Alta Terra di Lavoro

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IL POPOLO NAPOLITANO NON E’ DORMIENTE MA SILENTE

Posted by on Giu 23, 2018

IL POPOLO NAPOLITANO NON E’ DORMIENTE MA SILENTE

Con l’avvento del luteranesimo per volontà della “perfida albione” , l’Inghilterra, che aveva pianificato una politica imperialista, inizia la demonizzazione della Chiesa Cattolica e la politica dello “Sputtanapoli”. L’asse Roma-Napoli, che guidava il mondo dal 300 a.c.  bisognava demolirlo perché il binomio cattolicesimo-napoletano era l’ostacolo più grande per le mire espansioniste anglicane e per questo motivo che, dal metà del 700, è iniziata una lenta ma continua divulgazione del concetto di Napoli sinonimo di negatività pur sapendo che nel suo Dna ha i geni che nessun altra etnia al mondo può vantare. Ancora oggi questa tendenza non soltanto non tende a diminuire ma addirittura si rafforza dando però, sempre più prestigio ed immortalità al popolo napoletano ed oggi pubblichiamo un video dell’immenso Carmine Di Somma che risponde ancora una volta, a suo modo, a Cruciani ma anche a Briatore.

A seguire il suddetto video pubblichiamo, altresì, una riflessione del Brigante Martummè che a mia richiesta, non se lo ha fatto dire due volte, ha voluto dare un contributo a difesa della nostra storia e del nostro Regno.

https://www.youtube.com/watch?v=Ave_Oy-rxj4&t=6s

 

NOTE DEL REDATTORE 3 –

HANNO RAGIONE I SIG.RRI BRIATORE E FELTRI?

 

“Ammo pusato chitarre e tammorre e c’’a cultura vulimme parlà (1).

Il sig. Briatore, a proposito della Calabria, parla, in estrema sintesi, supportato dal sig. Feltri, di “Calabria Saudita”

Hanno ragione?

Non vengo qui a difendere la Calabria, nè a celebrarla. Per me, che so napulitano, la Calabria non ha bisogno di essere difesa né celebrata.

Per me no.

Non so per voi, soprattutto per quelli “sopra il Tronto” ed anche per quelli di sotto che sono ascari.

Nel dubbio racconto una favoletta (2).

Eccola.

C’era una volta un re.

Questo re, che è vissuto sedici generazioni prima della guerra di Troia (3), si chiamava Italo e governava sull’Arcadia, una regione collinare a nord del Peloponneso, popolata da pastori, che praticavano anche l’agricoltura.

Un giorno re Italo convocò a corte la sua regina (che era di origini orientali) ed i nobili di più alto lignaggio e così disse loro:

“Ho a lungo meditato e vi comunico che ho deciso di partire e di lasciare questa terra, benchè sia la terra dei miei antenati, per trovarne una migliore.

Ho deciso di partire perché sono stufo di essere costretto alla guerra, per difendere questa terra, piuttosto che vivere pacificamente, dedicandomi alle mie passioni, l’allevamento e l’agricoltura.

Un giorno infatti sono costretto a combattere per difenderla dalle mire espansionistiche dei Macedoni (4), che sono assai attratti da questi fertili altopiani.

Il giorno successivo sono di nuovo costretto a combattere con la città-stato di turno del Peloponneso, che con la scusa di “esportare la sua forma di governo, ovvero la democrazia” (5), pure è assai attratta dai nostri fertili altopiani.

E così di seguito di giorno in giorno senza sosta né pace.

Sono stufo e perciò ho deciso di partire per trovare una terra migliore e più tranquilla per potermi finalmente dedicare alle mie passioni.

Chi di voi vuole seguirmi è il benvenuto, chi, invece, vuole restare qui è libero di farlo.”

Tutti subito decisero di seguirlo, la regina in testa, perché tutti erano legatissimi a re Italo, uomo forte, assai saggio e buono; in realtà da giovane, quando era solo principe ereditario, Italo era stato un vero attaccabrighe, sempre pronto a sguainar la spada per far valere con successo le sue ragioni, di seguito assunta la responsabilità del suo piccolo regno e messa su famiglia di molto si era calmato.

Re Italo ed i suoi Arcadi quindi partirono e, dopo aver navigato per mesi e mesi, sbarcarono finalmente in un istmo di terra delimitato a nord-est dal golfo di Squillace e a nord-ovest dal golfo di S. Eufemia (6).

Mentre la sua gente provvedeva all’edificazione di dimore degne di essere appellate case, re Italo in avanscoperta esplorava meglio il territorio e la gente che lo popolava.

Re Italo scoprì quindi che i locali, benchè pastori nomadi, di luogo in luogo in cui si spostavano, coltivavano un’unica pianta, di cui non mangiavano semplicemente il frutto ma ne bevevano abbondantemente a sera, dopo il lavoro, il succo che era stato preventivamente fatto fermentare.

Per tale motivo i locali erano sempre un po’ alticci, cosi chè re Italo con i suoi nella loro lingua li ribattezzo “Enotri”, che per l’appunto nella lingua di re Italo significa “avvinazzati”.

Re Italo, dall’alto della sua saggezza, instaurò quindi con gli Enotri proficui e pacifici rapporti di convivenza, insengnando loro a coltivare e trarre sostentamento anche da altre piante, il grano, il riso, il fico e l’olivo.

All’esito, evidentemente, la condizione di vita degli Enotri cambiò totalmente, dalla notte al giorno, in quanto questi, da pastori nomadi che erano, si trasformarono in agricoltori stanziali.

Gli Enotri si mostrarono così riconoscenti a re Italo che si offrirono di diventare suoi sudditi.

Re Italo, benchè inorgoglito dall’offerta, la rifiutò acconsentendo a consolidare con loro rapporti di duratura amicizia, per incrementare i quali introdusse tra gli Enotri l’usanza orientale delle “sissizie” (7).

Fu così che, dal nome di quel re, quella terra smise di essere Enotria ed i suoi abitanti smisero di essere Enotri, divenendo quella terra Italia ed i suoi abitanti Italoi (8).

Fine della favoletta.

Devo necessariamente aggiungere una notarella storica più attuale.

C’è uno studio economico dell’Università di Tor Vergata di Roma inizio anni 2000, a firma professor Fenoaltea e dottor Ciccarelli, pubblicato dalla Banca d’Italia (9) ma, vai a sapere perché, solo in inglese (10).

Secondo questo studio prima dell’ “unità d’italia” l’industrializzazione del (“cosiddetto”) Mezzogiorno era pari se non addirittura superiore a quello del resto dello “stivale”.

Morali e suggerimenti della favoletta e dello studio economico per quelli sopra il Tronto ed anche per gli ascari di qui.

Causa ”unità d’Italia”:

  1. a) sono stati svuotati i forzieri del Banco di Sicilia e del Banco di Napoli, le cui giacenze auree sono state prevalentemente utilizzate dai “fratelli” vincitori per la bonifica delle paludi di Vercelli e Novara con il dichiarato scopo di risolvere la piaga ivi all’epoca esistente dell’emigrazione;(11)
  2. b) anche per questo motivo è sorta quella cospicua voce del debito pubblico che si chiama “rendita perpetua”;
  3. c) c’è stata la chiusura/smantellamento della fabbrica della seta (S. Leucio, CE), della prima fabbrica in Europa di locomotive e vagoni ferroviari (Pietrarsa, Portici, NA), dei cantieri navali (Castellammare di Stabia, NA), della fabbrica metallurgica, la prima in Europa a realizzare binari ferroviari (Mongiana, VB); (12)
  4. d) per “contrappasso” qui sono state impiantate per deliziarci le fabbriche di Bagnoli e Taranto;
  5. d) qui, sempre per deliziarci, sono stati sepolti i rifiuti tossici, fortemente tumorali, di mezzo mondo;
  6. e) non avendo di meglio da fare è stata scippata anche la parola “Italia”; tenetevela, ve la regalo.

Bhè, bopo tutte queste cose potete anche dar ragione ai sigg.ri Briatore e Feltri però, per cortesia, insieme a loro non rompete più i “cabasisisi” (13).

So bene che dopo tutto questo sproloquio qualcuno potrà definirmi “pseudo-intellettuale della Magra Grecia”. Fa parte di questo pessimo gioco che si chiama “guerra persa ma mai dichiarata”. (14)

 

Note del redattore

(1) Incipit, modificato, della famosissima canzone “Brigante se more” del dottor, maestro, Eugenio Bennato, alla cui scuola “dissonante e di contrabbando” mi sono formato.

A proposito di scuola:

“Io l’italiano l’ho appreso ma voi ‘o nnapulitano lo sapete parlare e, soprattutto, scrivere?”

(2) Questa favoletta in realtà tanto favoletta non è. E’ infatti il risultato (solo un po’ romanzato) di uno scritto del sommo Aristotele “Politica”, (capitolo) VII, (paragrafo) 9, 2 e (paragrafo) 10, 2-3, che (vai a capire perché!?) non è particolarmente studiato, che però io ho acchiappato grazie ad una dritta in una frase storica dell’immenso Nicola Zitara.

(3) traducono gli storici: “nell’XI a. C., ovvero in piena età del ferro”.

(4) non era ancora il tempo di Alessandro Magno ma già i macedoni manifestavano le loro mire espansionistiche.

(5) “Historia magistra vitae”; non mi ricordo chi l’ha detto ma sono convinto che è proprio così.

(6) Trattasi dell’attuale Calabria meridionale.

(7) Le “sissizie” sono quell’uso locale che, tuttora si pratica in questa terra, fondato sulla condivisione, secondo cui l’ospite mette a disposizione la sua casa e gli invitati provvedono al cibo ed al bere, ognuno secondo le proprie possibilità ed il tutto, per l’appunto, si condivide.

(8) Nicola Zitara citato, I calabresi sono gli unici autentici esclusivi, storici, titolari dell’etimo “Italia”.

(9) Studio facilmente reperibile nel web.

(10) Non siate malpensanti, la Banca d’Italia ha pubblicato quello studio solo in inglese perché . . . . “si usa così”

(11) le paludi di Vercelli e Novara erano all’epoca feudo del conte Camillo Benso di Cavour; quella bonifica successiva all’unità fu mal fatta (forse qualcuno fece la cresta suilavori?)tanto che una legge dell’italia repubblicana nel 1950 la rifinanziò.

(12) evidentemente in tutti questi stabilimenti lavoravano molti operai che provvedevano al sostentamento di altrettante famiglie. Qui a quei tempi non esisteva la piaga dell’emigrazione.

(13) è termine della parlata nella “lengua sott’’o faro”. La traduzione è facilmente reperibile nel web. Io l’italiano l’ho appreso ma voi il siciliano lo sapete parlare e, soprattutto, scrivere?”.Io si: sono un divoratore dei libri del dott., maestro, Andrea Camilleri. Comunque a beneficio di chi legge “cabasisi” in volgare aulico si traduce “zebedei”.

(14 – NOTA FINALE) E chest’è!

brigante Martummè

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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