Il Sud contro i «piemontesi»: brigantaggio o resistenza?
Ho letto la sua risposta a
proposito del Mezzogiorno e non capisco perché lei si ostini a
dare ancora valore alla favola risorgimentale. Ritengo estremamente
puerile non voler considerare il «brigantaggio» come una
lotta di resistenza contro l’invasione piemontese (prima non esisteva
brigantaggio) e, soprattutto, non voler considerare che fu proprio
questa invasione l’origine della «questione meridionale».
Antonio Pagano,
Torri di Quartesolo (Vi),
Caro Pagano,
La sua lettera (troppo lunga, purtroppo, per essere pubblicata interamente) contiene altre considerazioni sulla politica meridionale dei governi italiani, ma il tema del brigantaggio merita d’essere considerato separatamente. Lei sostiene che prima dell’«invasione piemontese » esso non esisteva.
Main un vecchio libro di Ernesto Nathan (sindaco di Roma dal 1907 al
1913) ho trovato un passaggio delle memorie d’infanzia di un uomo
politico che era stato sindaco di Cortale in Calabria all’epoca dei
Borbone.
Dopo avere ricordato che la posta arrivava generalmente ogni due
settimane perché i briganti svaligiavano il procaccia «una
volta sì e una volta no», l’ex sindaco scrive.
«Se di notte babbo e mamma confabulavano, quasi cospirassero, era segno, ricordo, di vicino viaggio. E a mezzanotte si mandavano a chiamare gli armigeri (la necessaria scorta di fedeli ora scomparsa); caricavano e scaricavano i fucili, si somministrava loro una misurata dose di acquavite, tutto s’allestiva nel silenzio e nelmistero e si partiva, a cavallo s’intende, appena apparivano i primi chiarori dell’alba. Se la meta era Catanzaro, si pigliava la via di Nicastro, poi ad un certo punto si cambiava rotta per depistare possibili assalitori; ed in ordine sparso, mandando avanti gli esploratori, fra tattica e strategia, si mettevano giornate intere per arrivare là dove con un legnetto si giunge in poche ore (…). Chi doveva recarsi a Napoli non partiva senza prima fare testamento; chi aveva oltrepassato il faro di Messina s’acquistava tale fama in paese da convertire la sua saliva in specifico per la guarigione degli eczemi».
Il fenomeno contro cui le truppe italiane dovettero battersi dopo il
collasso del Regno delle Due Sicilie fu certamente più
complesso: molti briganti, ma anche numerosi sbandati dell’esercito
borbonico e persino un certo numero di volontari stranieri, soprattutto
francesi e spagnoli, giunti nel Mezzogiorno per difendere la causa del
legittimismo contro il sacrilego e «massonico» Regno
d’Italia. Il più coraggioso e sfortunato fu un ufficiale
spagnolo, José Borjés, che aveva combattuto con i
carlisti nella guerra civile spagnola e sbarcò in Calabria per
suscitare una grande rivolta popolare contro gli occupanti.
Fu un Che Guevara del XIX secolo e non ebbe migliore fortuna del medico
argentino amico di Castro. Il capo dei briganti nella zona era Carmine
Crocco, prima detenuto nelle carceri borboniche, poi volontario con
Garibaldi e infine capobanda nelle file della «controrivoluzione
borbonica ».
Crocco negò a Borjés il suo aiuto e lo costrinse a
fuggire con i suoi uomini verso gli Stati del Papa. Ma nei pressi della
frontiera lo spagnolo s’imbatté in un distaccamento di
bersaglieri. Combatté, fu catturato e, poche ore dopo, passato
per le armi con i suoi compagni. A un tenente italiano che lo scortava
disse: «Andavo a dire al re Francesco II che non vi hanno
chemiserabili e scellerati per difenderlo, che Crocco è un
sacripante e Langleis (un legittimista francese, ndr) è un
bruto».
La tesi secondo cui i briganti sarebbero stati militanti d’una lotta di
liberazione nacque in ambienti antirisorgimentali prevalentemente
marxisti. Un grande storico inglese Eric Hobsbawm sostenne in uno dei
suoi libri («I banditi», pubblicato da Einaudi nel 1971))
che il banditismo può essere il primo stadio di una rivolta
politico- sociale. Le ricordo, caro Pagano, che questa tesi, con minore
finezza, fu sostenuta dalle Brigate Rosse e da altri gruppi negli anni
in cui cercavano di reclutare nelle carceri i loro seguaci.
Sergio Romano
Fonte: https://www.corriere.it – Lettere al Corriere – risponde Sergio Romano