Il saccheggio di Piedimonte d’Alife nel 1799
FONTE
Manoscritto autografo dell’avvocato Vincenzo Mezzala, composto di 21 fogli, risalente al 1799, custodito a Piedimonte Matese presso l’Associazione Storica del Medio Volturno, pubblicato per la prima volta nel 1965 a cura di Dante Bruno Marrocco.
Cfr. Vincenzo Mezzala (a cura di Dante Marrocco), Il saccheggio di Piedimonte nel 1799, Arti Grafiche Ariello, Napoli 1965.
NOTA DEL CURATORE
Questa che segue è una cronaca degli eventi- occorsi a Piedimonte d’Alife (ora Piedimonte Matese) tra il 1798 e il 1799- scritta in presa diretta dall’avvocato Vincenzo Mezzala, domiciliato in Porta Vallata. Si tenga da conto che l’Autore, non conoscendo il francese, scrive come sente, per cui i cognomi degli ufficiali non sono- per la maggior parte- fededegni, e di conseguenza vanno presi con beneficio d’inventario. Data la prosa-, franta, di non facile lettura e in qualche punto ostica se non criptica per la reiterata ipotassi-, si è ritenuto disporre il racconto per blocchi narrativi e/o periodi separati, per creare opportunamente tanti insiemi di proposizioni che costituiscano unità indipendenti dal punto di vista logico e sintattico. La frammentarietà del testo è voluta giustappunto per una migliore fruibilità.
Cronaca degli eventi
Vedute con gli occhi, o udite da altri che, avendole ancor elli vedute, le ànno [hanno] a me fedelmente raccontate, Vi prometto, col medesimo stile, [di] narrarvi le conseguenze di questo sacco, e quindi la mutazione di costume di tutta la nazione, ed altri obbietti politici da interessare la curiosità dei posteri, perché prendano norma -se il mondo dura- di rallegrarsi nelle sciagure dell’umanità, persuadendosi che, quanto accadde agli uomini, tutto è un ordine adorabile della Divina Provvidenza, per cui- diceva un Santo morale- la storia degli uomini deve appellarsi assolutamente “l’Istoria di Dio”.
I. Li veri motivi di quest’undicesima invasione del Regno di Napoli fatta dalli Francesi
Convien che si sappia che fin da’ principi del XVIII secolo si stabilì dall’Inghilterra in Francia, in mezzo a quell’ugonottismo, una nuova setta in religione e politica, denominata “de’ Massoni”, la quale nel massimo e mai scoverto segreto si sparse col suo proselitismo per tutta la superficie della Terra, cosicché verso la fine di quel secolo ve n’era anche nel Regno [di Napoli] un numero grandissimo di iniziati e confratelli.
Ed a me ne fu comunicato un de’ massimi obietti nel dì ultimo del carnevale del 1773, in Napoli, da un giovane jurista [giurista], uditore di Eineccio [Johann Gottlieb Heineccius, latinizzato dal tedesco Heinecke] di nome Don Vincenzo Pantano, che fu in Germania a servigio della grande imperatrice Maria Teresa, nella guerra col re Federico il Grande di Prussia.
[…] [Fu] ordita [una] massonica Rivoluzione in Parigi e in un baleno [si propagò] per tutte le Gallie [la Francia].
Fu arrestato il re [Luigi XVI], con la regina [Maria Antonia d’Asburgo-Lorena], col figlio [Luigi Carlo di Borbone, il Delfino], e con la madama Elisabetta [Elisabetta di Borbone], che poi fra [entro] due anni venirono decapitati, cioè li sovrani ed Elisabetta; il Delfino avvelenato, e solamente riservata la figlia, di nome Teresa Carlotta, la quale dopo quattro anni fu cambiata per il general francese Sémonville [Charles-Louis Huguet de Sémonville], che nelle successive guerre che seguirono fu fatto prigione dai tedeschi in una imboscata.
Alla mossa di quella nazione [la Francia] si posero in guardia li potentati d’Europa, e fattasi lega tra gl’inglesi, olandesi, spagnuoli, prussiani, principi dell’Impero e l’imperatore Pietro Leopoldo, il re di Sardegna, accedette a questa lega ancora il nostro re Ferdinando [IV di Napoli], contro il consiglio de’ suoi veramente fedeli ministri; ma il fatto sta [che], durando questi trattati, in Napoli si trovavano degli affissi [manifesti], fra i quali uno che così diceva: “Tutte le mode vengono da Francia”.
Ma che? Tutti questi potentati che sembravano di inondar la Francia e punirla de’ parricidi dei loro sovrani, e che sparsero la fama di guerra di religione, in quella impresa furono per tutto disfatti, e si divenne ad un accomodamento che, non essendo piaciuto agli inglesi, questi tanto si maneggiarono che feron [fecero] ripigliar l’armi all’imperatore Francesco, succeduto a Leopoldo, ai principi dell’Impero, al re di Sardegna, ed anche al turco ed allo zar di Moscovia [Mosca] Paolo I.
Cosicché si rimise in nuova aspettativa il mondo in questa unione; ma non solo verificossi, ma confermossi, con i geminati effetti, la gran massima politica che sempre[..]
[..] Con un “Chi si può salvar che si salvi”,[il comandante in capo (Karl Mack von Leiberich) e gli ufficiali del corpo di spedizione napoletano/borbonico] abbandonarono il campo ai francesi, che l’assalirono, lasciando provvisioni [e] da bocca e da guerra, perdendo stima e roba per tradimento, come a me raccontarono 27 paesani che furono in quella campagna [culminata nella battaglia di Civita Castellana, il 5 dicembre 1798], nella quale tanto è alieno dal vero che il general Cerchiara [Andrea Pignatelli di Cerchiara] ed altri nostri si fossero almen qualche volta battuti, che un nostro piedimontese, in un giorno, benché semplice sergente- di nome Michelangiolo di Fidio- dové comandare un distaccamento di 700 uomini, tenendo fronte al nemico, mentre l’officialità [cioè gli ufficiali napoletani] cicisbeava in città con le dame.
Mai fu creduto il tradimento se non quando fu consumato, comeché [quantunque] ne fosse stato avvertito il Re da vari soggetti, e specialmente, come si disse, dal marchese di Gallo [Marzio Mastrilli, marchese (poi duca) di Gallo, sul Matese], l’unico dei ministri inteso in diplomatica, e di provatissima fedeltà.
Ma, ritornando al fatto, li francesi, inseguendo li nostri, spargevano da per tutto il terrore, ed appena entrati a’ confini del Regno, tutte le città e terre per cui transitarono furono ad enormissime estorsioni di contribuzioni assoggettate o al sacco, siccome per gli Abruzzi [i francesi] praticarono.
Essi [i francesi] si servivano delle seguenti manovre: ordinavano alle università l’appronto de’ viveri- e questi indeterminati di quantità [cioè ad nutum]- quando meditavano di dar il sacco a quel tale paese; quando non avevano questo pensiero, ordinavano [alle università] viveri e foraggi per il sestuplo di ciò che li [gli] occorreva, spargendo [voce] che avevano un’armata di sessantamila uomini, divisa in quattro colonne, quando in realtà non erano in tutto, che penetrarono nel Regno, che circa 18000, poiché- come mi disse Don Nicolò Buccini Capuano, console di nostra nazione in Ancona- ne completarono [furono in tutto] 23000, tra francesi, cisalpini, polacchi, ebrei e regnicoli; ma il di più [il grosso delle truppe] lo lasciarono nello Stato Pontificio.
Quindi le di loro colonne effettive, che discesero per gli Abruzzi, non erano numerose più di due in tremila combattenti, e pur domandavano per 12 e 18 mila, e corrispondentemente imponevano le contribuzioni pecuniarie, le quali veramente da niun popolo furono pagate a rigore, ma per il più con passabile transazione. Questo sì che tra 18000 soldati si contavano circa 15 generali di divisione, un numero esorbitante di chefs di battaglione, e capitani; poco mancava che fosse più numerosa l’ufficialità che la truppa.
Ora, sebben siasi detta la origine di questa invasione, accaduta per la infrazione dei patti per parte del nostro [Re] e del Re di Sardegna, operata con incredibile scaltrezza da’ massoni regnicoli confidenti del Re, nondimeno li francesi sparsero che essi si erano mossi perché il Re [di Napoli] erasi condotto a turbarli la pacifica di loro stanza in alieni Stati.
Ed è da notarsi che questa guerra fu titolata di religione, ma giammai si praticò un atto di religione; e la nostra truppa […] ebbe per suoi officiali […] tutti miscredenti e veri inimici del soldato; per cui in appresso tutta la gioventù si risolvette più tosto di essere uccisa che arrolarsi sotto la condotta di generali del Re [di Napoli]; ed altri protestarono che nel caso vi era qualche altra campagna, o sarebbero disertati, o avrebbero trucidati i capi, e li avrebbero eletti fra di loro, come poi féro [fecero] nel riacquisto del Regno [di Napoli] li calabresi [sanfedisti], li quali non vollero comandanti destinati dal Re.
Premetto, per intelligenza di quel che seguirà in appresso, che quando fu fatta la Rivoluzione in Parigi, un partito di congiurati e veri massoni, ed il più numeroso e forte, si elesse per luogo parlamentario il monastero de’ Padri Domenicani, detto in Parigi di “San Giacomo”; dove questi sostenitori della Rivoluzione si univano a consultare il politico, l’economico, il civile e il militare in quella orribilissima anarchia (che poscia soffrimmo ancor noi).
Da tal luogo questo Partito fu denominato “de’ giacobini”, e giacobini furon detti tutti li di loro seguaci.
Quindi questo nome adattossi presso tutte le nazioni, e fra noi altresì, a tutti coloro che o si dichiaravano pel sistema francese, o del genio [caratteristica propria o distintiva d’una nazione] francese si dimostravano, benché in tempo che il sistema francese dominò in Napoli, tutti si distinguevano col nome di “patriota”, restando il nome di “giacobino” per il più infame del mondo, ed il giacobinismo da’ stessi francesi abolito ed aborrito, perché sostenitore del terrorismo rivoluzionario; imperocché [poiché] quei satrapi [dei giacobini] avevano sposato la snaturata massima di inoltrar l’intento col sangue e col terrore; tanto [è] vero che, nel terzo anno della Rivoluzione, vi fu un capo di giacobini di un Partito spaventoso, di nome Jean Paul Marat- che fu causidico- il quale disse a madamigella Carlotta Corday- che poi l’uccise nel bagno- queste tremende parole: “Per rassodar la Rivoluzione mi occorrono altre duecentomila teste”. Al che la ragazza li [gli] trapassò virilmente il cuore con un colpo di stile [stiletto]. Ciò detto, in appresso usar dovendo le voci “realista” e “giacobino”, non vi sarà più equivoco per l’intelligenza delle stesse, che di sovente occorreranno nella narrativa dei seguenti fatti.
a cura di Armando Pepe
fonte
http://www.storiadellacampania.it/il-saccheggio-di-piedimonte-nel-1799