Alta Terra di Lavoro

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IL SUD DOPO L’UNITA’ D’ITALIA -UNA STORIA CHE NON FU

Posted by on Ott 10, 2020

IL SUD DOPO L’UNITA’ D’ITALIA -UNA STORIA CHE NON FU

La politica economico-sociale nel meridione del nuovo stato italiano dopo
la conquista dei territori borbonici. Fu colonialista il regno venuto dal nord?

Una storia che non fu. Un’espressione adatta a definire la storia negata del Sud Italia. Si può affermare che i governi “nordisti” hanno praticato il “colonialismo in casa?” Noi vogliamo andare oltre, scoprire quanto questa politica ha ritardato lo sviluppo del Meridione, il senso più nascosto di questo tema che gli studiosi ed i politici italiani scoprono e denunciano, e poi, subito dopo, dimenticano, rilanciano, per poi tornare a dimenticare.

L’economia del Sud è stata sempre una forma di pura sopravvivenza, è stata tagliata fuori dai ritmi e dai livelli del mercato comune nazionale ed europeo. È sempre stata convinzione comune che il problema del Sud fosse un problema locale e settoriale, una questione straordinaria e territorialmente circoscritta, come se il Mezzogiorno fosse una riserva indiana. In realtà è un problema centrale di indirizzo, di orientamento politico ed economico fondamentale dello Stato.

Al fine di chiarire i punti citati è necessario un excursus storico della situazione socio – economico – industriale negli ultimi anni del Regno delle Due Sicilie per poi affrontare il tema delle varie politiche economico – sociali dello Stato italiano nel Meridione dopo l’unificazione. I problemi del Mezzogiorno erano quelli della ristrettezza economica, della staticità delle strutture burocratiche e ministeriali, del protezionismo e del fiscalismo, che non agevolarono certo la formazione di vasti ceti imprenditoriali moderni, come anche non permisero di assimilare e tradurre in atto i progetti dei riformatori: caratteristiche che assunsero forme ancora più gravi ed acute quando il confronto si fece con le aree del Nord e con le leggi dello Stato post – unitario.
A questo punto il problema dei problemi divenne politico, perché investiva la responsabilità dell’intera classe politica nazionale, i suoi governi ed il Parlamento. Il Sud borbonico era un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l’estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il più avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera.

Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento di industrie, le quali erano sufficientemente grandi e diffuse. Il sistema economico del Regno delle Due Sicilie era basato, analogamente a quello degli altri Stati italiani, sul settore primario. Il settore agricolo era infatti la fonte più importante e in talune zone l’unica fonte di lavoro e di ricchezza. Il sistema produttivo del Regno delle Due Sicilie era costituito precedentemente da imprese di medie e piccole dimensioni; tra queste svettava per il numero di occupati quella delle costruzioni, seguita da quella tessile e da quella alimentare.
L’industria siderurgica e metallurgica era il settore più prestigioso e tali imprese erano specializzate nella fornitura di materiali ferroviari all’esercito ed alla marina militare e mercantile. L’industria tessile si suddivideva tra il comparto della seta, del cotone e della lana.

Il sistema tributario, elaborato e supervisionato da Luigi de’ Medici, era poggiato principalmente sul connubio tra Imposte Dirette e Imposte Indirette sui consumi; queste ultime fondate quasi esclusivamente sui Dazi. Minore importanza avevano le imposte indirette sui trasferimenti di ricchezza, quali l’imposta di registro e di bollo.
Negli ultimi anni pre-unitari si andò accentuando la tendenza del governo borbonico a favorire la capitale e le zone vicino a scapito del resto del Regno, quasi i due terzi delle spese statali, provinciali e comunali per le opere pubbliche venivano assorbite da Napoli e dalla provincia di Terra di Lavoro. Vi era una sola banca, il Banco delle Due Sicilie per i domini al di qua del Faro, con una sola succursale a Bari.
In Campania si concentrarono le linee ferroviarie costruite prima del 1848 (Napoli-Torre Annunziata-Castellamare e Napoli-Caserta-Capua), mentre altre erano in costruzione: la Torre Annunziata-Salerno e la Capua-Ceprano; da non dimenticare che la prima linea ferroviaria è datata 1839 ed è la Napoli-Portici.

L’ultimo decennio borbonico si svolge in una capitale assonnata, priva dei suoi figli migliori, dominata dalla polizia regia, non più amata dal sovrano i cui fratelli, compreso il liberaleggiante Leopoldo, non danno esempi di buona vita, imperanti i rancori, i sospetti, le denunzie. Ma le province sono meno inerti e si preparano in gran segreto, i grandi esuli collaborano al piano unitario che Cavour va pazientemente intessendo; altri diffondono il verbo mazziniano.
Nel 1859 muore Ferdinando II e gli succede Francesco II; la favolosa impresa dei Mille conclude il suo iter il 7 settembre 1860, quando Garibaldi entra trionfalmente a Napoli senza colpo ferire, proclamando l’annessione della città al regno sabaudo ed il prossimo plebiscito d’approvazione (1).
Dopo un’accanita resistenza di mesi, l’ultimo Borbone si arrende e, nel 1861, lascia per sempre il suo regno.

Il 1860 rappresenta per il Mezzogiorno d’Italia uno spartiacque storico. Il vecchio mondo borbonico, con le sue tradizioni e consuetudini, lascia il passo a nuovi uomini e nuove culture. Al di là dell’inevitabile retorica, il passaggio è traumatico. Sulle rovine dell’antico regime si impone uno Stato unitario e centralista, relativamente moderno, ma culturalmente distante dalla realtà del Sud Italia.
Nel 1860 la società meridionale viene incorporata in un sistema più ampio, nel quale erano presenti i germi di uno sviluppo capitalistico e di una trasformazione della monarchia amministrativa in un regime liberale – cioè i germi di un “altro” modello di sviluppo – e ciò determina la subordinazione economica e politica del Sud nei confronti delle altre parti d’Italia, anche a causa della <> denunciata dal giurista Pasquale Stanislao Mancini (1817/1888), che aveva prodotto <>.

Duro il trapasso, duro l’inizio del nuovo regime. Già è difficile assuefarsi di colpo alla libertà, già è difficile osservare i doveri che essa comporta, ma per il Meridione la cosa era più grave, in quanto le libere istituzioni venivano ad applicarsi in un’area e ad un popolo da secoli abituati ad un’amministrazione paternalistica ed autoritaria insieme, al timore ed all’inosservanza delle leggi e dei regolamenti.
Intanto le prime elezioni del 1861 videro il trionfo della linea cavouriana ed il progressivo allontanamento dai luoghi decisionali della sinistra costituzionale: si aprì così per il Meridione un periodo di profondi travagli. Sicuramente la rivoluzione industriale nacque in Italia con forti ritardi e condizionamenti. L’economia italiana, infatti, al compimento dell’unità nazionale, era basata su attività agricole di tipo tradizionale. La mancanza di unità politica, la carenza di materie prime, di grandi capitali disponibili per gli investimenti necessari e di adeguate infrastrutture ( rete stradale e ferroviaria, sistema dei trasporti, ecc…) avevano ostacolato il formarsi di un apparato industriale moderno.

L’inizio dello sviluppo industriale italiano toccò solo alcune zone e non conobbe una diffusione uniforme; avvenne soprattutto nei settori tessile ed alimentare, che richiedevano tecnologie non molto avanzate, una forte utilizzazione della forza – lavoro e la possibilità di sfruttare forme di energia naturale come quella idrica. Solo in seguito si svilupperanno altri settori, come quello metallurgico, meccanico e chimico, in seguito alla svolta impressa dall’utilizzo dell’elettricità nel progresso dell’industria. La sua introduzione fu un fattore che rese competitive le nostre fabbriche con quelle degli altri paesi europei. Non possiamo, però, dimenticare che il processo industriale al Nord fu favorito dal sistema delle comunicazioni, che avvicinò ulteriormente il Piemonte, la Lombardia ed il Veneto ai mercati di sbocco.

Già negli anni Ottanta del XIX secolo l’intera valle del Po costituiva il polmone dell’industria manifatturiera nazionale e, attorno agli anni Novanta, in Italia del Nord la grande industria meccanica aveva fatto salti da gigante.
Questo balzo in avanti non si spiega ancora senza tenere conto di un altro importante fattore, quello politico, che è rappresentato, nel periodo crispino, dalle finalità dello Stato nazionale, impegnato a conseguire un livello di grande potenza, finalità che non sarebbe stata possibile conseguire senza l’introduzione di una siderurgia pubblica, senza l’incremento delle spese militari e la costruzione di fabbriche d’armi, senza il potenziamento delle infrastrutture, senza il rafforzamento della finanza attraverso la fondazione della Banca Commerciale e del Credito Italiano, per iniziativa delle grandi banche tedesche. Necessariamente anche la composizione del capitale cambiò: quello fisso (le macchine) assunse un peso più decisivo nei nuovi settori della produzione industriale.

In breve, all’origine del grande balzo economico del Nord è un complesso di fattori che non sono solo riferibili alle condizioni economiche locali, più o meno favorevoli, ma anche a certe scelte politiche fondamentali, che indubbiamente avvantaggiarono le aree potenzialmente più promettenti e socialmente avanzate, che erano quelle settentrionali del famoso triangolo industriale (Milano – Torino – Genova).

Potremmo sintetizzare in questi termini l’arretratezza del Mezzogiorno rispetto all’economia lombarda e piemontese: agricoltura latifondista e piccola proprietà contadina frammentata, commercio agricolo molto scarso e, peraltro, nelle mani di grossi mercanti, che speculavano soprattutto sul grano. Solo alcune zone producevano per il mercato, perlopiù quelle che avevano sbocco al mare. Le zone più interne, sprovviste di un efficiente sistema viario, erano appena in grado di produrre per i propri consumi. Se si confronta il Mezzogiorno con la situazione del Nord, ci si può rendere conto di come, nel caso di quest’ultima, la vicinanza dei mercati centroeuropei abbia facilitato il più rapido progresso dei commerci e l’accumulazione della ricchezza.

Sicuramente va anche considerata la politica dei governi borbonici (costantemente in apprensione per lo spettro delle carestie e delle ribellioni del popolo), che si era sempre preoccupata di mantenere basso il prezzo del grano e dei generi alimentari, non favorendo l’esportazione.
Il settore rispetto al quale i governi “unitari” succedutisi dopo l’eliminazione del Regno delle Due Sicilie hanno fatto sentire maggiormente i loro effetti negativi è proprio quello industriale, abbastanza discreto a livello produttivo prima dell’Unificazione.
Nella politica economica successiva alla conquista del 1860 manca una strategia capace di rendere più moderni i modi di produzione e di allargare i mercati dei settori artigianali e domestici. Mancano anche interventi finalizzati al mantenimento di quelle condizioni che avevano favorito la localizzazione dei settori dell’industria moderna nel Meridione. I motivi veri dell’enorme divario tra Nord e Sud sono da ricercare in diversi fattori che vanno oltre le affermazioni di Benedetto Croce che ne attribuisce le cause alle strutture istituzionali ed organizzative; oppure di Antonio Gramsci che, comunque, concorda col Croce sulla diversità organizzativa delle città e dei centri urbani nel Nord ed il sistema feudale del Sud. Effettivamente l’Italia unita segnò, in altri termini, il trionfo di una proprietà di “parvenus” emersi in seguito alla lenta erosione giuridica ed al ridimensionamento economico dell’eredità feudale del Medio Evo perseguiti ininterrottamente nelle Due Sicilie dal 1734 in poi.

Si trattava di piccoli borghesi avidi e senza tradizioni cui i governi francesi di occupazione spalancarono le porte nel 1806, con il pretesto delle leggi eversive della feudalità, e che costituirono la quinta colonna su cui poterono fare affidamento i registi che, da Torino, telecomandarono prima la spedizione dei Mille e poi l’invasione piemontese. L’unico scopo di questa classe fu quello di sottrarre la maggiore quantità di prodotti a contadini sempre più declassati ed impoveriti. È stato affermato, non a torto, che questa borghesia rapace ed opportunista, spina nel fianco dei governi borbonici e trionfatrice dopo l’annessione, non gestì la terra, ma organizzò il saccheggio sistematico delle risorse naturali del Sud, impadronendosi delle terre di uso comune. Lo fece attraverso l’oppressione sistematica dei contadini ormai disarticolati e costretti a lavorare di zappa frammenti di terra diversi ogni anno, senza alcuna possibilità di organizzare la propria attività produttiva. Altre cause di differenziazione vanno ricercate nella morfologia del suolo e del clima, secco, arido e privo di minerali per il Sud; la distanza dai mercati europei, nonché dai luoghi che avevano iniziato la rivoluzione industriale. Queste differenze non fecero altro che accelerare l’evoluzione del Settentrione, a fronte di un forte ritardo del Meridione; si verificò quello che alcuni chiamarono effetto cumulativo del processo di crescita e che portò ad uno sviluppo del tipo “Gesellschaft” ( evoluzione rapporti sociali e propensione al mutamento) al Nord e “Gemeinschaft” ( organizzazione familiare dominata da costumi e tradizioni) al Sud (2). Se poi a questo si aggiunge la politica di governo, nel decennio 1878/1887, con l’aumento tariffario che, aumentando i dazi su grano e beni industriali, significò per il Sud la chiusura dei mercati esteri (Francia in particolare), allora ecco che si spiega il fallimento del Meridione. Al Sud non si era verificato alcun processo di sviluppo agrario, anche grazie agli accordi intercorsi tra Cavour e la borghesia terriera meridionale.
Sta di fatto che, dopo il 1861, dopo l’unione forzata in un “grande Stato”, di fronte alla spoliazione economica cinicamente progettata dai gruppi di potere che sponsorizzavano il nuovo governo “unitario” di Torino, alle masse popolari del Sud non restò altro che la strada della resistenza armata che gli storici del nuovo regime chiamarono “brigantaggio”. Si trattò, in realtà, di una feroce guerra civile durata quasi un quindicennio, che provocò migliaia di morti e decine di migliaia di carcerazioni.

Nel 1861 Diomede Pantaleone scrisse a Minghetti: <<>>. Quando questa eroica resistenza fu piegata in un mare di sangue e di inaudite sofferenze, alla sconfitta militare e politica i diseredati meridionali, privati violentemente delle non infondate speranze di sviluppo costruite pazientemente per decenni dai governi delle Due Sicilie, risposero con l’emigrazione di massa, che dette il colpo fondamentale anche per la conseguente crescita di una massa inattiva che viveva sulle rimesse e sui pochissimi lavoratori rimasti. Tutto questo portò all’enunciazione dell’economista classico-liberal americano G. Hildebrand: << …in mancanza di un drastico intervento dello Stato, il Mezzogiorno era condannato fin dall’inizio; incapace com’era di difendersi, poteva solo tentare di diminuire in qualche modo l’enorme divario che lo separava dal Nord più fortunato>>.

Riassumendo, dopo l’Unità d’Italia, la divaricazione fra Nord e Sud era data essenzialmente dalla diversità dei quadri sociali ed economici che, mentre nel Settentrione avevano assunto già una configurazione di tipo capitalistico, nel Meridione si erano fermati ad uno stadio precapitalistico di tipo feudale caratterizzato da una tendenza conservatrice e di gretto immobilismo negli alti gradi della borghesia. Il ceto medio meridionale, inoltre, a differenza di quello settentrionale, era subordinato all’aristocrazia nobiliare e, quindi, incapace di poter assurgere al rango di nucleo propulsore dello sviluppo e dell’indispensabile processo di rinnovamento.
La politica adottata dalla classe dirigente post-unitaria non solo ignorò, di fatto, il problema del divario sorto con l’unificazione, ma lo accentuò mettendo in crisi l’iniziativa industriale del Sud già esistente, come nel caso dell’unificazione dei sistemi finanziari e del nuovo sistema tributario.
Nel prelievo fiscale, infatti, nella seconda metà dello ‘800 si realizza una forte sperequazione Nord e Sud, soprattutto per quel che riguarda la spesa pubblica. Nello stesso periodo, inoltre, si realizzava il trasferimento verso il Nord di notevoli mezzi finanziari dal Meridione per sanare il deficit pubblico del Piemonte, rilevante a causa delle guerre sostenute e dal continuo potenziamento dell’esercito.
Per il Sud, così, si veniva a creare una situazione di sudditanza finanziaria che, oltre a mortificare gli slanci imprenditoriali, ne impediva lo sviluppo. Le industrie esistenti nel Regno delle Due Sicilie, in modo particolare quelle napoletane e salernitane, operanti nel campo meccanico, siderurgico e della lavorazione di lino e canapa, denotavano una certa vitalità e prosperità, anche se la loro attività era protetta dalle tariffe doganali borboniche e da una forte domanda dello Stato stesso.

Il più moderno nucleo industriale del settore tessile era ubicato in Campania, avente come base la direttrice geografica Napoli – Salerno. In quest’area, quasi tutta nelle mani di imprenditori svizzeri, la filatura meccanica era tecnologicamente avanzatissima. Il ramo metalmeccanico costituiva l’altro punto di forza dell’industria meridionale post-unitaria, anche se era totalmente affidata alla gestione pubblica o esercitata da abili imprenditori e tecnici inglesi, come Thomas Richard Guppy e John Pattison. Va detto, tuttavia, che la lavorazione dei metalli era più o meno praticata in tutto il Mezzogiorno, dove esistevano nuclei di piccole officine e ferriere, addette, per lo più, alla produzione di meccanica varia e di utensili correnti. Non trascurabile la lavorazione del vetro e del cristallo, nonché la produzione di carta.

Con il passare degli anni, in particolare, nel penultimo decennio del secolo, la situazione divenne disastrosa.
Crollarono diversi istituti di credito e l’industria si trovò in grandi difficoltà. La grande industria metalmeccanica soffriva di crisi produttive crescenti con l’affievolirsi della politica espansionistica di Crispi; i nuclei di industria tessile e della carta non avevano esteso i propri traffici, occupando un numero di addetti non superiore a quello del periodo borbonico. Anche per quel che riguarda le società per azioni, il divario fra Nord e Sud si allargava sempre di più. Nel 1865 l’87,1% del capitale delle società per azioni era concentrato nel Nord – Ovest, il 2,2% nel Nord – Est, il 6,5% nel Centro ed il 4,2% nel Sud.

* Credo non ci sia conclusione migliore che riportare il pensiero di uno storico del “nostro Mezzogiorno”, come amava definirsi, di uno storico della crisi del Meridione, questa crisi di oggi e di ieri, che viene comunemente definita “questione meridionale”, Gabriele De Rosa: <<>>.
De Rosa immaginava il corso di un’altra storia per il Sud, una storia che non fu: <>>. Ma questa storia ideale e sognata non fu e, in luogo di essa, invece, fu << una storia irreale e violenta, dettata ed imposta dalle leggi del mercato più forte, dalle leggi del protezionismo di ferro, usuraio e sfruttatore, applicato con la prassi del più sconcio trasformismo clientelare, a servizio di uno sviluppo capitalistico pressoché uniforme al Nord, a singhiozzo alle isole ed al Sud (3).

STEFANIA MAFFEO

NOTE
1 – Il plebiscito sarà effettuato il 21 ottobre 1861, cui seguì l’entrata di Vittorio Emanuele il 7 novembre.
2 – La notizia è stata attinta da un sito: www.lastoriadinapoli.it.
3 – I brani di De Rosa sono tratti da un saggio di Bruno Gatta pubblicato sulla rivista bimestrale promossa dall’Assessorato per il Turismo della Regione Campania, a cura degli Enti Provinciali per il Turismo di Avellino, Benevento, Caserta, Napoli e Salerno, “Civiltà della Campania”, N°.1, dicembre 1974, in occasione del conferimento del “Premio Padula”, assegnato all’antologia storica dei meridionalisti di due secoli, pubblicata dall’editore napoletano Guida e curata da Gabriele De Rosa ed Antonio Cestaro, dal titolo “Territorio e società nella storia del Mezzogiorno”.

fonte

http://pedritoya.blogspot.com/2008/

1 Comment

  1. Altro che non storia! Qui ci sono le cause e gli effetti della crisi del Meridione. Un popolo tradito da un piccolo gruppo di rapaci borghesi che per ottenere per se i beni feudali (demanio) ed ecclesiastici si vendettero prima ai francesi e poi ai piemontesi, gettando nella indigenza più assoluta tutto il restante 99% del popolo meridionale. Con l’appoggio determinante dei rappresentanti politici scelti dai Savoia!

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