Alta Terra di Lavoro

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Il saccheggio di Piedimonte d’Alife nel 1799 (V)

Posted by on Gen 5, 2022

Il saccheggio di Piedimonte d’Alife nel 1799 (V)

V. Si narra l’inaudito terribil sacco sofferto dalla città di Piedimonte, e suo casale di Sepicciano, che durò dalle ore 24 del dì 10 gennaio 1799 sino alle ore 12 della mattina del dì 15, senza interruzione

Siccome più su fu detto, si era sparsa la notizia, dalli stessi francesi, che il giorno del giovedì [10 gennaio] sarebbe venuta la cavalleria napoletana ad attaccarli, e si disse il malcontento de’ contadini di Vallata.

Li francesi, che giravano a grosse compagnie di dragoni, spuntarono per la via de’ Pioppi, quando Don Valentino (Valenzio) del Giudice prese o la occasione, o abbaglio che fosse, e diede la voce alli vallatani, dicendo allegramente:
“Paesani, ecco la cavalleria del Re; all’armi, all’armi, uscite tutti, date sopra a questa canaglia, all’armi”, e, così dicendo, mandò a scassinar il campanile della Santissima Annunziata per un certo contadino Sisto [della Minanca], il quale fu il primo a toccar la campana mezzana colla scure, perché non vi era [il] martello.

Altri toccarono la campana di San Filippo, e Don Filippo Giacomo Burgo toccò colla sciabola la campana [della chiesa] dei Padri Celestini. Ecco dunque, in un momento, tutto il quartiere in arme alle ore 22 [le 17, circa] del 10 [gennaio], giorno memorabile per noi.

Si spartirono gli aggressori paesani per tre vie, per sorprendere li tre corpi di guardia, uno al cimitero, un altro si diresse al Vallone, e il terzo attruppamento discese per mezzo la città, avanti mia casa, in atto che [mentre] stavo scherzando con il capitano Wolff a farli tirar fuori una spada dal fodero- che io tenevo- che si era arrugginita.

Sul punto che la traessi [cioè la spada], il mio serviente Romualdo Scala mi avvisò che sentissi, e tutto sbigottito fé [fece] cenno che già si toccavano le campane ad arme; restai sul fatto, se ne accorse il capitano, che si levò subito, e ci affacciammo dirimpetto alla guardia, che già era stata dispersa, ed egli, per quanto lo avessi pregato a non sortire, stralunò gli occhi e, dicendo “Al mio onore!” bevette un gran bicchiere di vin bianco, e pipando [fumando la pipa], colla sciabola in mano, sortì in mezzo al forte della mischia, ed imprudentemente mi tornai ad affacciare per veder che gente vi era.

E mentre fischiavano le palle vidi venir dal largo del [Convento del] Carmine, in ordine di battaglia, con tamburo battente, la truppa francese, che faceva fuoco, ma li nostri la rovesciarono, e la ferono [fecero] rinculare, dacché [i francesi] si andiedero a chiudere [andarono a chiudersi] in quel Convento;
in atto che [mentre che] vidi uno solo de’ nostri in mezzo a Porta Vallata- stava egli in camiciola e senza cappello in testa- che con una destrezza indicibile sparava al picchetto [francese], che di qui fuggiva per la via detta de’ Fossi.

Mia moglie, unita colla serva ed un’altra vicina, avevano fatto un mucchio di pietre per lanciarle contro il nemico, dacché [poiché] nella gente sollevata vi erano donne, armate ciascuna di qualche istrumento da offendere. Io, veggendo [vedendo] questo, sul momento la fei [feci] ritirare per timor delle fucilate, e le dissi che bisognava fuggire, dacché [poiché] a questa imprudente mossa ne sarebbe seguito fuoco, sacco e sangue.

Infatti, li francesi, accortisi dopo un’ora e mezza- che fu in punto alle ore 24 [le sette di sera, circa]- che la insurrezione era finita, ed essendo anche giunto il generale [Lemoine] dalla caccia, e trovato il terribile seguito fatto, mentre la truppa pensava di ritirarsi in Alife, perché stava già in mossa colle mucciglie [gli zaini] in spalla, con aversi fatte restituir la mutande anche bagnate dalle lavandaie, egli [il generale Lemoine] fé battere la [adunata] generale per il sacco, che cominciò con una furia inesprimibile.

Ritorno un po’ indietro. Quando scendemmo con mia moglie, Donna Angiola Cavicchia, nella cantina, cercai qualche nascondiglio, ma niuno [nessuno] opportuno ve n’era; essa risalì, rimasi solo durante l’attacco, e cominciai a sentire dalla via de’ giardini grandinar le palle nella [verso la] cantina.
Scappai di là per risalirmene anch’io, ma a mezzo grado [a metà scala] la incontro, con appresso Don Nicola Pascale, il quale, avendo trovato il portone aperto, per essersi trovato per strada, salì in casa, e dopo aver così corso ogni angolo per nascondersi, si era messo appresso alla mia serva, che se n’era scappata pel tetto, ond’ egli gridava: “Misericordia! Siam morti, avessimo una sepoltura o un soffitto alto per ripararci!”.

Io, quando cominciai a pensar la fuga, mi trovai in una saletta di casa, per la quale passò Albout con cinque comuni [soldati semplici], l’ultimo de’ quali mi assestò uno scapezzone- cercando del capitano ed io dicendo ch’era sortito- poi m’inseguì nella cucina, per ammazzarmi, se non che, frappostasi mia moglie, dopo avermi tirato un secondo scapezzone- onde ero rimasto stordito-, se ne’andò via.

Ma, Don Nicola Pascale insistendo per la salvezza, mia moglie ci condusse su di un’ultima casa, in cui essa portò una scaletta; ci chiuse lì, portò altrove la scaletta, e si rifugiò sul tetto- per una via, e modo, miracolosi-
dove stié [stette] sino alle ore cinque della notte [mezzanotte, all’incirca];
nel quale spazio di tempo salirono li saccheggiatori ben due volte, ma, non trovandovi cosa, dopo un due minuti se ne tornarono.

Intanto, con Don Nicola Pascale, sentimmo leggermente camminar sul tetto del soffitto, corrispondente [in corrispondenza] alle nostre teste; ma, stando in agitazione dell’evento, mi sentii con voce convulsa chiamar da mia moglie, con dir: “Io moro!”. La invitai a toglier i tetti, ché io avrei levate le tavole per farla ricoverar con noi; detto fatto. Entrata ci disse: “Siam perduti, perché li francesi ànno [hanno] già cominciato a dar fuoco alla città”.

Onde, avendo io tratta la testa all’aperto, vidi grandissimi fuochi; ma subito ci sgombrammo di timore, perché mi accorsi che vi si brugiavano [bruciavano] li cadaveri degli estinti-come infatti così fu-, dacché, in un sol fuoco, un gregoriano [cioè, un tale di San Gregorio d’Alife], [servitore] della casa di Don Marcellino [Ragucci], sotto la quale ne brugiava uno grandissimo [di fuoco], nel Mercato [in piazza Mercato] ne contò, [di cadaveri] tirati a corda, non meno di 271.

Erano giusto le ore cinque della notte [le 19, circa], e soffiava un aquilone così orribile, con polverino di neve, che si gelava per un momento che vi si fosse stato a scoverto; perciò, mia moglie assiderò ed io m intorpidii in tutti gli estremi, con pericolo di vita, ma continuai a star nel soffitto scoverto di tutto, benché il Pascale stesse in miglior sito, perché trovossi [si trovò] più in fondo.

Alle ore sei [le otto di sera], venne nella stanza di sotto a noi un’altra ed ultima visita di due soldati che, statisi a fiutar per circa un quattro minuti, dicendo: “andiamo, qui non vi è gente”, se ne partirono con chiudersi dietro la porta.

Noi [Vincenzo Mezzala e Don Nicola Pascale] eravamo intirizziti. Aggiornò [si fece giorno], e pensammo di scappar via, ma non vi era modo di farlo che con rischio;
onde, mia moglie, la prima, risalì sul tetto, da cui fu fatto segno a un carbonaio che comparve; costui, e altre buone donne, ci porsero una scala, e ci ricoverammo nella di loro misera casetta, già più volte visitata da’ saccheggiatori. Rimanemmo lì sino a sabato mattina, ad ore 16 [verso le 8 e 30].

In questo spazio di tempo moltissime fiate [volte] ci favorirono li soldati a rubarsi lì quei stracci che vi erano rimasti, ma non ci offesero nelle persone, benché andavano col terrore della mano armata si sola sciabola.

Eglino [essi], giungendo, altro non dicevano che “argent”, ma poi prendevano tutto; onde, al Pascale li [gli] tolsero 160 scudi, che volle perder così per forza, perché, se li lasciava- com’io feci-, sul soffitto, non glieli avrebbero tolti, colle scarpe e fibbie, ch’io pur salvai, togliendomele e nascondendole con una mostra [piccola quantità di una data merce] d’oro. Stavamo in quella casetta in numero di circa venti persone, fra le quali alcune ragazze, per le quali fummo avvisati che li soldati rondavano [si aggiravano], avendole adocchiate.

Onde, con mia moglie risolvemmo levarci di quel ricovero, e cercarlo altrove, in casa del di lei zio, canonico Don Arcangelo Angelillis, nel supposto, ch ei [egli] fossevi [vi fosse]; ma sortiti, trovammo le strade tessute di truppa e, voltatomi, vidi venirci dietro quelle ragazze, onde, dubitando di qualche insulto, ritornai indietro, credendo esser seguito da mia moglie e dalla serva;
ma, rientrato nella casetta, vi trovai il solo [Don Nicola] Pascale ed uno zoppo, mio pigionante;
or, veggendomi dispersa la moglie, caddi in un’indicibile angustia, perché non sapevo dove la si fosse rifugiata, dacché la mia casa era piena di soldati;
onde risolsi di mandar lo zoppo in casa a domandar del capitano Wolff; dopo preghiera, ci andiede [andò], da me istruito, a farli sentire- se ci era- che io desiderava ritirarmi.

Infatti, lo zoppo, al meglio, lo trovò, li fé capir la imbasciata, e il capitano, per la via de’ giardini, venne di persona a rilevarmi; e quando mi vide, mi abbracciò, e baciò, e mi rimproverò della mia fuga, con dirmi, che io avevo patito un terribile saccheggio perché me n’ero fuggito; al che li dissi il fatto de’ scapezzoni, e che da ciò mi ero sgomentato; sicché, così parlando, venne con me anche il Pascale, preso per mio parente.

Giunti in casa, mi portò per mano vedendo [a vedere] il disastro del sacco: li conservatoi [i mobili] scassinati, e [forzate] una sola porta ed una finestra, per la quale entrarono li soldati [francesi]; non mi presero tutto il tabacco, di che mi consolai, ed accortosene, il capitano [Wolff] me ne restituì un po’.

Ma perché si era digiunato dal giovedì mattina, cercai da mangiare, ed il capitano [Wolff] porseci [ ci porse] il pane, e [del] caciocavallo; e quindi, tiratosi di tasca delle salsicce, le buttò sulla bragia, e quindi le mangiammo; e bevemmo dell’ottimo vino, benché [stessi] col pensiero a mia moglie, in cerca di cui mandai lo zoppo e la madre della mia serva, che mi capitò in casa;
costei, alle ore 21 [all’una e mezza del pomeriggio] mi recò la notizia che [mia moglie] stava rifugiata a casa di Nicola Tartaglia, mio compare, e poco da noi lontano, dove era pervenuta dopo aver sola girato sino a casa [dei] Pitò, donde andiede [andò] a casa di un ortolano, che trovò ucciso a pié delle grada [i gradini davanti casa], avendo lasciato, davanti [il monastero di ] San Benedetto, morto un offiziale francese.

Ed avendo [mia moglie] voluto ricoverarsi a casa Paterno- Onoratelli non vollero affatto aprirle, per cui si portò a casa Tartaglia, camminando sempre fra la truppa- che pattugliava- senza ricever veruno insulto. Quindi subito la mandai a rilevare, e ritirossi [si ritirò] in casa, con circa altre venti persone, per assicurarsi contro li saccheggiatori; ma giunta appena in casa, tosto ne scomparvero li soldati [francesi].

Ma perché non c’era da mangiare, fuorché un po’ di riso e quattro fagioli, dissi al capitano Wolff, che, avendo distrutto il pollaio di sessanta animali, e consumato quanto ci era di buono, conveniva che io fossi soccorso da lui. Mi capì, e subito un soldato sortì, e portò cinque grassissime galline, colle quali fu dal soldato stesso- che era un buon francese- fatta una zuppa; e, venendo a mezzogiorno molti altri capitani, mangiammo, e mandai a mia moglie il pane e carne di bue, che col riso dispensò alla gente ch’era seco [con lei] venuta.

Così continuammo sino a tutto il lunedì, nel qual tempo tutta la [gente di] Vallata veniva in casa [mia] per aver bollettini di franchigia [esenzione da un pagamento ] da affiggerli alla porta, onde non farvi più entrar saccheggiatori, li quali non vi finivano di entrarvi che dopo cento volte. Sicché- dové confessar Albout- che il sacco di Piedimonte non era un sacco ma subisso [una distruzione] per i peccati di Piedimonte. Le particolarità di tal sacco le riserbo al seguente capitolo, per non indurre confusione.

Or la sera della domenica, durante il sacco si unirono in mia casa circa tredici capitani, e cominciarono a disegnar le poste [l’atto del porre] per situazioni di artiglieria, nel che il Wolff indicava di salvar la nostra abitazione. Lettore, confesso che in questo equivoco restai senza spirito, il fei [lo feci] saper a mia moglie e mandai a chiamar il di lei zio ed altri, per farli ricoverare, dacché la minaccia era diretta alla Vallata, dal cui popolo era stata assalita la truppa.

Ecco che io ne interrogai in segreto il Wolff, che mi assicurò di star tranquillo, che non era vero che si volea cannonare [cannoneggiare] la contrada; acceso io di fantasia, stavo inconsolabile, mia moglie svenne; il dissi al capitano [Wolff], che la venne a rilevare, e volle che assolutamente avesse desinato con loro, e notai che quando entrò, tutti si scostarono alquanto, e la ferono [fecero] situare accosto a me, che la sforzai a fingere [simulare di stare calma]. Intanto, terminata la cena, il capitano [Wolff] si alzò di mensa, ed entrò nel quarto dove si erano radunate circa quaranta persone; il che, vedutosi dal capitano, cercò due guide, per andar a casa Pascale, a farsi dar per quella gente pane e formaggio. Io, equivocando, per le guide mandai a sollecitare il canonico Don Pietro de Lellis,- che aveva predicato per la leva in massa ed era cercato da’ francesi-, e il canonico Angelillis, colli quali venne una quantità prodigiosa di gente, per salvarsi.

Tutta la notte si vegliò, montando le sentinelle. Ma non vi fu cosa [non accadde nulla]. Durossi [si durò] quindi in questi palpiti sino al martedì. Non pertanto il sabato sera giunse in città un aiutante, e cinque dragoni, colla notizia che era stata presa Capua; io risposi, in mezzo al loro tripudio, che Capua si era resa senza combattere; ed avendomi eglino [essi, i francesi] detto che [a Capua] ci erano 12000 uomini e che altrettanti vi erano qui, io così li risposi:
“Anzi, credo che a vostro bell’agio potete formare una mostra [una parata] con più di centomila [soldati], con marce, ritirate e contromarce, moltiplicando la stessa truppa; ed ecco li dodici mila e li cento venti mila soldati. Io so che la [vostra] colonna, che è qui, non è più numerosa di 1775 soldati; ad altri, e non a me, direte [dell’esistenza di] queste armate”.
Al che un francese, ridendo, rispose: “Vous êtes un diable!”.

Nel lunedì mattina, essendo venuti in casa a pranzo 12 altri capitani, fra questi ve n’era un cisalpino di cognome Planì, giovine versato [dotato di particolari inclinazioni o attitudini], che attaccò meco un discorso politico in latino, ma non riuscendoli- colla mia facilità- proseguirlo, parlò in italiano. Allora li tenni un ragionamento, posso dir insultante; li [gli] dimostrai che i francesi mai furono politici, e che in pratica antipolitica già si diportavano [agivano, cioè, in modo non congruo], e li predissi che li saccheggi li avrebbero fra poco cacciati dal Regno, che l’ostare alle massime di religione li aveano resi odiosissimi anche agli scellerati, in fuor de’ così detti giacobini, come gente nullius religionis [di nessuna religione]; li dimostrai che se de Gambs non ci tradiva [non ci avesse tradito], noi, colla semplice nostra massa, avremmo distrutto la colonna che qui era venuta; e li [gli] esposi, con sua somma attenzione, la manovra e la tattica situazione, ed azione che ci avrebbero rassicurati.
Tutti mi udirono, al Planì molte cose spiegavo; e [i francesi] giunsero a tale [soluzione], che mi volevano a forza condurre a Parigi; al quale invito risposi: “No, non ho pensiero [timore] di essere ucciso!”; al che si posero a ridere, e poscia ci si pose in ordine per mangiare.

Notai in questa occasione come veramente quella truppa era assortita della feccia di più nazioni; e che veramente non era entrata in Regno per occuparlo, ma solo per devastarlo; poiché un bellissimo giovinetto, capitano, interrogato da me su come dovevo condurmi per la mia quiete, mi disse:
“Non mostrate ancora di esser francese, e non prendete ancor la coccarda”.
All’incontro [a riprova] un altro capitano mi disse:
“State allegramente perché il vostro Re ritorna”.
Quali due avvisi li passai tosto a tutta la gente, che si trovava in mia casa, e ci consolammo alquanto.

Del resto, la mattina della domenica, in berrettino e scalzo- perché non avevo onde altrimenti coprirmi-, volli arrivare sino al [Convento del] Carmine, che trovai chiuso, e dopo aver ripicchiato [al portone], discesero due sacerdoti, il priore, padre Michele della Corte, e due laici. Salito sopra vidi quel bellissimo Convento ridotto a perfettissima stalla, ed il tutto rubato, cioè il migliore da’ francesi, ed il restante da’ ladri paesani, che portarono via tutto, lasciandovi le sole mura.

Uscendo dal Convento [del Carmine], una sentinella m’insultò, ma non per questo non volli andare a San Benedetto, dove trovai le monache, le quali stavano accomodando nel cortile gli avanzi del sacco [gli oggetti devastati] alla presenza di Albout, che quando mi vide si pose a ridere, e di Don Federico Torti, che se le portò [le suore] in sua casa, dove accompagnai la badessa Donna Eleonora Pecci, la parente del Valiante- come si disse-, e del Torti, e della moglie del medico Don Nicola Meola.

Andiedi [andai] pur io ad accompagnarle [le monache], ed a casa Torti trovai pure uno scompiglio.
Le monache all’incontro [di converso] la prima sera del sacco non si mossero, assicurate dal Valiante e da un generale francese, che quando cominciò la rivolta popolare si ritrovò nel monastero a ricevere li complimenti di rosolio, e dolci, che li prestarono quelle reverende signore.

Ma non giovò [a nulla], perché la prima visita ce la [gliela] fé [fece] una compagnia di venti soldati, che dopo lo sciupo [il saccheggio] del migliore, cominciarono a tentar il lordo [insidiando le religiose]; ma, mi disse la vicaria Donna Maddalena Santellis che, siccome si trovarono lì rifugiate alcune giovinette, queste [ultime] furono assalite; ma le educande furono lasciate [in pace], per le grida di lei [cioè, della vicaria]; ma che fosse, o no, seguito male, essa non lo accertava [avrebbe potuto attestarlo], e mi fece questa confidenza:

“Le monache impetrarono [ottennero con preghiere ] nel venerdì mattina un corpo di guardia che, situato alla portineria, impediva il ritorno de’ saccheggiatori; fu essa madre vicaria, come più anziana, destinata a portare ai soldati da mangiare; or un de’ due soldati, dopo il pranzo, prese per le gambe lei, e la raggirava per trastullo nelle sue braccia; ma, alle sue strida, il compagno lo sgridò, e la fé [fece] lasciare; al che, risolvettero le monache [di] sortirsene assolutamente; e siccome vi è nel giardino interno una stretta [passaggio angusto, rientranza del muro], di altezza di circa sessanta palmi, così la notte del venerdì, attaccate ad una fune che da un muratore fu loro calata, se ne fuggirono e molte andiedero [andarono] a ricoverarsi a casa Burgo, che sta dirimpetto al monastero ed in cui non trovarono alcuno per essersene tutti fuggiti; ma la madre badessa, nel salir per la fune, venne meno, e cadde, ma poche contusioni solamente ne riportò”.

È tempo ora di narrare come fu eseguito il sacco2.

Dico dunque che, soffiando un orribile vento con brina di neve, verso le ore 24 [le sette di sera], mentre si credeva che li francesi volessero partirsene, perché tutti con armi e mucciglie [zaini] si affollavano, fu dato il segno al sacco, e in un baleno, lasciate le mucciglie, con accette di guastatori ed altre armi assalirono grado a grado li fondachi e le case, scassinando porte e portoni.

Dove trovavano gente, lì impugnavano le armi, cercando argento, oro ed orologi; ma il fatto sta, che, assortivano tutto- oro, argento, orologi, telerie, panni, seta, cuoio, scarpe, carta, funi, filo, salsicce, priggiotti [culatelli], facendoci restar il solo lardo, letti, rame e panni sporchi-, che tutto poscia fu rubato da’ paesani, che giunsero a prendersi buffet, bussole [cassette], e nel Palazzo vescovile anche la campana;
erano essi [i francesi] accompagnati da questi paesani- ladri, oziosi o miserabili-, che credevano, con li principi sparsi di “Liberté, Egalité e Fraternité”, esserli lecito il ridurre altrui alla nudità.

Cominciò dunque il saccheggio alle ore 24 [le sette di sera, circa] del dì 10 gennaio, giorno di giovedì, e terminò alle ore undici della mattina del dì 15, giorno di martedì, del mese di gennaio dell’anno 1799. Sicché durò per lo spazio di cinque notti e quattro giorni interi, e senza interruzione.

La roba l’affastellavano nelle strade, quindi venivano dalla città di Alife li carri, che se ne caricavano e si conducevano là, dove se la dividevano, oppure all’altro piccolo accampamento nella tenuta del Duca, detta di San Simeone. Si condussero dietro una quantità di vino strabocchevole, e tale che, – mi assicura il canonico teologo Don Giovanni Lombardi-, che molti giorni dopo la di loro partenza, ancor ne esisteva dentro di un fosso, dove lo vuotarono, nel campo di Alife.

Non vi furono che poche case esentate dal sacco; e queste furono la casa di Don Giacomo Vendettuoli, perché si premunì col capitano della piazza, la casa di Don Raffaele Perrone, per lo sborso di anticipata somma di denaro, la casa di Vincenzo Imperatore, ricco mercadante [mercante]; del rimanente non ne fu esente alcun’altra, sia che fosse stata di mendico, o di dovizioso. Nondimeno, pel quartier di Vallata non ardirono passar più su [della chiesa] di S. Filippo, fino al capo della Vallata stessa, per timor d insidie, poiché da questo quartiere furono assaliti il giorno della scaramuccia.

Il danno in tutti li generi sofferto da questa città si fa ascendere a un mezzo milione di ducati; tuttavia, la gente più accorta aveva nascosto il miglior degli arredi, e degli argenti ed oro, che si trovava pria [prima] che essi [i francesi] fossero qui giunti. La è cosa degna di tutta considerazione, ché molti de’ saccheggiatori forse portavano delle verghe divinatorie, perché molti di essi ebbero l’abilità di scoprir li più riposti nascondigli, fermandosi in mezzo alle stanze, o luoghi, dove giunti, si portavano addirittura nel sito della roba; e se [la roba] era nel suolo, lo sfondavano, e se era in faccia alla muraglia, la rompevano, e ridendo se la prendevano; anzi fu osservato che fra i soldati comparivano alcuni nani mori, coverti a mantello, con sciabola in mano, che, per la mostruosità della figura ed aria di portamento, facevano trasecolar di paura li padroni di casa, asserendo [i quali asseriscono] che [i nani mori] erano così perfidi che [incontrandoli] ci si trovava sempre a cimento [a rischio] di esserne uccisi.

Così fu desolata questa città.

Li francesi, però, non guadagnarono il sacco senza pagarne lo scotto; poiché, o che essi ne avessero promosso l’attaco, o che il popolo vallatano si fosse aizzato da’ [per i] furti in campagna, il fatto si è che nell’azione del giovedì dentro Piedimonte, ce ne rimasero uccisi- secondo un ufficiale si spiegò-, cento e uno; ma, in tutto, quelli che furono uccisi [a Piedimonte], o che andiedero [andarono] feriti a perire al campo d’arme [in Alife], ed altri feriti che perirono in Benevento, per quanto mi disse nell’anno seguente un missionario di Sant’Angiolo a Cupolo, Don Antonio Fiorentino, ne perirono cento venticinque.

De’ nostri [piedimontesi], disgraziatamente e fuori di azione, sette, tra i quali il sacerdote Don Luigi Cavicchia, che ebbe una fucilata alla gola, stando in finestra appiattato. Ed un buon uomo, Nicola d’Amico, che fu brugiato da più francesi nella sua masseria, sita in Valle Spagnuola, poiché lì furono uccisi più francesi, cioè chi disse due e chi cinque, onde fu ammazzato il d’Amico in vendetta e per sua ostinazione, perché non volle salvarsi sulle montagne.

Un altro paesano fu ucciso nel coro della Santissima Annunziata, e si chiamava Domenico Perillo, la cui vidua [vedova] fu poi graziata dal Re in [con] 36 annui ducati, e un’altra vidua [vedova], Colomba Leggiero, fu graziata di annui ducati 72, perché aveva più numerosa e minuta [povera] famiglia.

Durante l’attacco chi potette scappar sulli monti il [lo] fece; quei che rimasero [in Piedimonte], per lo più con un spirito di confusione, lasciando le proprie case credevano di salvarsi nelle case altrui, dove ricevevano le perquisizioni militari, in atto che [mentre] le proprie case erano devastate a fondo.

Delle robe qui derubate, quando quell’orda di mischio feccioso di nazioni si partì, ne aprirono più fiere, vendendo oro, argento, orologi, stoffe di panno, di seta, di lino, ed abiti da uomo e da donna per pochi quattrini, sicché gli alifani fecero de’ grandi acquisti, li casalisti [gli abitanti dei casali di Piedimonte: Castello, San Gregorio e San Potito] altresì, e quindi innanzi [poi] in altri paesi barattavano il valore di cento, al più, per dieci.

Ma il subisso del danno ci fu cagionato da’ birboni paesani, li quali, senza compassione, nell’assenza de’ padroni, ne nettavano fin li chiodi affissi alle mura delle case, poiché questi scellerati non solo si unirono con i francesi, per indicarli le case de ricchi, o de’ creduti ricchi, ma dopo la partenza del nemico, per quel tempo che vi ebbero, nell’assenza, come fu detto, de’ padroni, finirono di scoparne le abitazioni.

Onde, avvenne che, mentre la generalità languiva nella miseria universale, quei miserabili- fu osservato-, entrarono in gioco fin con cinquanta piastre. La qual cosa produsse in appresso tanto gusto in essi al sacco, che cominciarono a minacciarne un secondo al veder qualche donna coi pendenti di oro negli orecchi; e questo gusto produsse tanti ladri, che oggi stiamo come a suo luogo dirassi [si dirà], come in stato di assedio per timor di loro.

a cura di Armando Pepe

fonte

http://www.storiadellacampania.it/il-saccheggio-di-piedimonte-nel-1799#toc5

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