Il quarantotto, in Gli zii di Sicilia (1958) di Leonardo Sciascia
Un narratore anziano, anche se non proprio ottuagenario, rifugiato in una casa della campagna isolana per sfuggire all’arresto dopo aver partecipato ai Fasci siciliani, ripercorre nella scrittura la propria vita, segnata da tappe che corrispondono ai principali avvenimenti del processo risorgimentale, dal «quarantotto» che, spiega in epigrafe Gaetano Peruzzo nel suo Dizionario siculo-italiano, significa «disordine, confusione, dagli avvenimenti del 1848 in Sicilia», fino all’arrivo dei garibaldini. nel racconto lungo di Leonardo Sciascia, confluito nel volume Gli zii di Sicilia, comparso nel 1958 nella gloriosa collana dei «Gettoni» vittoriniani, come nel romanzo di nievo, Le confessioni d’un italiano, la storia si incarna in personaggi che ne sintetizzano situazioni ed eventi: così le vicende esistenziali dell’io narrante alludono a un esito che, secondo Sciascia, ha caratterizzato il fenomeno dell’unificazione in Sicilia, accettata con partecipazione e convinzione, ma non destinata a produrre nell’isola quel salto qualitativo atteso da un processo storico di simile portata.
Si tratta di una posizione che vede nel risorgimento una rivoluzione mancata e che lo scrittore condivide con la linea siciliana che parte dalla novella La libertà di Verga, attraversa I Viceré di de roberto e I vecchi e i giovani di Pirandello, per giungere fino al Gattopardo di Lampedusa, seppure con implicazioni diverse soprattutto sul piano ideo logico. L’io narrante del Quarantotto, infatti, non appartiene alla nobiltà, ma è figlio del giardiniere del barone Garziano, che è un notabile locale e spregiudicato reazionario, esponente di una classe nobiliare pronta al trasformismo, che, dopo essere stato spia per i Borboni, alleato nei misfatti al vescovo del paese, è capace di mimetizzarsi tra i liberali nei moti del Quarantotto e di mettersi in bella mostra con Garibaldi. il racconto si snoda dall’infanzia del narratore, prospettata, come nel capolavoro di nievo, quale tempo dell’immobilità, individuale e sociale, in un mondo che appare ancora dominato da rapporti di tipo feudale, all’adolescenza, segnata dall’ingresso nella storia – l’unico momento positivo nel rapporto con la storia sembra essere proprio questo, l’incontro con il suo orizzonte. dapprima ad aprirgli gli occhi davanti a quanto sta succedendo è il libertario don Paolo, suo istruttore che, davanti agli eventi che accadono a Castro nel 1848 e che portano alla costituzione di un Comitato Civico di cui presidente è il vescovo e partecipe il barone, gli suggerisce che non si tratti di «rivoluzione vera»: «quella che stavano facendo» commenta «gli pareva un modo di sostituire l’organista senza cambiare né strumento né musica: a tirare il mantice dell’organo restavano i poveri». E infatti, quando nell’aprile del 1849 «giunse notizia che l’ordine tornava», i pochi liberali autentici vengono messi in prigione, a Favignana, pare per «ispirazione» del vescovo e di «una notabile personalità cittadina» di cui è taciuto il nome, nelle pagine degli storici locali, per rispetto di quanto avrebbe fatto in seguito, riscattando il suo «triste passato» nell’impegno «ad aiutare la garibaldina impresa». Come possiamo intuire, si tratta ancora del barone Garziano, che in[1]fliggerà al narratore, questa volta pronto a partecipare in prima persona alla storia, raggiungendo le truppe garibaldine a Calatafimi, una tremenda delusione. infatti, proprio mentre il giovane sta per prendersi una bella rivincita su di lui, portando il colonnello Türr a sottrargli le pecore necessarie per l’approvvigionamento dei garibaldini, il barone stesso lo «brucia» offrendole spontaneamente e invitando tutti nel suo giardino, dove si svolge l’ultima scena del racconto: nel giardino il barone aveva fatto apparecchiare i tavoli, c’erano caraffe di vino ciambelle e pandispagna, sotto gli alberi erano allineati i pozzetti dei gelati, ai rami erano appese bandierine tricolori. il barone diceva — voi, signori miei, siete ospiti in casa mia: tutti, ché la mia casa è grande e ci starete con comodità […] — e rivolto al colonnello Türr — le pecore arriveranno, entro un’ora; e anche i buoi… Tutto quel che possiedo è a disposizione vostra, tutto — si allontanò per dare ordini alla servitù, leggero come una farfalla sfiorava i gruppi che si erano formati, ufficiali garibaldini e cittadini di Castro, ad ogni gruppo lanciava parole di complimento e di allegria. Garibaldi, seguendolo con lo sguardo, disse – questi siciliani: che cuore hanno, che passione mettono nelle cose… — io direi, generale, che quest’uomo ha per noi tutto l’entusiasmo della paura — disse un giovane che durante la marcia avevo visto dentro la carrozza dell’intendenza: un giovane dal profilo nitido, la fronte alta, […] — mi son fatto ormai opinione sicura sui siciliani: e costui mi pare abbia molto da nascondere, da farsi perdonare; e forse ci odia… — mio caro nievo — disse con affettuoso compatimento Garibaldi. — Si, generale — continuò il giovane — siete voi che avete un cuore grande: e nella vostra generosità e passione non vedete la viltà, la paura e l’odio che si mascherano di festa e agitano bandiere a salutarci… Perché abbiamo vinto: e se a Calatafimi ci fossimo rimasti, molti di questi signori che ci fanno festa […] contro di noi avrebbero lanciato i loro contadini […]. — Vedete — continuò nievo — questo è un popolo che conosce solo gli estremi: ci sono i siciliani come Carini, e ci sono i siciliani come… come questo baro[1]ne, insomma. […] — Perché — disse nievo — io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono: i poveri che ci salutano con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli; e il colonnello Carini sempre così silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia ma ad ogni momento pronto all’azione: un uomo che pare non abbia molte speranze, eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei sicilia[1]ni migliori… una speranza, vorrei dire, che teme se stessa, che ha paura delle parole ed ha invece vicina e familiare la morte… Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto ed amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice… […] ma tornava il barone, seguito dal cameriere che portava il vassoio coi gelati. […] disse — ho fatto preparare la camera per voi, generale; se volete salire a ri[1]posare un po’, la troverete già pronta: ecco, è quella la vostra camera… — e alzò il bastone a indicare una finestra. io stavo un po’ in disparte, appoggiato al tronco di un ulivo: in quel bastone che si mosse, nel barbaglio del pomo, mi parve il tempo si aprisse come un imbu[1]to di vento a risucchiarmi nel passato; e il barone, euforico e sicuro, continuava – è la camera migliore, soleggiata da ogni parte, come vedete: la riservo agli ospiti più illustri… E ne son passati da quella camera!… Sapete chi ci ha dormito?… Provate a indovinare [un ministro dei Borboni]… — Chi? — fece Garibaldi, freddo. E guardando in faccia il barone vidi che per un momento il suo cervello si era fermato come un orologio guasto: i suoi occhi ora annaspavano come quelli di un naufrago, disperatamente. «Gli piglia un colpo — pensai — ora muore». invece si riprese, disse — ci ha dormito un parente di mia moglie che era un po’ strambo, intelligente ma strambo: figuratevi che scrisse libri così, e tutti in latino, per dire che tutti i beni del mondo vanno messi in comune, anche le donne. Tutti risero. il barone si passò il fazzoletto sulla faccia. (Partii l’indomani con l’esercito di Garibaldi, partecipai a tutte le battaglie, dal Ponte dell’Ammiraglio a Capua; poi passai, da ufficiale, nell’esercito regolare, disertai per seguire ancora Garibaldi, fino all’Aspromonte. ma questa è un’altra storia)1 mi sembra che la scena espliciti la posizione di Leonardo Sciascia e l’interesse di tutto il testo, che mi ha spinto a proporlo in questa occa[1]sione: lo scrittore, nelle pagine che ha dedicato, nel tempo, al tema del risorgimento in Sicilia, ne ha proposto una lettura decisamente critica, come si è accennato: ha parlato di un processo che non si è compiuto
- L. Sciascia, Gli zii di Sicilia, Torino, Einaudi, 1960, pp. 160-163.
fino in fondo, che non ha modificato i rapporti di classe nell’isola, mancando la meta di un reale ammodernamento della società siciliana, e ha evidenziato episodi di incomprensione e anche di ingiustizia, come ad esempio i fatti di Bronte, di cui ha parlato come di «prima pagina di nera ingiustizia scritta da questa italia contro l’altra Italia». La storia, in ultima analisi, anche in questo caso non cessa di configurarsi come serie continua di sconfitte per «gli uomini che lottano per l’umano avvenire»; tuttavia, il fatto che Sciascia affidi a un intellettuale del nord una riflessione tanto acuta e sicuramente tanto partecipata, da parte sua, sui caratteri dei siciliani, mi pare significativo: al di là dell’affermazione dello scrittore stesso di aver voluto costringere l’amato nievo «a parole di comprensione e d’amore», come a risarcire la sua chiusura verso la Sicilia, mi sembra infatti che questa scelta segnali la possibilità di un incontro, la capacità di un’apertura almeno sul piano umano, che colorano di una sfumatura diversa la pur amara lettura del processo di unificazione condotta dallo scrittore siciliano.
letto da ricciarda ricorda