Il Principe di Canosa e la politica dell’amalgama
Le cause politiche
“Nemo propheta in patria”.
«La nuova Giunta di Stato ha rappresentato di doversi brugiare [sic] tutte le carte che esistono in Monteoliveto attinenti ai rei di Stato perché si perdano tali memorie»[1]. Così si legge alla data di lunedì 2 marzo 1801 nel Diario di Carlo De Nicola.
Evidentemente, già a meno di due anni dalla prima riconquista del trono da parte di Ferdinando IV, la politica del perdono nei confronti dei “rei di Stato”, cioè degli aderenti alla Repubblica napoletana, veniva già attuata dal Re di Napoli, prima ancora che gli venisse imposta da Napoleone Bonaparte[2]. Un “buonismo” che, peraltro, non sarebbe servito a conquistargli il favore della popolazione: basti pensare che al ritorno dei Francesi, nel 1806, Napoli non verrà strenuamente difesa dai nobili dei Sedili (sciolti con il decreto del 25 aprile 1800) né degli strati più semplici della popolazione, quei “lazzari” che sette anni prima si erano immolati contro le baionette dell’esercito più temuto del mondo.
Eppure nel 1815, tornando per la seconda volta sul proprio legittimo Trono, Ferdinando, divenuto ora I delle Due Sicilie avrebbe riprosto quella politica di pacificazione, accettando – pur se dietro forti pressioni internazionali – di mantenere al proprio posto militari e funzionari che avevano servito sotto i Napoleonidi.
Tale politica – definita “dell’amalgama” dal suo più feroce avversario, Antonio Capece Minutolo, Principe di Canosa[3] – di fatto caratterizzò il Regno delle Due Sicilie anche per i decenni a seguire.
La visione politica
Nel clima di confusione politica che caratterizza la vita del Regno napoletano successivamente alla Rivoluzione, la figura del Principe di Canosa si staglia – anche a detta dei suoi avversari – per la propria coerenza. La sua visione politica – basata su solide letture, tra cui una buona analisi dello Spirito delle leggi di Montesquieu (che aveva letto nell’edizione napoletana del 1777) – è stata sintetizzata in due punti e altrettanti corollari[4]:
- Non si può concepire una monarchia sana senza potestà intermedie, tra cui fondamentale è quella della nobiltà: «dove non v’è monarca, non v’è nobiltà; dove non v’è nobiltà, non v’è monarca, ma si ha un despota»[5].
- Se le potestà intermedie sono le basi d’una monarchia sana, chi con le sue riforme intacca le potestà intermedie viene a minare la stessa monarchia, come dimostrano i due esempi storici dell’Inghilterra e della Francia.
- Il principio su cui si fonda una tale monarchia è l’onore, che deve essere la stella polare della nobiltà.
- L’onore è il sentimento fondamentale che regge le monarchie; la virtù, cioè il disinteresse assoluto e la devozione cieca alla patria, è il sentimento fondamentale che regge le repubbliche.
Il Principe di Canosa non pubblicò mai un vero e proprio sintetico trattato di politica generale: scrisse alcune opere che rimasero manoscritte[6] e affidò il proprio pensiero a una serie di lavori apparentemente estemporanei, cioè scritti per rispondere ad articoli polemici apparsi su altri giornali. Tali furono le sue opere più note: l’Epistola sul servizio militare dei nobili[7], I piffari di montagna[8], la Confutazione all’Angeloni[9], I piccoli piffari[10], l’Epistola contro Colletta[11].
Peraltro, una caratteristica del Canosa fu la sua formidabile capacità di analisi della situazione politica, che quasi rasentava la preveggenza: si pensi che I piffari di montagna furono pubblicati anonimi nella primavera del 1820, quindi vari mesi prima che scoppiasse la rivoluzione di Morelli e Silvati[12]. Del resto, già nel 1799 aveva capito, ad esempio, quanto potesse essere inaffidabile il Principe di Moliterno[13], che pure era un eroe di guerra, perché i suoi proclami non citavano mai il Re. Ed ebbe ragione: con le truppe francesi alle porte di Napoli, infatti, il Moliterno tradì e passò dalla parte dei giacobini, mettendosi a bombardare da Castel Sant’Elmo i popolani che difendevano la città.
Strenuo difensore delle prerogative del ceto nobiliare, le uniche capaci di porre un freno alla degenerazione assolutistica della monarchia, nel gennaio 1799 Canosa ritenne che dopo la ritirata del Re in Sicilia il potere regio dovesse essere surrogato dai rappresentanti dei Sedili di Napoli e non dal solo Vicario generale, l’imbelle Francesco Pignatelli[14]. Paradossalmente – ed ingiustamente – accusato di aver voluto creare una “repubblica aristocratica”, al ritorno di Ferdinando a Napoli fu arrestato e processato (dopo aver già conosciuto le carceri giacobine ed essere stato condannato a morte perché facente parte della congiura dei fratelli Baccher[15]): rischiò anche in questo caso la pena capitale, ma assieme a tutti gli altri Cavalieri dei Sedili napoletani venne assolto dall’accusa più grave (quella di aver voluto introdurre una “repubblica aristocratica”) e condannato esclusivamente per insubordinazione al Vicario Generale[16]. Sarebbe stato scarcerato con il citato decreto del 20 giugno 1801, imposto al re di Napoli da Napoleone Bonaparte[17].
Cinque anni dopo, nonostante l’oltraggio della condanna subita (e la beffa della liberazione dovuta al generale còrso), preferì abbandonare tutto (famiglia, beni, libri) e seguire il suo Re in Sicilia.
Coerenza e lucidità sono dunque due attributi che non è possibile non riconoscergli: in una lettera del 28 settembre 1799 si definisce «novello eroe della Mancia»[18], disposto a qualsiasi sacrificio. E dieci anni dopo conferma questa sua posizione:
Meglio mangiare una sola minestra in Sicilia sotto la difesa di un pio e legittimo Sovrano che bevere sangue costà nei bacili d’oro. Ritornerei mille volte in Sicilia, da Sicilia passerei in Africa, ed ancora a fare il facchino in America, anziché essere costretto a rinunziare alle mie massime, a pensare a modo d’altri, a piegare la fronte al Barone Murat.[19]
La sua lucidità consiste anche nella consapevolezza dei propri limiti: in una serie di lettere ammette di non avere il carisma né del porporato – elemento che fu fondamentale per la Riconquista del Cardinal Ruffo –, né del Principe di Casa Reale, né dell’uomo politico o dell’uomo d’armi, per cui invoca l’aiuto di coloro che, meglio di lui, potrebbero non solo suscitare una rivolta antinapoleonica a Napoli, ma anche evitare che essa degeneri nel caos[20] ed è pure disposto a mettersi sotto il comando del reintegrato Principe di Moliterno, mettendo da parte gli antichi rancori[21]. Ed è una lucidità che spesso sfocia nel pessimismo, ma che gli permette di non illudersi sulla bontà dei collaboratori del Re:
Se V.M. infatti rifletterà che la nostra Nobiltà (per la massima parte) è infame e vile, che il ceto di mezzo è corrottissimo, dovrà concludere che non abbiamo per la nostra parte che tutto il popolo, e popolo napoletano, intendo a dire ladro quanto Buonaparte, insubordinato come gli anarchisti lo sono, non troppo coraggioso come tutte le masse.[22]
Nutre una certa ammirazione per l’Inghilterra non certo in quanto nazione liberale, bensì in quanto antirivoluzionaria, irriducibilmente antinapoleonica e, soprattutto, rispettosa del ruolo politico dell’aristocrazia. Ecco cosa scrive a proposito del modo di agire del Parlamento inglese:
L’op[p]osizione fa ostacolo al Ministero, ma per il bene, non per produrre il male del proprio Paese; combatte gli errori, ma né odia le persone, né cerca invadere i diritti degli altri; il partito di opposizione in Inghilterra rispetta il Re ed il Governo quanto il partito ministeriale[23].
Degli stessi Napoleonidi, pur disconoscendone la legittimità, sa riconoscere le capacità militari e politiche: «erano indegni di regnare, quei democratici diventati Re, ma capaci assai»[24]. Ciononostante, aveva compreso che non ci sarebbe potuto essere vera Restaurazione senza il completo cambiamento degli organici dell’esercito e dei quadri burocratici, come riassume un suo biografo:
La politica che il Medici seguiva a Napoli rappresentava l’antitesi più stridente al sistema di governo caldeggiato dal Canosa. Era generosa politica non impiccare o non far scannare dai sanfedisti i patrioti, i murattiani, ma mantenerli nei posti di comando era agli occhi del Canosa una grande sciocchezza.[25]
C’è un detto attribuito all’ultimo Re di Francia[26], Carlo X, che sintetizza perfettamente il pensiero del Canosa: «Un Re cavaliere deve essere sempre circondato dai propri amici, mentre tende la mano ai suoi nemici»; è necessario cioè assicurarsi bene il Trono, prima di concedere la grazia ai traditori. Negli anni in cui negli Stati Uniti d’America si legalizzava la pratica politica denominata spoils system, peraltro anche in Europa ampiamente applicata nella prassi corrente da parte dei governi liberali, i principali attori della Restaurazione (il ministro Metternich innanzi tutti[27]) preferivano invece una politica conservativa, volta alla pacificazione ed a mantenimento nei loro posti di coloro che erano stati fedelissimi del regime antimonarchico (giacobino prima e napoleonico poi), una politica che Canosa definì appunto “dell’amalgama”.
Un profeta inascoltato
Come accennato, Canosa non aveva certo il dono divino della preveggenza: semplicemente era stato fornito da Dio di una mente molto acuta, in grado di analizzare la realtà politica senza farsi ingannare dall’ottimismo tipico della mentalità illuminista (e di quelle da essa derivate: la liberale e la democratica)[28]: di conseguenza si comportò come una novella Cassandra, annunziando eventi luttuosi che si sarebbero inevitabilmente prodotti, ma incontrando nel contempo l’incredulità (e il fastidio) di coloro che cercava di mettere in guardia.
Sventato (apparentemente) il pericolo giacobino, la rivoluzione subisce una metamorfosi, come avviene dopo ogni sua momentanea sconfitta: il processo rivoluzionario, cioè, prosegue, ma cerca di apparire come più moderato. Per usare un termine non precisissimo, ma che rende il senso di questo mutamento, potremmo dire che si “borghesizza”, si fa “più borghese” e quindi più accettabile. Per usare adesso i termini proposti inizialmente da un noto saggio storico-politico del conte Alessandro Manzoni[29], potremmo dire che se la rivoluzione francese, giacobina e radicale, è ferocemente anticlericale e antimonarchica (attacca cioè direttamente il Trono e l’Altare), la rivoluzione italiana, vale a dire il Risorgimento, invece diviene sempre più moderata per farsi accettare dalle popolazioni italiane, passando dal Terrore al bonapartismo, dal giacobinismo del 1799 al liberalismo costituzionalista del 1820 e, più tardi, dall’estremismo mazziniano alla più rassicurante realpolitik cavourriana, di cui l’ambiguo motto “libera Chiesa in libero Stato” è forse il più chiaro esempio di “moderazione”[30]. Cambia la maschera con cui la rivoluzione si presenta, ma lo spirito rimane inalterato.
D’altro canto, la cosiddetta Restaurazione, anziché opporre una reazione al processo rivoluzionario, preferisce proporre una conservazione di gran parte delle innovazioni, anziché tornare effettivamente allo status quo ante 1789 (ad esempio, nel caso napoletano, il mantenimento dei codici di stampo napoleonico promulgati da Murat). In sintesi: «I moderati moderano gli impeti della rivoluzione, i conservatori ne conservano gli effetti»[31].
La democratizzazione – intesa come distruzione dello spirito aristocratico e del ruolo politico della nobiltà nella società – è dunque un passaggio che ha le sue radici ideologiche nel giacobinismo, ma pone le proprie basi, per quanto riguarda il Regno delle Due Sicilie, nella politica dell’amalgama realizzata all’inizio di quella che si dovrebbe definire non semplicemente Restaurazione, bensì mancata Restaurazione. Democratizzazione che avviene da un lato premiando i borghesi “novatori” con il mantenimento nel ruoli ricoperti (con il trattato di Casa Lanza[32]), dall’altro togliendo all’aristocrazia il ruolo storico di appoggio e controllo nei confronti della Corona (con l’abolizione dei Sedili).
Tale visione è confermata dallo storico – non accusabile di simpatie reazionarie – Walter Maturi: «Poggiata da un lato su una classe dirigente infida e dall’altro su istituzioni democratiche, la monarchia napoletana si trovava in uno stato di estrema debolezza»[33].
Va notato a questo punto che il principale nemico del Canosa, il ministro Medici[34] fu un fautore non tanto del liberalismo democratico, quanto del dispotismo liberale e che Canosa, invece, volle contrapporre al potere assoluto del Re le tradizionali istituzioni aristocratiche, a partire dai disciolti Sedili.
La politica del Medici, volta a combattere i reazionari (i calderari) anziché utilizzarli in funzione anticarbonara, «riconduceva fatalmente sull’orlo della rivoluzione la monarchia napoletana, come l’avevano condotta i ministri del secolo XVIII»[35].
Gli scritti politici
A giudizio di Maturi, la mastodontica opera inedita Perché il sacerdozio dei nostri tempi, e la moderna nobiltà dimostrati non siansi egualmente generosi, e interessati come gli antichi per la causa della monarchia e dei Re «è la Summa del pensiero politico del Canosa, i Piffari di montagna ne sono il ristretto; se la grande opera con le sue lunghe glosse ha un fine esoterico, il vivace pamphlet ha un fine essoterico»[36]. Lo stesso critico sostiene che l’autore «non fa che diluire ciò che aveva detto in breve nella dissertazione del 1803»[37], vale a dire il Discorso sulla decadenza della Nobiltà[38].
In esso si ribadisce l’importanza del ceto aristocratico per il buon andamento dello Stato e si individuano – tra l’altro – nella sua decadenza le cause dell’indebolimento dell’istituto monarchico. Decadenza accentuata dall’allontanamento, prima che dei posti di governo, dalla cultura:
Da prima si fece loro credere non essere per Nobili onorevole carriera quella delle lettere sì bene competere al di loro grado solo quella delle armi; furono così per necessità allontanati da tutti quei pubblici impieghi che occupare si vedono per lo più dai loro avversari. Riuscito ciò perfettamente, si procurò in talune Regioni di allontanarli eziandio dalla Milizia.[39]
E mette in guardia dall’assolutismo centralista:
il chiamare tutto alla Capitale, indi alla Corte ed in seguito nella propria persona divora la Monarchia non altrimenti che l’uomo distrutto dall’idrocefalo […].[40]
confermando l’importanza della funzione di un ceto intermedio tra Popolo e Sovrano:
Il distruggere i privilegi della nobiltà, dei sistemi morali delle Città tutto corrompe in governo monarchico: ugualmente il chiamare privatamente a sé il Sovrano tutto il potere snerva l’energia dei sudditi, togliendo quella politica reazione in cui consiste l’energia degli Stati; […] quando i Grandi non sono nella massima venerazione presso il Popolo, quando gli onori vengono prodigati ai vili, ed alla canaglia, quando è nell’animo dei sudditi estinto ogni amore nazionale, onde le generose azioni per secondari fini si eseguiscono, tutto accresce i potere del Principe, ma ne sfianca il fondamento, non altrimenti, che taluno cavando i sassi angolari di un vasto edificio adattasse questi sul vertice di esso per renderlo più elevato e imponente.[41]
Pienamente formato teoricamente, quando nel 1821 tornò alla guida del Ministero di Polizia del Regno di Napoli, «aveva idee grandiose: avrebbe voluto inquadrare la sua azione in un’azione più vasta, concertata, uniforme di tutte le polizie italiane, e possibilmente anzi di tute la polizie europee, per distruggere le sette liberali e non permettere loro che, annientate in uno Stato, si rifacessero le ossa in un altro»[42]. Così scriveva all’amico Giuseppe Torelli:
È sempre stato mio sentimento che un ministro o magistrato di alta polizia, eletto a comuni voti dalle potenze italiane, risedesse in una città centrale dell’Italia. Questo dovrebbe immaginare il sistema di attacco, e quello penale per[43] i settari. Questo poi dovrebbe esser eseguito da tutti i diversi ministri di polizia dei vari Stati, i quali (sotto un tale aspetto) dovrebbero essere considerati come prefetti del ministro principale, col quale dovrebbero corrispondersi seguendone le disposizioni. In caso diverso se io userò a Napoli un sistema vigoroso, e di rigore, e in Firenze o Roma mi sarà adottato uno paralitico, le mie fatighe rimarranno inutili, giacché i carbonari che non si riuniranno in Napoli verranno in Roma o Toscana a congregarsi. Se la malattia contagiosa fosse endemica, se fosse di un solo paese, allora il rigore parziale gioverebbe, siccome però è universale, così non solo unica polizia italica io desidero, ma, se fosse possibile, europea.[44]
Nella sua lotta a tutto campo alla politica dell’amalgama, Canosa voleva rigenerare la vita politica napoletana, italiana ed europea; gli Austriaci invece desideravano che si occupasse solo di Napoli e si limitasse a punire coloro che avevano contribuito al movimento rivoluzionario dal 2 all’8 luglio 1820, senza rinvangare la vita precedente della classe dirigente napoletana, esautorando murattiani e giacobini.
La sua nobiltà, però, gli impediva di colpire i familiari dei colpevoli: ad esempio rifiutò di installarsi nel palazzo di famiglia dei de Medici, per non dover di fatto mandare via la sorella dell’ex ministro, donna Maria Luisa[45]. Fu «cavalleresco con le dame ed indulgente con i Don Abbondio»[46], ma inflessibile nei confronti dei carbonari recidivi, per i quali estese la pena corporale della frusta, fino ad allora riservata a ladri e marioli comuni.
I delitti di opinione secondo il ragionare dei più profondi politici, non devono attaccarsi direttamente colle pene di lunga durata e molto meno con quella pena di morte, che diventa la madre dei martiri nel tempo del riscaldamento e del fanatismo. Delitti di simil genere debbono quindi esser puniti con quelle pene passeggere che recano al colpevole l’ignominia, avvegnaché il disprezzo ed il ridicolo è il vero farmaco che indirettamente cura questa morale infermità. La pena della frusta era perciò indicata, siccome la massima parte si aggrega alle sette per un fanatismo di vanità, così in una pena umiliante trova il male il suo preciso rimedio.[47]
Tale punizione, inedita per i “galantuomini”, fu peraltro applicata due sole volte[48]. Avrebbe anche voluto – in accordo con il Re – utilizzare il diritto militare per superare le difficoltà frapposte dal codice napoletano, derivato da quello napoleonico e mantenuto dopo la Restaurazione – che anche dal punto legislativo fu ben poco restaurativa – ma venne impedito dal ministro plenipotenziario austriaco Ficquelmont[49], che non accettava la politica degli arresti preventivi. Una serie di equivoci e, soprattutto, di sottolineature di equivoci, portò all’accoglimento delle dimissioni (28 luglio), che Canosa si augurava venissero respinte. Ristrutturata radicalmente la polizia, con l’abolizione della figura del ministro e la sua sostituzione con un organo collegiale (Metternich criticò tale decisione, che indeboliva chiaramente l’istituto, dando inoltre un giudizio negativo di uno dei membri di tale organo, il mestatore ferrarese Flaminio Baratelli (1776-1847), «anima dannata del generale Frimont»[50] e tra i principali accusatori del Canosa).
Il Principe fu nominato Consigliere di Stato, mentre delle sue dimissioni si gloriavano
[i] plenipotenziari, che volevano ingerirsi nelle faccende interne del regno; [il] generale Frimont, che voleva comandare in tutto; Flaminio Baratelli, che voleva sottargli il posto; [il] principe ereditario, che gli sottraeva quanti più compromessi poteva; [il] duca d’Ascoli, che era geloso del suo favore presso il Re; [il] collega di Grazia e Giustizia, che non trovava modo di condannargli coloro che egli arrestava; [i] carbonari e murattiani, che temevano il suo odio politico.[51]
La carica di Consigliere, che gli permetteva di sentirsi come protetto da una trincea[52], lo inorgoglì contro i diplomatici esteri, che si rese nemici, disprezzandoli apertamente. Nei suoi confronti vennero sferrati colpi bassi: furono diffusi contro di lui libelli infami[53] e fu persino attaccato sul versante della vita privata; in particolare venne accusato di aver avuto alcuni figli – peraltro riconosciuti – prima del secondo matrimonio: si difese non negando, anzi considerandosi un peccatore, ma dicendo di non aver sforzato la donna di altri, né di aver aborti o abbandoni sulla coscienza.
Per il ritorno del Medici si coalizzarono le “Corti del Nord” (Austria, Prussia e Russia) contro l’appoggio del solo Duca di Blacas, ambasciatore francese presso il Regno delle Due Sicilie, e di Ferdinando stesso, «sempre intimamente persuaso che se il Canosa non aveva reso come ministro tutto quello che si aspettava da lui, la colpa era dei diplomatici esteri»[54]. Passato anche Blacas dalla parte di Metternich, il Re fu quindi costretto a sconfessare i Piffari e a richiamare Medici. Il 19 maggio Canosa, sollevato dall’incarico il 13 precedente, lasciò Napoli per passare i restanti quasi diciassette anni della sua esistenza in esilio volontario.
Sperò di poter tornare in patria, ma né la morte del Medici, né l’avvento di Ferdinando II (ambedue nel 1830) sortirono l’effetto sperato: anzi, Ferdinando, pur essendo stato educato da monsignor Agostino Olivieri (1758-1834), grande amico del Canosa, preferì evitare di essere circondato da influenti ministri (come erano stati con suo nonno Acton prima e Medici poi), nominò ministri “tecnici” che non potessero fargli ombra e «la grande opera della prima fase del suo Regno consistette appunto nell’assorbimento del murattismo. […] Era il ritorno alla politica dell’“amalgama”»[55].
Il periodo dell’esilio non fu passato nell’ozio: la collaborazione con «La voce della verità», la corrispondenza con altri pensatori (primo fra tutti il conte Monaldo Leopardi[56]), la vicinanza a Francesco IV d’Este con il tentativo di far nascere una polizia sovrastatale, numerosi scritti (non tutti pubblicati), le polemiche a suon di lettere e “lettere aperte” (assai famosa quella contro l’ex generale Pietro Colletta[57], autore[58] di una Storia del reame di Napoli[59] faziosa e più che discutibile[60], ma anche contro Niccolò Tommaseo e il famigerato ministro Girolamo Riccini, che per invidia personale lo aveva fatto allontanare da Modena).
Se, come accennato, i Piffari di montagna sono l’opera più conosciuta (almeno di nome) del Canosa, assolutamente da non sottovalutare è un’altra opera, molto meno frequentata, scritta dodici anni dopo: I piccoli piffari[61], sorta di ideale continuazione del lavoro più noto, ma che a differenza di quello contiene alcune interessanti riflessioni di natura politologica.
Tra queste c’è una personale visione del corso delle istituzioni, che l’autore (anche in questo caso Canosa si cela dietro il nome di un amico[62], presumibilmente per dare una sensazione di maggiore obiettività allo scritto) individua come passaggi necessari sottoposti ad un andamento ciclico:
Ecco difatti il corso regolare de’ cangiamenti di governo secondo insegnano tutti i politici, ed apprendiamo dai fatti che leggiamo fino dalle storie le più antiche. La monarchia in seguito di rivoluzione passa ad anarchia, dall’anarchia siegue l’oclocrazia, indi succede la democrazia: questa fa all’aristocrazia passaggio, alla quale succede l’oligarchia, dalla quale si passa al dispotismo. Dopo rincomincia il corso di sopra enunciato.[63]
In sintesi il “ciclo delle istituzioni” è il seguente: monarchia → rivoluzione → anarchia → oclocrazia → democrazia → aristocrazia → tirannia → monarchia. Naturalmente, il motore del movimento, ciò che rompe l’equilibrio assicurato da una monarchia, è la rivoluzione. Notiamo che il Canosa inverte il classico andamento peggiorativo “democrazia → oclocrazia”, inserendo il passaggio delle varie forme di governo in un ciclo che prevede anche movimenti ascendenti e non solo degenerativi.
Un’altra interessante considerazione è quella secondo cui, nella scelta della forma di governo, il numero dei governatori dovrebbe essere inversamente proporzionale al numero dei governati[64].
Ciò significa che parlare di “democrazia possibile” ed additare come esempio la Svizzera è un errore grave, perché non tiene conto dell’esiguo numero degli amministrati rispetto a nazioni più popolate.
Naturalmente, a fianco di questioni puramente teoretiche, l’autore dibatte anche di questioni storiche, ma rimanendo su livelli teorici:
Nel 1799 all’ingresso de’ stranieri sanculotti due erano le forze nel paese. Quella della massa popolare e di tutta l’onesta gente, e quella de’ liberali chiamati allora più adeguatamente giacobini. I primi volevano Ferdinando IV di loro Re, e lo amavano (in quel tempo) con tanto entusiasmo che si batterono le tante volte cogl’ingiusti invasori. La massa dunque della nazione volea la monarchia. I giacobini poi (per quanto da loro medesimi, come sempre non valessero un zero) appoggiandosi agli stranieri volevano la cacocrazia, ovvero quel governo de’ malvaggi che sogliono nominare democrazia.[65]
Dopo aver protestato la stima che di lui avevano sia Ferdinando I che il successore, Francesco I, testimoniata da numerose lettere che «tutte dimostrano la stima in cui tenevano il Canosa, e la perfetta conoscenza che avevano della congiura diplomatico-liberale»[66], l’Autore narra un aneddoto:
Il Re Francesco trovavasi un dì in un certo imbarazzo. Egli non senza ragione suppose che gli venisse preparato un giochetto non dissimile da quello del 1820. Volle sentire taluni soggetti che nulla aveano che fare col Consiglio di Stato, ma della onestà, talenti ed attaccamento de’ quali non potea dubitare. Tra questi ascoltò il sentimento di un Magistrato superiore, e di un abile onoratissimo colonnello. Ambedue gli parlarono del Principe di Canosa, e della nullità in cui avea saputo gettare la carboneria nelle diverse epoche in cui fu Ministro di Polizia. “Lo so, rispose il Re, Canosa fu sempre un galantuomo; non allarmò giammai mio Padre mentre procurava che i suoi occhi restassero vigilanti”. Il bravo colonnello poi, al quale il Re Francesco domandò in qual modo comportato si sarebbe per prevenire le insidie degli ostinati incontentabili carbonari [disse]: “Niente altro che mandare al Principe di Canosa l’ordine di recarsi subito in Napoli. Arrivato a Capodichino, lo farei calare dalla carrozza facendolo venire a piedi sino a palazzo tenendo una frusta sotto il braccio”. Al che il Re replicò “Sarebbe il vero rimedio. Non sai però che tengo le braccia legate?”[67]
Tornando alla teoria della politica, Canosa svolge alcune illuminati considerazioni politologiche iniziando dalla critica alla democratizzazione della società:
Per una di quelle solite malizie (non comprese o non volute capire da’ politici che servono le monarchie) or non si fa più quasi mai parola negli ordini, come in tante altre faccende, de’ nomi Augusti d’Imperatore, Re, Gran Duca etc. etc. che tanto ne imponevano, ed incutevano rispetto nella moltitudine. Ora invece non si parla che di Governo, della legge (res mutae) che non impongon punto, e muovono, che anzi (e talvolta ragionevolmente), eccitano rabbia e disprezzo. Come pretendere di fatti che ne impongano uomini senza costumi, senza principii, spesso ignorantissimi, e che sorti dal più vile fango, senza un nome, passano di frequente dalle cariche più elevate alla dimenticanza, e talvolta al remo dalla bigoncia[68]! Sia per altro ciò che si voglia di questo, come di tanti altri disordini di taluni monarchici reggimenti dopo la restaurazione, questo giova pel momento moltissimo al presente mio caso.[69]
Indi elogia la monarchia ereditaria, necessaria per assicurare, attraverso il passaggio (traditio) dello scettro di padre in figlio, il buon governo ed evitare lo spoglio del bene pubblico, considerato quale bene personale da tutelare, a differenza di quanto invece accade usualmente in un regime repubblicano, dove bisogna “approfittare” del momento favorevole – e transitorio – di una carica pubblica per arricchirsi:
Comprenderà benissimo ciascuno che io non posso far parola per [mettere in] ombra di quel Principe che essendo legittimo ed ereditario non può essere ingiusto. Conciossiaché un Sovrano legittimo ed ereditario, per quanto fosse di non buona indole, dev’essere giusto verso i suoi sudditi; dapoiché il bene pubblico è utilissimo ancora a’ particolari interessi di lui. Così il proprietario di un fondo, per quanto sia scioperato e prodigo, non farà tagliare giammai gli olivi e le viti per vendere la legna per pochi soldi, o pure per ripararsi dal freddo. Rapaci, ladri, crudeli, ingiusti, servi di tutte le più vili passioni non sono che i Dittatori, i Presidenti, i Consoli, gli Usurpatori tutti coloro cioè, che governando illegittimamente, non possono riguardare lo stato comune di loro proprietà che temporanea, per cui cercano profittare del momento per farsi una fortuna, né si curano che tutto vada alla malora purché ne ricavino piccolo profitto. Il colono di un fondo in questa guisa che sa doverlo lasciare tra pochi mesi tira giù a scorticare il terreno per guadagnare poche misure di frumento di più e tutto (se gli venisse permesso) distruggerebbe pel più lieve profitto. Non altrimenti que’ soldati in tempo di guerra, che si trovan di passaggio per un fiorito orto bottanico, e le piante preziose del caffè e le più peregrine schiantano ed atterrano per cucinarsi una minestra, per evitare il freddo di una notte, ed anche per soddisfare il barbarico gusto della distruzione. Ecco la differenza de’ monarchici governi legittimi ereditarii, e le repubbliche, o governi degli usurpatori. Che se, oltre un certo buon senso e le istorie di tanto non ci accertassero, di ciò saremmo convinti dalla nostra stessa esperienza. Quanti utilissimi stabilimenti in Inghilterra, in Francia, in Italia, da per tutto non ha distrutti la rivoluzione? quante istoriche famiglie condotte fino alla miseria! In qual modo le gravezze sono state aumentate, le vessazioni moltiplicate per nudrire la plebe della canaglia ispiratrice! Scevro insomma l’uomo da prevenzioni, o fanatismo osserverà che se ne’ Governi Monarchici legittimi si trovano errori (che sono indispensabili nelle cose umane qualunque) massimo è il disordine, massime sono le oppressioni, rapine, ingiustizie ne’ reggimenti poliformi e popolari massimamente. Cicerone per quanto fosse repubblicano ne conviene spesso nelle diverse sue opere, come ne convengono tutti gli antichi scrittori, principiando da Omero.[70]
Il saggio si avvia alla conclusione con una serie di inviti, già altrove indirizzati ai governanti, relativi all’evitare ogni compromesso con i liberali, ricordando che alle spalle dei Troni si trova la ghigliottina e ad ogni passo compiuto indietro ci si avvicina a quel terribile strumento e che, quando si ritenevano vittoriosi, il loro triste motto era stato «impiccheremo l’ultimo papa con le budella dell’ultimo re»[71]. Dunque nessuna clemenza per costoro.
La morte in esilio
“Il medico pietoso fa la piaga cancerosa”, dice un proverbio. Qualcosa di simile era avvenuto già ai tempi di Carlo IX e degli Ugonotti, ma allora il Sovrano francese non cercò la politica del colloquio, dell’amalgama o del giusto mezzo, come non l’avrebbe cercata lo zar Alessandro I nel 1812:
A Carlo IX Re di Francia era stata dagli Ugonotti preparata la stessa festa, che poi fu data a Luigi XVI. Tutto era tanto ben disposto da’ liberali di que’ tempi, ed il colpo si credea da per tutto […] inevitabile […]. Carlo IX però non era predestinato, né avea punto voglia di diventare Re martire. Rifletté da senno a’ casi suoi. Egli si avvide, che la minaccia era di un’apoplessia sanguigna, che tentava colpire sé, e tutti i cattolici della Francia, cosa fare? Per tali malattie conobbe essere necessario il cavar subito sangue usque ad animi deliquium, ed ordinò quella famosa operazione nella nottata di San Bartolomeo[72], contro la quale declamaron tanto, né si sono stancati ancora di tarroccare i liberali. Il rimedio fu sicuramente terribile. Esso però salvò se medesimo e la Francia dal male orrendo immaginato da’ Calvinisti. Così si è gridato tanto contro quell’incendio di Mosca (qualche cosa assai di più serio che la nottata di S. Bartolomeo). Chi non si unirà col liberalismo fremente sotto un certo punto di vista! Al riflettere però che quella terribile operazione, non che salvare l’Impero Russo, distrusse in una notte l’Impero Francese, e stritolò le ossa dell’erede universale della rivoluzione, si converrà, che quello era necessario, e quello venne eseguito con gigantesca intrepidezza.[73]
Quindi si lamenta: «Or cosa di simile è stato fatto dai Borboni de’ tempi nostri, per quanto le circostanze il richiedessero? Nulla»[74]. Tra l’altro, va notato come nonostante (o a causa de) l’apertura ai liberali del governo di Leopoldo II di Toscana – comportamento che venne stigmatizzato anche da Monaldo Leopardi in un suo dialoghetto[75] – la censura granducale, che era abbastanza morbida nei confronti dei giornali[76], dei libri[77] e degli spettacoli teatrali[78] di impostazione liberale, fu invece inflessibile con «La Voce della Verità», in questo sollecitata addirittura dall’ambasciatore austriaco a Firenze, conte Ludwig Senfft von Pilsach (1774-1853), che accusò il Canosa di fomentare disordini, di essere il malo consigliere di Francesco IV di Modena e di conseguenza di essere la prima causa dei cattivi rapporti con il Ducato estense[79]. Perseguitato dai liberali in nome della libertà e non difeso dai “conservatori”, Antonio Capece Minutolo invia i suoi ultimi avvisi ai regnanti, additando come causa prima di una possibile – anzi, probabile – nuova rivoluzione la politica dell’amalgama:
Lungi dalle cariche del vostro stato coloro, che creature della rivoluzione ottennero posto col ministerio dei misfatti. Lungi gli uomini equivoci che sanno stare a cavallo del fosso, e che non possono nudrire per voi un personale interesse. Accostatevi alle truppe; non disgustate con ingiustizie i soldati, fatevi amare da essi, e disprezzate il rimanente come il giusto mezzo.[80]
Nemo propheta in patria: la Cassandra – più che il Don Chisciotte – della reazione non fu abbastanza stimato dai Re che voleva porre sull’avviso e che servì finché poté. Trattato con sufficienza, alle volte con fastidio, circondato dall’invidia degli altri cortigiani che ben si rendevano conto delle sue capacità e della possibilità – anzi certezza – di essere oscurati da lui, alla sua morte l’unico elogio funebre giunse dal conte Monaldo Leopardi:
È una vergogna dell’Italia ed uno scandalo nel partito della legittimità che non si alzi una voce d’encomio per questo grande uomo. Aveva i suoi difetti, ma nessun uomo ne va esente, e le accuse che potevano promuoversi contro di lui, per la troppa veemenza con cui si scagliava contro gli individui, vengono in gran parte giustificate dal considerare che egli, e forse non a torto, vedeva sempre il partito nelle persone. Del resto Canosa era un gran dotto, un gran politico, un vero galantuomo e un vero cristiano.[81]
Meritava di più l’uomo che, quando Ferdinando I, esautorandolo nel 1816, gli offrì un seggio nel Consiglio di Stato e una pensione di 8.000 scudi, rifiutò con parole di grandissima dignità:
Signore, siccome questa non è carta da rendere pubblica, così con altra mia supplica ho chiesto umilmente a V.M. l’esonerazione del mio incarico, adducendo causa di salute. In questa con la stessa umiltà le dico che sebbene sia questa mal’andata pure la causa è più morale, e politica di [quanto] sia fisica, io credo di tradire V.M. e la mia coscienza servendola col sistema in vigore. Io sono stato reso un pezzente dai Francesi. V.M. con eccesso di clemenza mi ha tratto dalla miseria dandomi tutto ciò che poteva. Ottomila ducati l’anno, e casa mi facevano vivere com’era nato, e mi avrebbero fatto provvedere di dote le povere figlie, che hanno tutto perduto nella distruzione del Monte Capece. Io dunque o sono un pazzo per abbandonare, in virile età, la mia fortuna, o sono un Uomo di onore, che tradire non voglio la mia coscienza, il sentimento mio.[82]
Ma il non averlo ascoltato andò a discapito delle Corone, prima di tutto quella napoletana:
Ma se pure, nel ‘48, Ferdinando II dovrà brillantemente superare l’urto rivoluzionario, valendosi delle sole sue forze, la scadenza del ‘60, allorché il regno si trova pullulante di antichi e nuovi settari e di traditori, incapace di resistere alla propaganda e all’azione garibaldina, segnerà ancora una volta la verifica della giustezza della politica per la quale, inascoltato, il Canosa ha combattuto per tutta la vita e a nulla servirà il valore sfortunato dell’ultimo re napoletano, Francesco II.[83]
[1] Carlo De Nicola, Diario, Società napoletana di storia patria, Napoli 1906, vol. II, p. 21.
[2] Con decreto del 20 giugno 1801.
[3] Antonio Luigi Raffaele Capece Minutolo, Principe di Canosa (Napoli, 5 marzo 1768 – Pesaro, 4 marzo 1838) fu due volte Ministro di Polizia, sia pure per brevissimo tempo all’indomani di eventi cruciali per il Regno (nel 1816 dopo la cattura di Murat e nel 1821 all’indomani della rivoluzione liberale). Per un suo profilo biografico, cfr. Walter Maturi, Il Principe di Canosa, Le Monnier, Firenze 1944; Silvio Vitale, Il Principe di Canosa e l’Epistola contro Pietro Colletta, Berisio, Napoli 1969, p. 7-72; Benedetto Croce, Il principe di Canosa, in Uomini e cose della vecchia Italia, vol. II, Laterza, Bari 1956, p. 225-253; Francesco Leoni, Quattro inediti del principe di Canosa, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», terza serie, anno XCI vol. 12 (1973), p. 291-323. Per un profilo bibliografico, cfr. Renata Orefice, Le carte Canosa nell’Archivio Borbone, in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, vol. XLI, Napoli 1961, p. 327-366.
[4] Cfr. Maturi, op. cit., p. 7-8.
[5] La frase di Montesquieu è citata dal Canosa nel Discorso sulla decadenza della nobiltà (Krinon, Caltanissetta 1992, p. 14) con l’indicazione della edizione da lui letta: tomo I, p. 112-113.
[6] Principalmente si devono ricordare il breve saggio Discorso sulla decadenza della nobiltà (pubblicato per la prima volta a cura di Silvio Vitale, Krinon, Caltanissetta 1992) ed il ponderoso studio Perché il sacerdozio dei nostri tempi e la moderna nobiltà dimostrati non siansi egualmente generosi ed interessati come gli antichi per la causa della monarchia e dei Re, manoscritto inedito in tre tomi per complessive 2920 pagine conservato presso la Biblioteca Estense. Ad esso si deve affiancare almeno lo scritto autobiografico intitolato Apocalisse politica ossia Rivelazioni sull’intrigo politico della rivoluzione di Napoli del 1820 e sulla cabala che mise nel nulla le risoluzioni dei congressi di Troppau e di Lubiana (conservato presso il Reichs Archiv di Vienna).
[7] Epistola, ovvero Riflessioni critiche sull’opera dell’avvocato fiscale signor d. Nicola Vivenzio intorno al servizio militare dei Baroni in tempo di guerra, Napoli 1796.
[8] Antonio Capece Minutolo, I piffari di montagna. Cenno estemporaneo di un cittadino imparziale sulla congiura del Principe di Canosa e sopra i Carbonari diretta all’estensore del foglio letterario di Londra, Dublino (ma: Lucca) 1820.
[9] In confutazione degli errori storici e politici da Luigi Angeloni esposti contro sua Maestà la defunta regina Maria Carolina di Napoli. Epistola di un Amico della Verità ad un amico storico italiano rispettabilissimo, Marsiglia 1830.
[10] I piccoli piffari, ossia Risposta che alla sovrana liberalesca itala canaglia da l’antico autore de’ Piffari di montagna in difesa del suo calunniato cliente principe di Canosa, Parigi 1832, scritto in risposta a un articolo della rivista «L’amico del popolo italiano» (sulla quale cfr. ultra).
[11] Epistola, ovvero, Riflessioni critiche sulla moderna Storia del reame di Napoli del generale Pietro Colletta, Capolago 1834.
[12] I moti furono fatti scoppiare nella notte tra il 1° e il 2 luglio 1820: era la notte di San Teobaldo di Provins, patrono dei carbonari.
[13] Girolamo Pignatelli, principe di Moliterno (1774-1848), si era eroicamente battuto contro i Francesi fin dal 1792, perdendo un occhio nella battaglia di Fombio (1796). Quando le truppe guidate da Championnet invasero il Regno di Napoli (1798), Girolamo Pignatelli cercò di opporvisi arruolando a sue spese a Gaeta due reggimenti di cavalleria. Conosciute le clausole del gravoso armistizio di Sparanise, sottoscritto l’11 gennaio 1799 con lo Championnet dal Vicario generale Francesco Pignatelli, il popolo napoletano decise di difendersi da solo e nominò suoi comandanti appunto Girolamo Pignatelli e il duca di Roccaromana, Lucio Caracciolo. Tuttavia, quando la città cadde in preda all’anarchia, Pignatelli si rifugiò nel forte di Sant’Elmo, che i patrioti avevano conquistato nella notte tra il 19 e il 20 gennaio. Da qui trattò con lo Championnet e minacciò di bombardare le difese popolari, distinguendo “popolo” (i lazzari) da “nazione” (i giacobini); il 15 febbraio 1799, divenuto “ex nobile”, entrò nel governo repubblicano e pochi giorni dopo fu inviato dal Governo provvisorio della Repubblica Napoletana a Parigi per ottenere il riconoscimento della stessa Repubblica. Ma il Direttorio si rifiutò ripetutamente di ricevere la deputazione napoletana e non ratificò il trattato. Anzi, il Principe di Moliterno fu sottoposto a confino e a stretta sorveglianza. Dopo varie vicissitudini, nel 1808 organizzò alcune bande armate antifrancesi in Calabria e nel 1813 promosse tentativi di reazione armata contro Gioacchino Murat nelle Marche e negli Abruzzi. Reintegrato con la Restaurazione, nell’Almanacco della Real Casa e Corte: per l’anno 1823 risulta Gentiluomo di Camera del Re con esercizio.
[14] Francesco Pignatelli, marchese di Laino e conte di Acerra (1734-1812).
[15] Nella notte dal 5 al 6 aprile 1799 furono perquisite le case di molti realisti e fra esse quella dei Baccher, nella quale vennero trovate bandiere e coccarde realiste. Nei giorni seguenti vennero eseguiti molti altri arresti, tra cui quello del Canosa. Il 12 giugno, il giorno prima dell’arrivo delle truppe di Ruffo – quando ormai era palesemente inutile, anzi controproducente – furono condannati a morte i responsabili della congiura. Furono quindi fucilati Gerardo Baccher (30 anni, tenente di cavalleria), Gennaro Baccher (32 anni, ufficiale della Real Contatoria di Marina), Ferdinando La Rossa (30 anni, Ufficiale del Banco di Sant’Eligio), Giovanni La Rossa (26 anni, impiegato in Sant’Eligio) e Natale D’Angelo (46 anni), con un «supplizio crudele perché nelle ultime ore del governo, senza utilità di sicurezza ed esempio», come ammise lo stesso Colletta (Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli, Capolago 1834, vol. I, p. 255). Nelle ore successive furono fucilate anche altre «undici persone della minuta plebe» e ci sarebbe stata una carneficina se ci fosse stato più tempo (cfr. Domenico Ambrasi, Don Placido Baccher, Napoli, 1979, p. 37).
[16] Sentenza del 28 marzo 1800 (cfr. Maturi, op. cit., p. 34).
[17] Cfr. Maturi, op. cit., p. 35.
[18] Cfr. Maturi, op. cit., p. 40. E Benedetto Croce lo definirà «un Don Chisciotte della reazione» (Uomini e cose della vecchia Italia, Laterza, Bari 1956, II, p. 245), peraltro aggiungendo «ma non punto sanguinario, né malvagio, e nemmeno ingeneroso». Di ingeneroso rimane quel «ma» inutilmente – ed erroneamente – aggiunto da don Benedetto, visto il carattere cavalleresco dell’hidalgo mancego.
[19] Lettera al Duca di Acquara, 27 gennaio 1809; cfr. Maturi, op. cit., p. 56.
[20] Cfr. Maturi, op. cit., p. 64-65.
[21] Cfr. Maturi, op. cit., p. 94.
[22] Lettera a Maria Carolina, 6 settembre 1808; cit. in Maturi, op. cit., p. 92-93.
[23] Antonio Capece Minutolo, Perché il sacerdozio dei nostri tempi e la moderna nobiltà dimostrati non siansi egualmente generosi ed interessati come gli antichi per la causa della monarchia, manoscritto inedito in tre tomi conservato presso la Biblioteca Estense, I, fasc. 47. Cit. in Maturi, op. cit., p. 14.
[24] Antonio Capece Minutolo, I piffari di montagna, cit., p. 34.
[25] Maturi, op. cit., p. 143.
[26] Luigi Filippo fu Re dei Francesi, non di Francia.
[27] Metternich non era certo un liberale, ma «si illude[va] di poter tenere a bada le forze eversive con la mera osservanza dell’ordine e della legalità» (Silvio Vitale, op. cit., p. 57) e riteneva – a torto – inadatto il Canosa al bene della causa che entrambi difendevano..
[28] Sulla questione, cfr. Primo Siena, Donoso Cortes, Volpe, Roma 1966.
[29] Alessandro Manzoni, La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859: saggio comparativo (1889, postumo)
[30] Cfr. a tal proposito Massimo Viglione, Libera Chiesa in libero Stato? Il Risorgimento e i cattolici: uno scontro epocale, Città Nuova, Roma 2005, e Id., 1861. Le due Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile, Ares, Milano 2011.
[31] Cfr. Miguel Ayuso Torres, Las murallas de la Ciudad, Nueva Hispanidad, Buenos Aires 2001, p. 124, che cita un pensiero di Jaime Balmes.
[32] Il Trattato di Casa Lanza (20 maggio 1815), con cui il Regno tornava a Ferdinando IV, concedeva un’amnistia generale e riconosceva la nobiltà “napoleonica”, insieme ai gradi, agli onori e alle pensioni dei militari “murattiani” che avessero giurato fedeltà al Borbone.
[33] Maturi, op. cit., p. 143.
[34] Luigi de’ Medici (1759-1830), Principe di Ottajano, di formazione illuminista, fu nominato dai Borbone nel 1815 ministro delle finanze e presidente del consiglio dei ministri. Rimase in carica fino al 1820, quindi fu costretto alle dimissioni dopo i moti liberali, ma Metternich (e i banchieri che avevano finanziato Ferdinando I) ne imposero il reintegro a spese del Canosa, preferendo (demonia dell’economia!) una supposta sicurezze economica (il Medici passava per un abile economista) alla saldezza politica (fu uno strenuo partigiano della “politica dell’amalgama”).
[35] Maturi, op. cit., 144-145.
[36] Maturi, op. cit., p. 141.
[37] Maturi, op. cit., p. 137-138.
[38] Antonio Capece Minutolo, Discorso sulla decadenza della nobiltà, ristampa a cura di Silvio Vitale, Krinon, Caltanisetta 1992.
[39] Ivi, p. 37.
[40] Ivi, p. 35.
[41] Ibid.
[42] Maturi, op. cit., p. 152-153.
[43] Contro.
[44] Canosa a Torelli, 26 giugno 1821, cit. in Maturi, op. cit., p. 153.
[45] Maturi, op. cit., 155.
[46] Maturi, op. cit., 156.
[47] Risposte e animadversioni…, nota 5, cit. in Maturi, op. cit., 156.
[48] Maturi, op. cit., 156-157.
[49] Karl Ludwig von Ficquelmont (1777-1857) fu sempre uno degli strumenti più influenti della politica di Metternich.
[50] Maturi, op. cit., p. 168. Il generale lorenese Johann Maria Philipp Frimont (1759-1831) nel 1821 guidò l’esercito austriaco impiegato contro la rivoluzione napoletana. Ridonando la capitale nelle mani dei borbonici (24 maggio 1821), fu ricompensato dal re Ferdinando I con il titolo di principe di Antrodoco e con il rango di generale di cavalleria, oltre che con una rilevante somma di denaro (220.000 ducati).
[51] Maturi, op. cit., p. 169. Lo studioso aggiunge all’elenco dei nemici del Principe anche i «sanfedisti, che fremevano dalla voglia di ritornare ai bei tempi del 1799», forse facendo riferimento a una risposta ai rivoluzionari che non passasse attraverso i tribunali, ma si esprimesse con lo strumento del linciaggio. Ciò vuol dire che lo stesso Canosa era considerato un “moderato” o almeno, un “garantista”?
[52] Cfr. lettera a Torelli, 8 ottobre 1821, cit. in Maturi, op. cit., p. 170.
[53] Con la sua consueta ironia, ad una Memoria tradotta dal tedesco che lo accusava di abusi di potere e di arresti arbitrari, replicò con una pungente versione dall’illirico di una Risposta fatta alla “Memoria tradotta dal tedesco” diretta al Rabbino signor Arbatille in Ancona. Arbatille è, naturalmente, l’anagramma di Baratelli.
[54] Lettera di Ferdinando I a Ruffo, ambasciatore a Vienna, del 3 dicembre 1821, cit. in Maturi, op. cit., p. 175.
[55] Maturi, op. cit., p. 271.
[56] Monaldo Leopardi fu forse il primo a sottolineare l’importanza del nuovo concetto di “nazione” ai fini della propaganda post-giacobina (cfr. il suo Catechismo filosofico, in particolare il cap. XIV, La Patria). Si tratta di una delle metamorfosi “moderate” della rivoluzione, necessaria per trionfare.
[57] La corposa risposta del principe di Canosa si intitolò Epistola ovvero Riflessioni critiche sulla moderna storia del Reame di Napoli del Generale Pietro Colletta (Capolago, 1834).
[58] In realtà essa fu una «autentica produzione di équipe del liberalismo italiano». Silvio Vitale, op. cit., p. 8.
[59] Pietro Colletta, Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825, Tipografia Elvetica, Capolago 1834.
[60] Pieno di livore personale verso alcuni esponenti della politica napoletana, la Storia del reame di Napoli scontentò non solo reazionari come Canosa, ma anche liberali come Pasquale Borrelli (1782-1849), autore di uno scritto dall’ironico titolo: Saggio su’l romanzo istorico di Pietro Colletta (Grünbach figlio, Coblenza 1840); e radicali come Giuseppe Mazzini, al quale il saggio “collettaneo” apparve un lavoro carico più di egoismo regionale che di vero patriottismo italiano: «La sua Storia è un frammento più ch’altro. Per dipingere i tempi che formano il soggetto della di lui opera si richiedeva l’energica maschia coscienza di Foscolo. L’ultime pagine della Storia di Napoli bastano a rivelarne i difetti e uno spirito d’egoismo locale più potente pur troppo in Colletta che non il sentimento nazionale Italiano». Giuseppe Mazzini, Scritti editi e inediti, Milano, G. Daelli Editore, 1862, vol. IV, p 323.
[61] Antonio Capece Minutolo, I piccoli piffari, ossia Risposta che alla sovrana liberalesca itala canaglia da l’antico autore de’ Piffari di montagna in difesa del suo calunniato cliente Principe di Canosa, Parigi 1832.
[62] Giuseppe Torelli.
[63] I piccoli piffari, cit., p. 21.
[64] «Difatti quando i Satrapi Persiani uccisero lo Pseudo-Smerdi usurpatore del trono, in congresso fra loro uniti (come ci narra Erodoto), discettando fra loro quale forma di governo in Persia sostituir si dovesse, fuvvi chi propose la democrazia, ed altri ancora l’aristocrazia. Siccome però tra que’ Primati non vi erano né i pazzi, né gli asini dell’età nostra, così riflettendo che la forma del sociale reggimento dev’essere sempre in ragione inversa dello stato numerico della popolazione, così i sentimenti per la democrazia tanto che per l’aristocrazia vennero rigettati, e tutti convennero i Satrapi onde la stessa forma di monarchico reggimento confermata venisse come la più adattata per una numerosissima popolazione». Ivi, p. 22.
[65] Ivi, p. 23.
[66] Ivi, p. 69, nota 1 (da p. 68).
[67] Ivi, p. 69, nota 1.
[68] Letteralmente la bigoncia è un recipiente di grandi dimensioni. L’espressione “dalla bigoncia al remo” vale per “dalle stelle alle stalle”.
[69] I piccoli piffari, cit., p. 71-72, nota 1.
[70] Ivi, p. 72-73, nota 1.
[71] «Essi hanno confessata la propria fellonia, quando inebriati dalla fortuna, supponeano nella di loro stoltezza tutto essere terminato per il Re. Ora cosa dissero in quell’epoca; cosa risuonò da un punto all’altro dell’Europa. Non essere essi soddisfatti che quando colle budella dell’ultimo Prete avrebbero strangolato l’ultimo Re. Or contro canaglia cotale irriconciliabile vostra nemica cosa serve usare riguardi? dare ascolto a’ moti di clemenza? È questa una qualità propria di Dio, ed i Sovrani devono praticarla, ma quando il raziocinio persuade che possa produrre buoni risultamenti. In caso diverso la clemenza trasmutandosi in debolezza diventa invece un vero e grave peccato». I piccoli piffari, cit., p. 98-99.
[72] La notte tra il 23 ed il 24 agosto 1572.
[73] I piccoli piffari, cit., p. 109, nota.
[74] Ivi, p. 109-110, nota.
[75] «Io so di certo che vicino vicino a Napoli ci è un Paese dove si trova la vera cuccagna dei liberali. In quel paese appena uno si è mostrato ribelle, subito un impieguccio, ovvero una pensioncella, e tutte le carezze del governo. Possono aver fatto qualunque danno, possono venire segnati a dito da tutti, non fa niente; si lasciano strillare la giustizia e la prudenza, e si pelano i sudditi fedeli per provvedere i sudditi ribelli. Signor Dottore, andiamo in quel caro paese e viviamo ancor noi a spalle dei gonzi». Monaldo Leopardi, Dialoghetti sulle materie correnti dell’anno 1831, Il viaggio di Pulcinella, scena ultima.
[76] Come «La Giovine Italia» di Giuseppe Mazzini e la «Antologia» di Giovan Pietro Vieusseux, fatta chiudere solo nel 1833.
[77] Francesco Domenico Guerrazzi, dopo il successo de La battaglia di Benevento del 1827-1828, collaborò all’«Antologia» e aveva esplicitamente attaccato il Granduca di Toscana ed il Duca di Modena in una conferenza tenuta all’Accademia Labronica il 19 marzo 1830. Cfr. Maturi, op. cit., p. 284.
[78] La tragedia Giovanni da Procida di Giovanni Battista Niccolini venne rappresentata nel 1830 alla Pergola e vietata solo dopo varie repliche per «le proteste dei rappresentanti di Francia e Austria e provocò un irrigidimento della censura toscana, che proibì lo smercio dell’edizione a stampa del 1831»[78], ma nello stesso anno fu stampato a Palermo, Napoli, Torino e Bologna.
[79] Cfr. Maturi, op. cit., p. 286-287.
[80] I piccoli piffari, cit., p. 182, nota.
[81] Monaldo Leopardi a Luigi Palmieri, 21 marzo 1838, cit. in Maturi, op. cit., p. 343-344. Lo stesso Conte Leopardi, qualche anno prima, aveva scritto: «il Principe di Canosa è l’Argante del partito dei re, e bisognerebbe avere l’anima di Giuda per negargli il diritto all’omaggio e alla riconoscenza di quanti combattono in difesa della legittimità. Egli primo di ogni altro inalberò la bandiera della verità, e mise un argine alla piena inondatrice del tempo; egli insegnò che il bugiardo filosofismo non vuol’essere accarezzato, ma bisogna rompergli il muso; ed egli affrontò tutte le rabbie di questa belva, buttandosi nella voragine per la salvezza comune. Inoltre i suoi dotti e gagliardissimi scritti squarciarono molti veli, illuminarono molte menti, suggerirono molli pensieri; e se Canosa non avesse dato il tuono con la sua voce al legittimismo italiano, oggi non si ascolterebbero quelle altre voci che incoraggite dall’esempio di lui, si sono sciolte in sostegno della giustizia. In sostanza Voltaire fu il patriarca della empietà, la Fajette è stato il patriarca della bugiarda libertà, e Canosa è incontrastabilmente il patriarca del realismo e della legittimità». Commento alla poesia Date obolum Belisario, in«La Voce della Ragione», vol. XII, fasc. 71 (15 marzo 1835), p. 319.
[82] Lettera privata del Principe di Canosa a Ferdinando I, Archivio di Stato di Napoli, Archivio Borbone, f. 723, c. 117.
[83] Silvio Vitale, op. cit,, p. 60.
Gianandrea de Antonellis
Io sono sempre ammirate degli autori come Gianandrea di Antonellis che frugano nei meandri della storia fra un’infinita’ di documenti, che comunque e per fortuna esistono, per ricostruirla seguendo il filo logico di avvenimenti e processi complicati… Senza il loro contributo non capiremo mai come si sono sviluppati i processi che ne hanno determinato il corso attraverso l’agire dei protagonisti di ogni branchia…
E’ quello che ai giorni nostri, nonostante i mezzi d’informazione a gogo’, invece scarseggia e rende la matassa del quotidiano politico che si riverbera necessariamente nel privato sempre piu’ complesso e difficile da interpretare, pur coinvolgendo folle, o popoli… Sara’ tutto chiaro quando diventera’storia?..cioe’ per i posteri ahime’! caterina ossi