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Il sepolcro di Virgilio, un angolo di poesia di Alfredo Saccoccio

Posted by on Feb 13, 2018

Il sepolcro di Virgilio, un angolo di poesia di Alfredo Saccoccio

“La presunta tomba di Virgilio – secondo l’istrionico Alexandre Dumas padre in “Impressioni di viaggio” – è sita all’ingresso della grotta di Pozzuoli.

Al sepolcro del poeta si sale per un sentiero tutto coperto di rovi e di spine, è un rudere pittoresco sormontato da una verde quercia, le cui radici lo stringono come artigli d’aquila. Dicono che in altri tempi al posto della quercia sorgeva un lauro gigantesco che vi era nato spontaneamente. Alla morte di Dante il lauro morì; Petrarca ne piantò un secondo che visse fino a Sannazaro (1). Poi, finalmente, Casimiro Delavigne ne piantò un terzo, ma la talea non mise fuori i germogli… Non fu colpa dell’autore delle “Messéniennes”: era la terra che s’era esaurita.

Si perviene alla tomba da una scala semidistrutta, dai cui gradini spuntano grossi ciuffi di mirto; poi si oltrepassa la soglia del colombario e ci si trova nel santuario.

L’urna che conteneva le ceneri di Virgilio vi rimase – si assicura – fino al XIV secolo. Un giorno venne asportata col pretesto di metterla al sicuro: da quel giorno non è più riapparsa (2).

(1) Ma un lauro c’era ancora nel secolo XVIII. La margravia di Bayreuth, visitando la tomba, ne staccò un ramoscello e lo inviò al suo augusto germano, Federico II di Prussia, con l’accompagnamento di un epigramma di Voltaire: “Sur l’urne de Virgile un immortel laurier // de l’outrage des temps seul a su se défendre, // toujours vert et toujours entier eccetera.

(2) Secondo la tradizione, re Roberto si sarebbe fatto custode delle ceneri di Virgilio in Castelnuovo; ma l’esistenza di quei resti nel colombario di Posillipo è tutt’altro che accertata.”

Il Dumas, con un passaporto falso intestato a un certo Guichard, varcò la frontiera borbonica, accompagnato dal pittore Louis Godefroy Jadin, dall’attrice Ida Ferrier, prima amante e poi consorte dello scrittore francese, e dal cane Milord. La trovata era dovuta al fatto che l’allora giornalista aveva la nomèa di sovversivo.

A Napoli Andersen, che aveva preso alloggio in “una buffissima casa che consisteva in un numero sconfinato di stanze suddivise in piccole porzioni come un’arca di Noè”, fu attratto dalla grotta di Posillipo (“Pausilypon” è voce greca che significa “pausa dai dolori”, lenitiva di ogni dolore, libera dagli affanni, quindi dal significato salvifico, rasserenante), nelle cui vicinanze si trova la tomba di Virgilio, ombreggiata dall’alloro. “Tenet nunc Parthenope”, la sirena seducente che diede il suo nome alla città di Napoli. Qui lo scrittore, attratto dalla caverna, fece due disegni, che rappresentano le entrate alle due estremità della tenebrosa grotta, lungo il cui percorso possiamo vedere il decorativo acanto, il cespuglioso ed aromatico mirto, sacro, nell’antichità classica, a Venere, il “nocens”, l’albero delle divinità degli inferi.

La galleria, scavata nel tufo giallo, lunga 770 metri, alta da dieci a dodici piedi, denominata “Grotta di Seiano”, battezzata da Seneca “Crypta neapolitana”, fu costruita, in età augustea, da Lucio Cocceio Nerva nel 37 d. C., per volere di Marco Vipsanio Agrippa, per offrire più pronta comunicazione tra i Cumani e i Napoletani. Essa fu fatta ingrandire, nella prima metà del Cinquecento, dal viceré di Napoli, Pedro Alvarez de Toledo, marchese di Villafranca, colui che fece costruire numerose torri di avvistamento lungo le coste del vicereame. Di questa straordinaria opera di ingegneria, che vide più di centomila schiavi utilizzati nel cantiere, parla Petronio nel “Satyricon”, dove collocò le feste orgiastiche, che la trovava troppo bassa (altezza massima di metri 5,60). Nella parte occidentale di Napoli, sull’altura che divide il golfo di Napoli da quello di Pozzuoli, il mite Virgilio, come pure Cicerone, Lucullo, Vedio Pollione (nella lussuosissima villa del signore romano, amico di Augusto, che, secondo una leggenda, gettava i suoi schiavi in pasto alle murene, esistevano un anfiteatro e un “odeon”, piccolo teatro coperto, di duemila posti) ed altri famosi romani, aveva una dimora, la “villula” che il filosofo Sirone gli aveva lasciata in eredità, il cui soggiorno era stato dilettevole al poeta bucolico, in un tranquillo isolamento, alla ricerca della sapienza. Per questo, alla sua morte, il 22 settembre del 19 a. C., l’imperatore Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto ordinerà, piangendo, di eseguire la disposizione testamentaria di Virgilio: le sue ceneri siano trasportate da Brindisi, attraverso l’Appia, dove il poeta era stato colto da forti febbri, morendovi, a Napoli, proprio in cima a Posillipo, e che sulla tomba sia inciso quello che lo stesso poeta, glorificatore dell’elemento italico, di una sorgente nazionalità italiana, che nella guerra d’Azio, del 31 a. C., aveva avuto campo di affermarsi contro il pericolo orientale, aveva dettato.

Le ceneri di Virgilio, grazie al suo “santo in paradiso”, furono portate a Napoli, la “dolce Partenope”, dove aveva lungamente vissuto, soddisfatto, tranquillo, con solenne pompa, in un’interminabile processione, e furono tumulate nel sepolcro, con basamento quadrato, tutto reticolato, nel luogo denominato “Patulco”, così detto per la dea Patulci, sito alla seconda pietra miliare da Napoli. Qui il più grande poeta della latinità aveva la residenza e dove compose le “Bucoliche”, componimenti pastorali, le “Georgiche” (30 a. C.), poema diascalico rurale, e l’ “Eneide”, opera di valore universale rimasta incompiuta, per la quale il cantore dell’epopea della gente togata, padrona del mondo, aveva lavorato negli ultimi dieci anni, per dire che la signorìa romana era fatta di valore, di virtù civili e di sapienza giuridica, apportatrice di ordine, di giustizia, di benessere e di pace nel mondo, la “pax romana”, oggi di infausta memoria, instaurata al tempo di Augusto. Secondo Svetonio, l’epigrafe, incisa su due colonne bronzee, dinanzi al suo mausoleo, fu composta forse dallo stesso Augusto, che lo tenne caro, per tramandare l’opera sua. Sulla sua tomba, ombreggiata da lauri e da pampini, in piena natura, figura l’epitaffio: “Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope; cecini pascua, rura, duces” (Mantova mi generò, mi rapì la Calabria, ora mi tiene Napoli; cantai i pascoli, i campi, gli eroi). Questi versi furono scritti sotto l’ombra degli ameni faggi. Il poeta Silio Italico visitava spesso il luogo dove era seppellito Virgilio, di cui imitava lo stile e le immagini, onorato con riverenza, del quale acquistò persino la casa dove aveva vissuto. Lo scrive il letterato e avvocato latino Plinio il Giovane in una lettera (III, 7) inviata all’amico Caninio Rufo, in cui ci dà utili notizie e traccia un breve profilo della personalità di questo poeta, di cui annunzia la morte.

Virgilio fu molto caro anche a Dante Alighieri, che lo incontrò nella selva oscura, “con vergognosa fronte”, il quale provava affetto ed ammirazione per il grande poeta latino, venerato come vate della romanità e della famiglia Giulia, profeta del cristianesimo, maestro di stile e di vita, e che ne fece la guida del suo viaggio ultraterreno, attraverso il regno dell’eterna dannazione, poi attraverso quello della purgazione, e il simbolo della ragione e della sapienza umana.

Nella villa sul costone di Posillipo fu rinvenuta, nella prima metà dell’Ottocento, nel corso di alcuni scavi, la “Nereide su pistrice”, scultura in marmo bianco, di epoca imperiale. All’interno della Crypta Neapolitana, fu anche rinvenuto un bassorilievo raffigurante il dio Mithra, che attualmente si trova al Museo Nazionale di Napoli. E’ un giovane cresputo, con tunica, calzoni, mantello e berretto frigio, nell’atto di sacrificare un toro. Nella grotta si celebrava, molto probabilmente, un culto mitriaco. Petronio scrive che la caverna era consacrata, nel I secolo, a Priapo, la divinità della fertilità. Queste cerimonie misteriche notturne sfociavano spesso in baccanali e in riti orgiastici.

Lo scrittore e sociologo inglese John Ruskin in “Diario italiano” (1840-1841), il 13 febbraio 1841, si reca alla tomba di Virgilio. Riportiamo la succinta descrizione del ventunenne viaggiatore: “una grotta d’altezza davvero straordinaria. La tomba una strana casetta con il tetto piatto e dentro vasi lacrimali tutt’intorno, e un mazzo di rose, con un pezzo di mattone per sorreggerle, posato sopra la pietra”. Il drammaturgo e poeta inglese Christopher Marlowe nel 1588 scrive di aver ammirato “la tomba d’oro del sapiente Marone (Virgilio) e quella strada, lunga un miglio, ch’egli tagliò in una sola notte dentro la roccia viva”. Una leggenda, quella degli incantesimi di Virgilio, che rompe le reni e le costole del buon senso attribuiva al poeta di Andes, poi Pietole, frazione dell’odierno Comune di Virgilio, il sortilegio dello scavo della grotta in un’unica notte, fatica che rifiuterebbe persino Ercole. Lo sostenne anche Corrado di Querfurt, cancelliere dell’imperatore Arrigo VI, scrivendo all’abate di Hildesheim.Un’altra favola attribuiva a Virgilio la creazione di una statuetta bronzea raffigurante un arciere con la freccia rivolta verso il Vesuvio, per discostare le eruzioni. La credenza sulle arti magiche di Virgilio, diffusasi in età medioevale, ad opera di una importante scuola ermetica, interessata all’alchimia, fu confutata, nel 1341, da Francesco Petrarca in una lettera al sovrano di Napoli, Roberto I d’Angiò, sostenendo, invece, che la grotta fosse un luogo sacro. Nel XII secolo Rabbi Tudela considerava la galleria, tra Mergellina e Fuorigrotta, utilizzata da almeno dieci imperatori, sino ai tempi decadenti di Arcadio e di Onorio, costruita da Romolo e Remo, come difesa dall’esercito del re Davide.

La tomba attribuita a Publio Virgilio Marone dalla tradizione antiquaria del Seicento e del Settecento, forse il più venerato degli antichi monumenti di Napoli, la sua città d’elezione (il poeta, pur non cancellando mai dalla sua mente il verde Mincio, rimase attratto dalla primavera perenne, dalla luce meridiana, dalla dolcezza mediterranea della città campana, a cui era legato, anche perché è qui che la sua poesia ebbe immediatamente fortuna, più che in qualsiasi altro posto), è posta alla punta estrema di Posillipo, che sembra essere stato il sito della vecchia città, Paleopoli.

Il poeta tedesco August von Platen fa un elogio della solitaria villa Patrizi, inghirlandata di lauri e di cipressi. Egli aveva colto la bellezza del paesaggio che si poteva ammirare dal culmine della collina tufacea di Posillipo, da cui si poteva godere lo sterminato panorama del golfo di Napoli (la spiaggia di Chiaia, ormai scomparsa, il monte Echia, il Colle Ermio, l’antico “Paturcium”, con il severo castello di S. Elmo e la Certosa, il Vesuvio), ma anche, in lontananza, i Campi Flegrei, Capo Miseno, le isole di Procida e di Ischia, talvolta anche Ventotene. Alcuni compositori hanno omaggiato questo incantevole sito dedicando ad esso alcuni brani, tra cui le “Delizie di Posillipo boscarecce e marittime” di Trabaci, Sabini e Gesualdo, “La Serenata Marittima per il passaggio a Posillipo” di Alessandro Scarlatti, “La sirena del Posillipo” del compositore partenopeo Alfonso Guercia, del 1878, che sarebbe la mitica sirena Partenope, di meravigliosa bellezza, madrina di Napoli, che, nel corso dei secoli, ha esercitato – e continua ad esercitare – il suo fascino su innumerevoli ammiratori, è “Cicerenella”, conosciuta come “Tarantella di Posillipo”, di autore ignoto, “ cavallo di battaglia” dei posteggiatori. Il grande compositore tedesco Gerhard Winkler, affascinato da Posillipo, scrisse nel 1937, “O mia bella Napoli”, che riscosse grande successo in Germania e in Italia.

A Posillipo, nel secondo ventennio dell’Ottocento, al tempo in cui Napoli era una capitale a livello europeo e, per la cultura artistica, un centro internazionale, lavorò un gruppo di pittori partenopei paesaggisti, denominato “Scuola di Posillipo”, interpretando la natura con spontaneo lirismo. Era il tempo delle aiuole fiorite, curate e pettinate, una sorta di secondo miracolo di San Gennaro. Il migliore di loro, Giacinto Gigante, ha un occhio formidabile e un mestiere eccellente, sia disegnativo che pittorico. Egli sa cogliere la realtà, come vita ed ambiente, con una precisione infallibile ed insieme con un nitore, una penetrazione e un senso della rappresentazione straordinari. La sua trascrizione della realtà rende tutto come tangibile. Il Gigante portò nei suoi dipinti una ventata d’aria fresca e cristallina, una lindura d’orizzonte, catturando i momenti più fugaci, i mutamenti di luce e di atmosfera, la poesia del silenzio e della calma, che richiama la grande pittura del geniale “topografo” inglese Joseph Mallord William Turner (1775-1851), personaggio contraddittorio, pittore visionario del Sublime, dalla visione permeata di luce e di colore, che si espandono dai paesaggi e dalle vedute italiani.

Marechiaro, la spiaggia di Posillipo, è stata celebrata da Salvatore Di Giacomo, l’ultimo grande cantore di Napoli, con la famosa canzone “Marechiaro”, dalla coinvolgente musica, con la famosa finestrella di Carolina con il garofano votivo, musicata da Francesco Paolo Tosti (1846-1916), che ci fa assistere al sorgere della luna sul golfo pervaso di allegria, rotto solo dal suono della risacca e dallo stridìo di gabbiani. La collina di Posillipo, affettuosamente cantata dal poeta dialettale napoletano Ernesto Murolo in “Canta Posillipo”, 1910, è deturpata dal cemento e non è più occupata dai verdi vigneti, che producevano un vino di alta qualità, e dagli aranci.

Il poeta epico e lirico latino Publio Papinio Stazio, poeta che furoreggiava nel Basso Impero, nativo di Napoli, lodatore di Domiziano, nelle sue “Selve” aveva già descritto Napoli con amore filiale e parlato della vita cittadina; Virgilio volle esservi seppellito, nella sua villa posillipina, acquistata poi dal poeta latino Tiberio Catio Silio Italico, che, ogni anno, celebrava religiosamente l’anniversario della nascita del divino poeta. Egli   descriveva, nel poema “Punica”, il colombario romano, di età augustea, che si trovava nella sua villa, che raccoglieva le ossa del cantore immortale di questa contrada.

Giovanni Boccaccio, autore del primo, grande testo umanistico, il “Decameron”, andando ad occupare il vuoto di un’esistente classe media, vi risiedette tra gli anni Trenta e Quaranta del Trecento, mentre Francesco Petrarca, viaggiatore instancabile, che nel 1341 abitò nel convento di S. Lorenzo Maggiore, accenna, nell’ “Itinerario Syriaco”, alla grande affluenza di devoti, in particolare di marinai, che si recano all’adorazione nella chiesa della Madonna di Piedigrotta. Il cantore di Laura fu esaminato, in Castelnuovo, dal re di Napoli, Roberto I d’Angiò, detto il Saggio, prima che gli venisse conferito, nel giorno di Pasqua dello stesso anno, il lauro in Campidoglio. Pochi anni prima lo stesso sovrano aveva chiamato a Napoli Giotto per decorare la Cappella Palatina con un ciclo di affreschi ispirato ad episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento, dipinti distrutti all’epoca di Alfonso d’Aragona, dopo i danni originati dal terremoto del 1456.

Jean-Jacques Bouchard, nel marzo del 1332, conviene che non vi è al mondo un luogo più solenne e delizioso del promontorio posillipino, poiché neanche Baia “è mai giunta al lusso e alle delizie di Posillipo, neanche alla bellezza della sua posizione”. Ben lo aveva capito la regina di Napoli, Giovanna d’Angiò, che a Posillipo aveva un lussuoso palazzo, a tre piani. Alla fine del Seicento, il canonico Carlo Celano in “Notizie del bello e dell’antico e del curioso della città di Napoli” consigliava ai viaggiatori di noleggiare una barca per ammirare questa parte di Napoli: “…Pausilipo, sponda la più bella ed amena del nostro tranquillo Tirreno. Viene nominato con questa voce greca, che altro non significa che pausa alle tristezze: e veramente chi viene a diportarvisi è di bisogno che lasci ogni malinconia. Nell’estate, tutte queste rive, e particolarmente ne’ giorni di festa si vedono frequentate da conversazioni che allegramente passano l’ore con suoni, canti e pranzi; le barche che vanno giù e su sono infinite. Questa riviera poi è tutta popolata di commodi e belli casini e dilettosi giardini, che tutti hanno la salita nel monte; e benché per un gran tratto vi si può andar per terra, potranno i signori Forastieri osservarla per mare, non mancando in ogni ora barche da Mergellina”, la lucente spiaggia di Mergellina, dalle dolci falcature, dove, nel 1668, il vicerè di Napoli, Pietro d’Aragona, fece erigere un’imponente edicola per commemorare la sua attività di recupero di antiche terme.

Due tombe richiamarono l’attenzione del già citato saggista e poeta inglese Joseph Addison, l’autore di “Remarks on Several Parts of Italy in the Years 1701, 1702, 1703” (Osservazioni su parecchie parti dell’Italia): quella dell’umanista Jacopo Sannazzaro, eseguita dal frate Giovanni Angelo Montorsoli, e quella di Virgilio, unendo, oltre le frontiere del tempo, in una sorta di dialogo, i grandi poeti. La chiesetta di Santa Maria del Parto (luogo di preghiera per le donne in dolce attesa o per quelle che desideravano avere un figlio), in cui la prima è posta e che il Sannazzaro donò ai Servi di Maria, insieme alla vasta proprietà di Mergellina, dove scrisse le “Ecloghe Pescatorie” e dove morì nel 1530, rievoca alla memoria il poema “De partu Virginis”. Il Sannazzaro, buon latinista, denominato nell’accademia del Pontano “Actius Sincerus”, era caldo ammiratore di Virgilio. Qui l’Addison contempla con diletto le splendide statue di Apollo e di Minerva, che sono ai lati del sepolcro, oltre al rilievo rappresentante Nettuno in mezzo a satiri e a ninfe. In quanto alla tomba di Virgilio, egli sostiene, con acume critico del tutto moderno, che non è la vera, come crede il volgo. Non la pensa così il suo connazionale Christopher Marlowe, drammaturgo e poeta, che nel 1588 scriveva: “Qui abbiamo ammirato la tomba del sapiente Marone (Virgilio) e quella strada, lunga un miglio, ch’egli tagliò in una sola notte dentro la roccia viva”.

Concluse la sua vita a Posillipo anche Jusepe de Ribera, detto “lo Spagnoletto”, uno dei maggiori protagonisti della pittura europea del Seicento essendosi trasferito dalla Spagna a Napoli nel 1620, trovando nella città partenopea un terreno fertile per la sua vena naturalistica ed incontrando il successo in quell’ambiente spagnolizzato, tanto che il viceré, duca de Osuna, lo nominò pittore di camera. A Napoli condusse vita brillante e dispendiosa, fino a quando la sua malferma salute costrinse il pittore valenzano ad un’esistenza più stentata. Vi morì nel 1652 e venne seppellito nella chiesetta di Santa Maria del Parto. Anche il filosofo e uomo politico Francesco Paolo Bozzelli, compilatore della Costituzione del Regno di Napoli, promulgata il 10 febbraio del 1848, vi terminò la travagliata esistenza, imprigionato e proscritto più volte, per la sua partecipazione attiva ai moti rivoluzionarii del Risorgimento. Rammentiamo che in un vicoletto di via Posillipo, che si insinua nel costone posillipino, c’era l’abitazione del regista, attore drammatico e commediografo Eduardo De Filippo, l’anima di Partenope, una delle voci più importanti e stimate sulle scene contemporanee di tutto il mondo, con un giardinetto ed un terrazzino proteso sul mare.

La scrittrice romana Elisabetta Rasy pubblicò il suo sesto romanzo per Rizzoli, dal titolo “Posillipo”, raccontando la Napoli che conobbe da bambina. Ella andò, con un motoscafo, dal molo di Mergellina a Procida, passando lungo la costa di Posillipo, mirando l’azzurro del mare, un luogo deputato, da sempre, dalla leggenda alla poesia, alle canzoni, alla bellezza dell’amore e del dolore. La sua è una delicata evocazione memoriale di un’infanzia napoletana nel dopoguerra, divisa tra immaginario e realismo.

In un appartamento di Posillipo lo storico dei Borbone, Harold Acton, scrisse “I Borboni di Napoli”, un’opera poderosa, monumentale, condotta con molta serietà, su una dinastia tanto vilipesa, ma riabilitata dall’inglese di nazionalità, ma napoletano di cuore. Il lavoro, in due volumi, è un vero e proprio capolavoro, di altissimo valore letterario, ricco di una irrefutabile documentazione.

Da ricordare il soggiorno napoletano dello scrittore inglese Norman Douglas, che comprò, nel 1897, una villa sulla punta di Posillipo, alla Gaiola, a cui dette il nome di villa Maya, dove ospitò la regina Margherita. Cees Nooteboom, un grande appassionato dell’Italia, visitò le tombe di Virgilio e di Leopardi, descrivendole così nel libro “Tumbas”: “Alloro, ginestre, oleandri, in lontananza il mare e il vulcano. Arrampicandosi su per la roccia si ha per un attimo l’idea dell’Italia antica. Anche qui c’è rumore, ma i due poeti giacciono insieme in una piccola enclave in mezzo al frastuono del mondo”.

A Posillipo, a Villa del Giudice, l’attuale Villa Bracale, trascorse, nell’ottobre del 1897, uno dei periodi più travagliati della sua vita Oscar Wilde, un uomo che aveva vissuto gli splendori e le infime miserie della terrena esistenza. Qui scoprì che il suo domestico gli aveva rubato tutti i vestiti. Egli lasciò scritto di Napoli: “è una città malvagia e lussuriosa” e “La gente è molto sleale a maltrattarmi per via di Bosie”. La stessa Matilde Serao, che disapprovò la sua condotta: “E’ nascosto tra noi quell’infelice, reso celebre nel mondo per gli immondi errori…”, protestando, però, perché lo stesso, “calamità e flagello”, “ha diritto di chiedere mercé e discrezione, dappoiché anche ai grandi colpevoli condannati al capestro è consentito questo diritto”.

Alfredo Saccoccio

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