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IL SACCHEGGIO DEL BANCO DELLE DUE SICILIE

Posted by on Ott 11, 2018

IL SACCHEGGIO DEL BANCO DELLE DUE SICILIE

cominciò con garibaldi lo sfascio della nostra economia

In una seconda lettera indirizzata sempre a Disraeli e datata 10 ottobre 1861, Ulloa torna sul saccheggio e la dilapidazione dei fondi del Tesoro e dell’allora Banco delle Due Sicilie, più tardi chiamato Banco di Napoli.

Scrive Ulloa: “Un governo esercita sempre una certa influenza sugli affari finanziari, commerciali ed industriali, ma sotto Garibaldi… lo sciupìo, mercé l’imperiose richieste del Signor Bertani ed alle ricompense, che si aggiudicavano essi stessi gli emigranti ed i militari, prese proporzioni tali che si vide tosto nella impossibilità di soddisfare ai bisogni del Governo e della Guerra”. Lo stesso dittatore prelevava a piene mani somme ingenti, che poi distribuiva ai suoi favoriti. Gli emigrati rientrati dall’esilio ottenevano per se stessi e per i loro familiari “somme enormi, come sollievo delle passate sofferenze”. Raffaele Conforti, ministro per soli 40 giorni nel 1848, prese 300.000 franchi, somma equivalente allo stipendio che avrebbe si e no percepito quale ministro in dodici anni ininterrotti di governo! Antonio Scialoja prese per sé e per suo padre appena 200.000 franchi, firmando addirittura egli stesso l’ordine di prelevamento. Furono pagate somme ingenti per stipendi ai nuovi funzionari, pensioni di ritiro accordate con larghezza a quanti avevano perduto il posto con l’esilio. Filippo Agresta, ex sottotenente di fanteria divenuto direttore delle dogane con Garibaldi, si ritirò dopo un mese soltanto da questo impiego con una rendita di 12000 franchi, equivalente alla totalità dei suoi stipendi maturati alla fine della carriera dopo una vita di lavoro al servizio dello stato. Altro caso fu quello di Pier Silvestro Leopardi, che per due soli mesi nel 1848 aveva ricoperto la carica di inviato di Ferdinando II presso Carlo Alberto per concordare le clausole del patto di alleanza tra Napoli e Torino per la guerra all’Austria, “ottenne un ritiro di 18.000 franchi” (il trattamento di un ministro plenipotenziario) e poco dopo “un altro impiego copiosamente ricompensato”, che naturalmente andò a cumularsi al precedente. Un magistrato, Aurelio Saliceti, con dieci anni di servizio si fece liquidare il trattamento di consigliere di Cassazione, grado cui non apparteneva, pur se le leggi prevedevano il “ritiro con sussidio” con un minimo di 20 anni di carriera, mentre si otteneva l’intero stipendio solo dopo 40 anni di servizio compiuti. Mariano d’Ayala, ex luogotenente d’artiglieria, si autoproclamò generale e si prese un appartamento nel Palazzo Reale. Tali soggetti sono tutti magnificamente citati, con espressioni altamente magnificanti, nel “Dizionario del Risorgimento Nazionale”, Vallardi 1930, come uomini integerrimi e dediti unicamente al bene della Patria, alla quale hanno sacrificato ogni cosa, con esclusione però delle somme prelevate o fattesi versare dalle casse pubbliche quale modesto e parziale risarcimento per le pene sofferte in nome di sì nobile Ideale! Pensioni di ritiro così facilmente concesse, nuovi stipendi ed aumento dei vecchi, gravarono il Tesoro di ben 10 milioni di franchi. Si sovvenzionarono i comitati di Livorno e Genova, alla società Rubattino si pagarono 4.800.000 franchi quale risarcimento del piroscafo “Cagliari”, che tra l’altro era stato restituito all’armatore, per i vapori “Lombardo” e “Piemonte” (quelli della spedizione dei Mille) e per quello affondato dalla marina napoletana. Un costo enorme fu l’esborso per il plebiscito, anche perché gli agenti incaricati di far proseliti con offerte in denaro tennero per loro le somme ricevute, distribuendone il meno possibile. Un direttore e due segretari di Stato si presero ben 2.000.000; secondo le accuse della stampa Carlo De Cesare, Ferrigni, Tranchini, Magliano ed altri intascarono la somma di 400.000 franchi, e non sembra abbiano querelato per calunnia i periodici che li accusavano. A fine settembre le casse erano ormai vuote. Dittatore e pro-dittatore prelevavano continuamente, con un semplice biglietto scritto e senza fornire alcuna giustificazione. I militari garibaldini, sotto la minaccia delle armi, si facevano aprire le casse del Banco e prelevavano; i volontari, appena ricevuti gli effetti personali li rivendevano, spesso agli stessi fornitori, facendosene dare di nuovi, a nulla valendo le minacce del Generale Livio Zambeccari, che tentò di porre fine a questo sconcio. Chiunque indossasse una camicia rossa poteva permettersi qualsiasi cosa. Un ufficiale superiore garibaldino fece passare il figlio di sei anni per ufficiale, facendogli pagare “due mesi di soldo” dalla banca. I commissari di guerra ordinarono, pagati dal Tesoro e mai distribuiti alle truppe, ben 72.000 cappotti per “l’armata meridionale” (i garibaldini) che contava circa 25000 uomini. I comandanti dei reparti saccheggiavano i depositi militari borbonici, vendendone il materiale ai fornitori che, a loro volta, lo rivendevano al ministro della Guerra di Garibaldi! Quando giunsero i Piemontesi l’armata meridionale fu sciolta, ed i volontari allora si precipitarono in Banca per riscuotere “il soldo arretrato”, ed i pagamenti furono fatti sopra semplici atti di presenza, senza alcuna firma dei superiori o degli uffici responsabili. Se gli impiegati facevano qualche minima opposizione o chiedevano spiegazioni, le armi impugnate minacciosamente facevano ottenere ai baldi eroi quanto richiesto. Nel 1861, dopo mesi dallo scioglimento dei reparti di volontari, si pagarono ancora a costoro ben 4 milioni di franchi, sempre prelevati dalle casse meridionali.

Con l’amministrazione piemontese il debito pubblico aumentò di altri 5 milioni, mentre turbe di funzionari calarono dal nord come sciami di locuste, avide di sostanziose indennità e pingui stipendi. Il Prefetto di Napoli, oltre allo stipendio da Generale, cumulava anche quello di Prefetto, più 12000 franchi per spese di rappresentanza, oltre alla disponibilità di appena due splendidi palazzi. Un consigliere di luogotenenza alloggiò in un appartamento reale, e si fece concedere 60000 franchi per spese di ristrutturazione e per la costruzione di un teatro: evidentemente, abituato a vivere in chissà quale imperiale dimora in Piemonte, non era soddisfatto dell’alloggio. Alessandro Dumas, il noto romanziere francese al quale per suo uso era stato ceduto un palazzo della Corona, ottenne 900.000 franchi, oltre a pranzare, cacciare e divertirsi altrimenti a spese dell’antica lista civile (antico nome del patrimonio comunale). Sostenne che tale considerevole somma gli era

stata versata per aver provveduto all’acquisto, a Marsiglia, di revolver per l’armata di Garibaldi, anche se tutte le fabbriche d’armi della città non sarebbero state in grado, nemmeno lavorando giorno e notte per un anno, di fornire una quantità di rivoltelle corrispondente all’importo a lui liquidato. Nell’ex Regno si attendeva ancora quanto promesso dai piemontesi: le sale d’asilo, le scuole, il collegio del popolo, le casse di risparmio, le casse di depositi e prestiti, il credito finanziario. Il governo di Torino distruggeva presso la clientela la fiducia che godeva il Banco delle Due Sicilie per le somme in esso depositate, tanto che il pubblico cominciò a ritirarle: infatti, mentre al 27 agosto del 1860 i depositi ammontavano a 77.205.000 franchi, un mese dopo erano già scesi a 50.563.244, il 28 gennaio 1861 a 31.600.460, ed infine il 13 aprile dello stesso anno si erano ridotti a 27.394.896 franchi. I metalli conservati nello stabilimento della Zecca di Napoli, “il primo … di questo genere, dopo quelli di Vienna e di Londra”, furono trasferiti a Torino, in modo che le coniazioni da quel momento fossero eseguite nella capitale Sabauda. Moriva così, come tante altre rinomate istituzioni meridionali, una delle più antiche e famose zecche europee.

Non occorre certo commentare queste cifre: il Piemonte con l’operazione unità d’Italia ripianò il suo debito pubblico ed il suo deficit commerciale. Francesco II, lasciando Napoli disse profeticamente: “Non vi resteranno nemmeno gli occhi per piangere”, non si sbagliava.

da “Il SUD Quotidiano” del 24/1/98 di Gaetano Fiorentino

 

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