Il sud era ricco prima dell’Unità d’Italia, di Angela Pellicciari
Sul Sole 24 ore di domenica campeggiava un titolo cubitale: “Il debito? Nasce con l’unità d’Italia”. Dino Pesole riportava un’erudita citazione del ministro delle finanze Bastogi che, nel 1861, aveva deciso di “incorporare tutti i debiti dei sette ex Stati confluiti nella nuova entità territoriale”.Sarà il solleone, sarà che parlare di unità d’Italia è ancora, dopo un secolo e mezzo, di stretta attualità, fatto sta che quando si tratta di Risorgimento lo si fa sempre a prescindere dai fatti, limitandosi alle belle parole. In questo caso no. Il Sole punta il dito sull’unità italiana per addebitarle la piaga del debito pubblico.
Peccato che l’analisi sia imprecisa. Andrebbe corretta come segue: “Il debito? Nasce col Regno di Sardegna, nella sua fase liberale”.
In un intervento alla Camera del primo luglio 1850, quando ancora la sua carriera di ministro non è cominciata, Cavour descrive con franchezza la pensosa situazione finanziaria del regno sardo: “Io so quant’altri che, continuando nella via che abbiamo seguito da due anni, noi andremo difilati al fallimento, e che continuando ad aumentare le gravezze, dopo pochissimi anni saremo nell’impossibilità di contrarre nuovi prestiti e di soddisfare agli antichi”.Divenuto Cavour ministro delle finanze del governo D’Azeglio e, successivamente, primo ministro, la situazione non migliora. Basti considerare che, mentre nei 34 anni che vanno dalla caduta di Napoleone al 1848 il Regno di Sardegna accumula 135 milioni di debiti, in soli 12 anni, dal 1848 al 1860, ne totalizza oltre un miliardo. Per l’esattezza 1.024.970.595 lire.Tanto è drammatica la situazione economica del regno sardo che Pier Carlo Boggio, mandando alle stampe nell’aprile del 1859 il pamphlet Fra un mese, scrive: “La pace ora significherebbe per il Piemonte la riazione e la bancarotta”. Boggio non è un personaggio qualsiasi. Uomo politico di prim’ordine, liberale, massone, illustre intellettuale, Boggio è autore di un libro che fa tuttora testo: La Chiesa e lo Stato in Piemonte dal 1000 al 1854. A quanto Boggio scrive si può dare credito. Ebbene nel 1859 Boggio è preoccupato. Perché è alle viste la guerra contro l’Austria? Tutt’altro. Perché quella guerra, tanto agognata, rischia di non scoppiare. Ma se la guerra non scoppia per il Piemonte è la fine: è la bancarotta.Se la guerra non scoppia e la conquista degli stati italiani non avviene, il Risorgimento va in frantumi e trascina con sé nella rovina il Regno di Sardegna che su quel mito ha costruito la propria identità. Ecco cosa scrive Boggio: “La politica del Piemonte in questi anni sarà detta savia, generosa e forte – o improvvida, avventata e temeraria, secondoché ora avremo guerra o pace […] Il Piemonte accrebbe di ben cinquecento milioni il suo debito pubblico: il Piemonte falsò le basi normali del suo bilancio passivo; il Piemonte spostò la propria azione dal suo centro primitivo; il Piemonte impresse a sé medesimo un impulso estraneo alla sua orbita naturale; il Piemonte arrischiò a più riprese le sue istituzioni; il Piemonte sacrificò le vite di numerosi suoi figli, sempre in vista della gloriosa meta che si è proposto: il Riscatto d’Italia”Se il “riscatto d’Italia”, di cui parla Boggio, è certamente stato il “riscatto” del Piemonte, altrettanto non si può dire dell’Italia meridionale.Le finanze borboniche al momento della conquista godevano di splendida salute. L’Archivio economico dell’unificazione italiana, pubblicato nel 1956, documenta come nel quinquennio 1854-58, ad un disavanzo complessivo previsto in 18.192.000 ducati, corrispondesse un disavanzo di soli 5.961.000 ducati. Un quarto meno della somma preventivata.Come i disavanzi, “anche gli introiti presunti erano generalmente inferiori a quelli effettivamente realizzati. Ciò accadeva perché i bilanci preventivi venivano compilati con grande circospezione”. Il confronto col Regno delle Due Sicilie è perdente anche sull’insieme della politica fiscale: mentre a Napoli non si pagano tasse di successione, in Piemonte queste arrivano al 10% nel caso di estranei, al 5% nel caso di fratelli, all’1% in quello dei figli. Mentre a Napoli non si pagano tasse sugli atti delle società per azioni e su quelli degli istituti di credito, in Piemonte sì.A Napoli, ricorda don Margotti (l’inventore del motto: né eletti né elettori che si trasformerà nel non expedit di Pio IX), “il debito pubblico è minimo, e le cartelle appartengono quasi esclusivamente ai regnicoli. L’imposta fondiaria a Napoli è dolcissima”, la Sicilia è “esente dalla leva militare, che è un’imposta di sangue, dall’imposta sul sale, e dal monopolio del tabacco”.Potremmo continuare. Forse, invece di piangere sulla supposta celebrazione in sordina dei centocinquanta anni dell’unità d’Italia, faremmo bene a ricordare come davvero sono andate le cose.
Angela Pellicciari