Alta Terra di Lavoro

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IL SUICIDA PIER DELLE VIGNE

Posted by on Dic 12, 2020

IL SUICIDA PIER DELLE VIGNE

I critici sono unanimi nel ritenere che nel Canto XIII dell’Inferno Dante si sia parzialmente identificato con Pier delle Vigne, avendo entrambi provato drammatiche conseguenze a causa dell’ingiustizia degli uomini, e nutrito fiducia e lealtà nella figura della suprema autorità imperiale, ed essendo state vittime di malevola invidia.

Questo almeno stando a quando ci ha tramandato lo stesso Dante, sia su di sé che sullo stesso Piero (o Pietro). E siccome Dante viene considerato uno dei più grandi intellettuali che l’Italia abbia mai avuto, si tende, inevitabilmente, a prendere per buone le sue osservazioni, o comunque a chiudere un occhio quando non sono storicamente fondate.

Dunque perché non mettere quest’anima in purgatorio, visto che l’estremo gesto l’aveva compiuto per qualcosa ch’egli riteneva assolutamente infamante per la propria persona? Dante non ha forse messo Catone Uticense a custode del purgatorio, nonostante fosse pagano, anticesariano e suicida (mentre invece il suicida Seneca ha deciso di metterlo nel Limbo)? E Didone la suicida, non l’ha forse messa tra i lussuriosi, a soffrire infinitamente di meno? E nel Canto XVII del Purgatorio non vede forse Amata, madre di Lavinia, suicidatasi per la rabbia provocatale dalla morte del marito Turno e dal fatto che quindi la figlia dovrà sposare Enea?

Forse qui è bene ricordare che ai suicidi la chiesa romana ha negato la sepoltura sino al Concilio Vaticano II: poteva il «cattolico» Dante agire diversamente? Invece di chiederci quali possano essere state le motivazioni «teologiche» che l’hanno indotto a compiere questa scelta (che, generalmente, come tante altre nella Commedia, appare piuttosto scontata e, per la sensibilità dei nostri tempi, del tutto irrilevante), non sarebbe meglio puntare l’attenzione sulle sue motivazioni «umane», che spesso si pongono in maniera contraddittoria rispetto alle altre?

Quest’ultime, secondo noi, appaiono già nella descrizione dell’ambiente, vagamente somigliante alla zona paludosa e selvaggia della Maremma toscana di epoca medievale: il bosco ha fronde scure e nodose, contorte, con tante spine velenose e con le «brutte Arpie» che vi fanno i loro nidi. L’impressione che se ne trae è inquietante, e diventa addirittura angosciante quando Dante comincia a descrivere la pena di quelle anime, trasformate in rovi, i cui rami sono continuamente lacerati da quegli uccelli orrendi, che le fanno urlare dal dolore.

Ciò è molto strano. Pier delle Vigne era sì stato un suicida, ma non dopo aver vissuto una vita da gaudente e prodigo, almeno non così appare da quel poco che ci è stato tramandato. Né risulta dal Canto ch’egli fosse stato un arrivista o che avesse tramato politicamente contro il proprio sovrano (anche se questa sarà una delle accuse che, secondo la tradizione, gli verranno mosse) o che gli avesse sottratto dei beni (come pare risulti da un’epistola dello stesso imperatore Federico II).

Possibile che sulla base d’una motivazione in fondo così banale come l’invidia (che nelle corti principesche era consueta), il sovrano si fosse deciso immediatamente di arrestarlo e di accecarlo, senza dargli alcuna possibilità di difesa? Qui infatti delle due l’una: o il cancelliere aveva ragione, e allora aveva poco senso metterlo all’inferno o, quanto meno, gli si poteva risparmiare una condanna così atroce, assolutamente sproporzionata rispetto alla propria colpa (nel conto della quale Dante avrebbe almeno dovuto sottrarre l’istigazione altrui); oppure il cancelliere aveva torto, ma allora Dante, che pur ha dovuto metterlo all’inferno per restare coerente alla teologia cattolica, ha voluto infierire sulla base di altre motivazioni, indipendenti dall’invidia, che però non sono state riportate perché non potevano esserlo.

Qui non vogliamo dire che non vi siano altre soluzioni al dilemma, diciamo soltanto che la terza sarebbe poco onorevole nei confronti dello stesso Dante e dei cattolici in generale: e cioè ch’egli abbia messo il cancelliere in quella condizione, con quella pena, solo per mostrare quanto fosse assurda la teologia scolastica, che induceva lui a condannare in maniera orripilante un uomo che, alla resa dei conti, era stato vittima di un’evidente ingiustizia di corte.

Una delle cose più sconcertanti di questo Canto è che quando Virgilio chiede a Dante di porre altre domande al «tronco parlante», per cercare di sapere quanto più possibile sul condannato alla pena eterna, Dante risponde che non ha il coraggio di farlo e lascia che sia Virgilio a proseguire la conversazione; cosa che lui fa, chiedendogli di spiegare, molto tecnicamente, quale sia di preciso il legame tra corpo e anima, ora e alla fine dei tempi, come se tutto ciò già non lo sapesse!

Insomma Dante mette all’inferno uno per il quale ritiene che le sofferenze infernali abbiano avuto, almeno come concausa, una vergognosa meschineria; uno al quale permette di dichiarare la propria assoluta innocenza, nei cui confronti egli mostra, all’apparenza, di non avere alcun motivo di dubitare, in quanto non fa obiezioni di sorta: come poteva sperare Dante di uscire indenne dal giudizio dei posteri? È difficile non pensare che sotto non vi fosse altro.

Nessuno lo obbligava a trattare un caso del genere nella sua Commedia e noi non abbiamo alcuna ragione di credere che Dante si sia comportato così per fare un favore alla chiesa, anche a costo di apparire assai poco umano e comprensivo.

Peraltro Pier delle Vigne non era stato solo un giudice della corte suprema dell’imperatore, un protonotaro (superiore di tutti i notai e il custode dei sigilli dell’Impero e del Regnum Siciliae), un logotheta (annunciava ai sudditi del Regnum i proclami dell’imperatore), un datario (responsabile legale del contenuto dei documenti di Federico II) e un diplomatico per i rapporti dell’imperatore col papato, le città lombarde e il sovrano inglese Enrico III d’Inghilterra (di cui Federico sposò la sorella), ma anche un rappresentante della prima scuola poetica in volgare italiano, quella appunto siciliana, che tanto influenzò lo Stilnovismo toscano. Doveva essere particolarmente stimato dai funzionari di corte per aver promosso un’attività letteraria del tutto inedita nell’intera penisola e che dava sicuramente prestigio a una corte così eclettica come quella imperiale di Palermo. Lo stesso Dante è costretto a farlo parlare con grande proprietà di linguaggio, anzi con un’ostentata elaborazione retorica.

Si può quindi supporre che il tragico destino di Pier delle Vigne debba essere associato a responsabilità molto gravi, forse dipendenti dagli insuccessi della politica imperiale di Federico, benché nell’autodifesa a oltranza del cancelliere si possano intravedere cose che forse con la politica non c’entrano molto, anche perché se davvero il sovrano avesse avuto la certezza d’un tradimento politico, difficilmente si sarebbe limitato ad accecarlo. Boezio fu condannato a morte da Teodorico che lo sospettava di tradimento. Ma dovette allestire un processo composto da cinque senatori estratti a sorte, il cui collegio era presieduto da un prefetto. Non si poteva eliminare una persona così autorevole senza salvare neppure le apparenze.

Ecco perché il Canto ci induce a pensare che Federico II, limitandosi a imprigionare e accecare il cancelliere, non avesse in realtà intenzione né di processarlo e condannarlo a morte né di farlo fuori in un secondo momento, ma soltanto di punirlo severamente per qualcosa di «eticamente» molto grave. Tuttavia le uniche parole che qui lasciano pensare a qualcosa di biasimevole sono quelle dette dallo stesso cancelliere: «Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo, e che le volsi, / serrando e diserrando, sì soavi, / che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi: / fede portai al glorioso offizio, / tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ‘ polsi» (vv. 58-63).

«Polsi» è stato interpretato dai dantisti come «vigore, forza, vita», ma «sonni» che c’entra? Possibile che il cancelliere fosse così impegnato per l’imperatore da perdere addirittura il «sonno»? O doveva forse svolgere per lui una qualche vita notturna? E in che senso si vantava di «tenere ambo le chiavi del cuore di Federico»? Il nesso «sonno» e «chiavi» resta oscuro.

Alcuni critici hanno interpretato le chiavi in maniera politica, ricavando questa immagine da Mt 16,19, dove Gesù dice a Pietro che gli avrebbe dato le chiavi del regno dei cieli; e anche da Is 22,22, dove Jahvè dice che il suo potere l’avrebbe dato a un servo, specificando che gli avrebbe posto sulla spalla la chiave della casa di Davide, sicché «se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire». Il potere delle chiavi consiste appunto nell’aprire e nel chiudere, con chiaro riferimento alle porte delle mura di una determinata città medievale.

Tuttavia il potere delle due chiavi era più che altro rivendicato dai pontefici, in riferimento al potere temporale e spirituale, contro il principio della diarchia: nel Canto XXVII dell’Inferno Bonifacio VIII si vanta d’avere entrambe le chiavi con cui aprire e chiudere i cieli (vv. 103-105). È strano che qui Pier delle Vigne voglia paragonarsi a un pontefice, mostrando una così alta considerazione di sé.

Peraltro qui sembra esserci un riferimento non tanto al potere politico (che pur il cancelliere possedeva a un grado molto elevato), quanto a qualcosa di personale (il «cuore»). Le due chiavi sembrano riferirsi a qualcosa che insieme è pubblico e privato. Lo si capisce anche dal v. 61: «tanto che esclusi dalla sua intimità [secreto suo] quasi ogni altra persona».

Che c’entra il modo politico con cui i critici in genere intendono la funzione simbolica delle chiavi, con espressioni così «intime»? Di cosa si stava vantando Pier delle Vigne: d’essere il politico n. 1 di Federico II di Svevia o di essere il suo «preferito» anche sul piano personale?

Forse l’aspetto più significativo di questo Canto, che ci permette di capire perché Dante abbia voluto creare un personaggio così ambiguo, è la motivazione che Pier delle Vigne dà del proprio suicidio. Lui che si sentiva al centro dell’attenzione, lui che pensava di suscitare il massimo dell’invidia, lui che riteneva d’aver contro il mondo intero, improvvisamente si scopre debole, incapace di difendersi, e pensa di approfittare di questo suo personale handicap, svolgendo un pensiero psicologicamente contorto: «Il mio animo, con amaro piacere, credendo di evitare il disprezzo del sovrano con la morte, rese me, senza colpe, colpevole contro me stesso» (vv. 70-72).

In che senso «amaro piacere» («disdegnoso gusto»)? Un accusato che fa un ragionamento del genere, come può pensare che il suicidio possa essere visto come conferma della propria innocenza? Chiunque, molto tranquillamente, avrebbe potuto pensare il contrario, cioè una conferma della colpevolezza.

Chi si suicida lo fa, il più delle volte, per disperazione o perché si vergogna enormemente di ciò che ha fatto. Solo in menti turbate o alienate (lo si vede p.es. in taluni credenti fanatici) il suicidio viene usato come arma di riscatto o di martirio o di protesta, facendo credere ch’esso, nella realtà, sia una sorta di «assassinio indiretto», nel senso che ci si elimina perché altri ci vogliono morti.

Se questo è stato il pensiero del cancelliere, è difficile credere che la causa di questo folle gesto sia stata la semplice invidia; ancor più assurdo pensare che un uomo di potere come lui non avesse strumenti legittimi per difendersi o che, avendoli, abbia preferito non usarli, o che comunque fosse totalmente privo di quella forza morale necessaria a resistere alle calunnie, vere o false che siano, e alle critiche che inevitabilmente colpiscono gli uomini di potere, specie quelli, come lui, di origine sociale umile (come dicevano i suoi contemporanei, ma avendo fatto l’università la cosa resta dubbia: il padre probabilmente gli era morto quand’era molto giovane, lasciando in ristrettezze la moglie e i suoi tre figli).

Un uomo che, partendo da Capua, s’era fatto da sé e che, dopo il periodo universitario bolognese, ritornò a Capua per svolgere la funzione di giudice a latere della Magna Curia e che a trent’anni, dietro una raccomandazione dell’arcivescovo Berardo di Palermo, venne accolto, per i suoi alti meriti e la sua vasta cultura, alla rinomatissima corte di Federico II come notaio della cancelleria, fino a dirigere, dopo pochi anni, la stessa cancelleria imperiale, giungendo al rango di primo segretario e portavoce personale dell’imperatore (gli scriveva qualunque tipo di documento, ufficiale e privato), quale smisurata ambizione l’aveva portato a compiere cose così spregevoli da indurre Federico a incarcerarlo a vita, accecandolo col ferro rovente?

Le voci che furono tramandate non sono certo per lui lusinghiere: tentativo di avvelenamento del sovrano, rivalità amorose con lo stesso (il cancelliere s’era sposato due volte, l’imperatore quattro), gravi frodi finanziarie ai danni dello Stato… Dante le sostituirà tutte con l’invidia, ma non ha potuto non far capire che doveva esserci qualcosa di più e di peggio. Non è da escludere che a Dante dispiacesse un uomo che, protetto dalla corte di Federico, scrivesse contro la chiesa romana e gli Ordini minori e avesse una concezione profana dell’amore. Non dimentichiamo che le lettere di Pier delle Vigne non sono servite solo come modello di stile in alcune cancellerie europee del Medioevo, ma anche, all’epoca della Riforma e durante l’Illuminismo, come testi argomentativi contro la Chiesa corrotta e a favore dello Stato moderno.

Insomma non solo c’è una strana vanità in questo raccontarsi di Pier delle Vigne, con quelle Arpie che sembrano essere state messe apposta per ridimensionarla, ma c’è anche una strana reticenza da parte di Dante, che dovette rimanere alquanto sbigottito nel leggere le vicende di un dignitario così autorevole, che tradì il proprio sovrano dopo oltre venticinque anni di fedele e onorato servizio. Forse Dante, proprio per questa ragione, fece sua la versione dei cronisti ostili all’imperatore, come Salimbene de Adam, secondo cui la caduta del logoteta era una nuova gradita dimostrazione della malvagità di Federico II.

A dir il vero si poteva notare questa vanità dell’anima dannata sin dal momento in cui Dante aveva spezzato il rametto della pianta che la rivestiva: un nulla rispetto a quanto ogni giorno facevano le Arpie e che avrebbero fatto per l’eternità. La reazione di stizza dell’anima era stata sproporzionata: «Perché mi schianti? Non hai nessun senso di pietà? Fummo uomini e ora siamo sterpi: la tua mano dovrebbe essere più pietosa persino se fossimo stati anime di serpenti» (vv. 33-39).

Tutta la scena sembra essere basata su un equivoco di fondo, ben espresso dal v. 25: «Io credo che Virgilio credette ch’io credessi» (che tante voci uscissero da gente nascosta tra quegli sterpi). Virgilio sapeva bene come stavano le cose, eppure invita Dante a compiere un’azione che sicuramente avrebbe fatto dispiacere al dannato e di cui lo stesso Dante si sarebbe subito pentito. Infatti, al sentir quello inveire, Virgilio chiede subito scusa, dicendo che se Dante non avesse visto coi suoi occhi, non avrebbe potuto credere a un evento tanto straordinario (quello appunto degli arbusti lagnanti), nemmeno ricordando l’episodio di Polidoro raccontato nell’Eneide. E poi aggiunge, come per voler solleticare l’amor proprio del dannato, che al cospetto di Dante ha la possibilità, raccontandogli la propria storia, d’essere ricordato sulla Terra come persona fedele e non come traditore.

Insomma l’impressione è che Dante, da un lato, abbia dovuto mettere all’inferno Pier delle Vigne per rispettare i canoni della teologia cattolica, e che dall’altro, pur facendolo passare come una vittima dell’invidia di corte, abbia voluto lasciar capire che nel suo comportamento c’era dell’altro. È stato come se avesse voluto dirci che degli intellettuali è bene non fidarsi sempre o comunque non del tutto. In tal senso egli avrebbe fatto un favore al cancelliere limitandosi a metterlo tra i suicidi. Si noti, en passant, che in questo secondo girone tutta la natura sembra essere completamente stravolta. Forse Dante voleva far capire al suo lettore che, proprio per questa ragione, anche la versione dei fatti che il cancelliere aveva offerto della propria vicenda non poteva essere presa come oro colato.

Dante non ha posto altre domande per non aggiungere dolore a dolore, ma il fatto che resti muto e pensieroso non può essere considerato come prova certa che credette in tutto ciò che aveva ascoltato. Stranamente peraltro il cancelliere, che chiama il sovrano anzitutto col suo nome di battesimo, usando solo dopo i due appellativi politici di Cesare e di Augusto, non chiede mai a Dante di sapere dove Federico si trovi: sembra importargli soltanto la propria reputazione. E Dante non gli dice, a titolo di consolazione, che anche il sovrano si trova all’inferno, tra gli eresiarchi del cerchio precedente.

Il finale di questo incontro ha un che di ironico, pur nella drammaticità del momento. Tutto infatti era partito dalla lacerazione incolpevole (da parte di Dante) di un rametto, attorno cui s’era dovuto imbastire un discorso pieno di scuse e di promesse riabilitative post-mortem sulla Terra. Dante s’era sentito mortificato dall’aver inferto un inutile dolore. Ora invece, dopo tanta preoccupazione d’aver fatto del male e di voler riparare a tutti i costi, ecco che due scialacquatori, inseguiti da «nere cagne», corrono così forte da rompere ogni ramo della selva.

Inevitabile ora, dopo tanti dubbi e supposizioni, è la conclusione storica basata sui racconti cronachistici dell’epoca. Gli Annales ghibellini di Piacenza riferiscono la fine di Pier delle Vigne nel modo seguente: agli inizi del 1249 l’imperatore era giunto a Cremona allo scopo d’imprigionare il cancelliere, che già era stato arrestato dalla milizia della città ghibellina, con l’accusa di «tradimento». E poiché il popolo cremonese intendeva ucciderlo, aveva disposto di trasferirlo in catene a Borgo S. Donnino (l’odierna Fidenza). Secondo gli stessi Annales l’imperatore si era poi spostato a Pisa passando da Pontremoli e aveva portato con sé il cancelliere; a San Miniato gli «fece strappare gli occhi», e fu qui ch’egli finì i suoi giorni (aprile 1249). Da notare che nel Regno di Sicilia, sotto Normanni, Svevi e Angioini, il traditore veniva di solito accecato prima del supplizio. Si può quindi presumere ch’egli si fosse suicidato per sfuggire le pene della tortura e dell’esecuzione, oppure era morto per le conseguenze dell’accecamento.

Federico II si espresse sulla colpa del cancelliere in un’unica lettera indirizzata a suo genero, il conte Riccardo di Caserta, databile nella primavera del 1249. Secondo la lettera la colpa del cancelliere sarebbe stata l’avidità (p.es. aveva denunciato come nemici dello Stato persone innocenti per poterne confiscare i beni). In effetti, stando ad altre fonti, pare che Piero, in grado di decidere di tutte le petizioni rivolte all’imperatore, si fosse notevolmente arricchito grazie a varie forme di corruzione. E in ogni caso, anche a prescindere da un’attività illecita, egli aveva accumulato, con la sua abilità affaristica, ingenti ricchezze.

E non è neppure da escludere che alcuni alti prelati avessero chiesto al cancelliere di abbandonare l’imperatore scomunicato e già deposto da una sentenza del primo Concilio di Lione (1245) e di tornare in seno alla chiesa. Non per nulla Piero aveva chiesto al re Enrico III d’Inghilterra il diritto di cittadinanza inglese.

fonte

https://www.homolaicus.com/letteratura/pierdellevigne.htm

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