ogni giorno si recavano a Napoli o a Roma attraverso il Tevere trasportando merci e passeggeri.
I cantieri navali di Gaeta, da sempre attivi, costruivano brigantini, galeoni, saette e velieri che venivano anche esportati.
Tutto questo stava togliendo prestigio e competitività a una grane Marina, alla Marina Reale Inglese.
Le navi napoletane toglievano fette sempre più ampie al mercato della cantieristica inglese, non solo erano ottime, ma più economiche. Il varo della prima nave a vapore del mediterraneo, l’attuazione di rotte che giungevano in America del Nord, del Sud e nel Pacifico, stavano intaccando i mercati commerciali Imperiali.
Soprattutto, da lì a pochi anni si sarebbe aperto il canale di Suez, e tal cosa avrebbe rischiato di fare diventare il porto Napoli, uno dei porti più importanti dell’Europa ma innanzitutto la porta dell’Europa verso il cuore dell’impero inglese; le Indie.
Questo non poteva essere più essere tollerato.