Il tesoro di Ratiia, storia di una… leggenda pugliese
Le leggende, come i miti, nella cornice fantastica del loro genere nascondono sempre profonde verità e, con la loro capacità di suscitare riflessioni, non possono essere sottovalute. Soprattutto da chi, come noi, è abituato a leggere tra le righe ed a ricercare verità nascoste ed occultate ai più.
La leggenda che ha stuzzicato oggi la mia attenzione è quella di un tesoro, “il tesoro dei ventiquattro ladroni”. Il topos letterario sottostante è evidente: chi non ricorda Alì Babà, i suoi quaranta ladroni, il loro favoloso tesoro?
Questa volta il luogo è diverso: non l’Oriente immaginario di Alì, ma il Salento, estremo lembo dello stivale e provincia rigogliosa e ferace al tempo dei Borbone.
I “ladroni” non potevano che essere i nostri briganti. Anche questo è un altro luogo comune che – nostro malgrado – ci portiamo sul groppone: il tesoro non può che essere quello dei briganti. Ad arraffarlo non possono essere stati che i briganti.
Ancora oggi c’è gente, nel Meridione, che “va per grotte” a scavare e a picconare alla ricerca di improbabili ricchezze nascoste dai briganti. Chi mai ha raccontato, favolisticamente o meno, di un’associazione di gentiluomini, di notabili che si sia impadronito di un tesoro? Il discorso ci porterebbe lontano e lo affronteremo un’altra volta.
Torniamo ai nostri briganti: nel Salento molti ancora ricordano le gesta della banda composta, dice la tradizione, da ventiquattro “malfattori.
Di loro non si sa nulla, non si conosce il nome, né di capi, né di gregari: le congetture si sprecano; dal momento che la leggenda riferisce di una rapina ai danni della Baronessa di Copi, che viveva in una masseria di Galatina (Le), molti hanno attribuito il fatto alle bande operanti in quel territorio, il novolese Giuseppe Ippolito, il famoso Pizzichicchio (Cosimo Mazzeo) o il famigerato Fusulu. Non vi sono riscontri documentali all’episodio, per cui ogni ipotesi può essere presa per buona da chi vuole crederci. Di certo vi è che tali personaggi operavano effettivamente nel Salento, e più precisamente nella zona che va da Brindisi fino a Gallipoli, interessando anche la plaga dell’Arneo ed alcune zone del Tarantino.
Ratiia – narra la leggenda – era una donna di bellezza incredibile. Sarebbe nata a di Salice (paese a cavallo tra l’attuale provincia di Brindisi e quella di Lecce, nel cui territorio oggi ricade). Fu rapita (e poteva essere diversamente?) dal capo dei briganti mentre raccoglieva “culummi”, fioroni cioè; il capo e la vita brigantesca la soggiogarono a tal punto che divenne una delle ispiratrici delle imprese della banda. Avrebbe, infatti, suggerito lei stessa l’attacco alla masseria della Baronessa di Copi. Qui i briganti avrebbero trovato un tesoro “favoloso” e ne avrebbero depredato la gentildonna. Appare utile esaminare le modalità dell’attacco che la banda, sempre secondo la leggenda, avrebbe perpetrato: una torma di uomini a cavallo, incappucciati, una sera d’inverno, avrebbero fatto irruzione nella masseria: liquidati sbrigativamente i guardiani (sgozzati), la banda incendiò i fienili, le stalle e la cappella (compiendovi atti sacrileghi). La Baronessa cercò rifugio nella fuga, ma fu raggiunta proprio da Ratiia che riuscì a strapparle i forzieri. Le successive ricerche delle forze dell’ordine non dettero alcun risultato.
La storia presenta molti lati oscuri e contraddittori. Innanzi tutto non vi è traccia di un tale episodio negli archivi briganteschi finora da me consultati (non escludo, però, che possano essercene da qualche parte).
I banditi sarebbero arrivati alla masseria “incappucciati”. Vivaddio, quando mai una banda brigantesca ha agito “con i cappucci”? Sarebbe un unicum che francamente non si può condividere.
E’ credibile, poi, l’ipotesi di una nobildonna che, in tempi così difficili, detiene le proprie ricchezze in una masseria isolata e priva di sicurezza?
Difficile anche sostenere che i briganti abbiano potuto commettere atti sacrileghi. Proprio i briganti che conservarono sempre intatta la loro religiosità, a volte esasperandola, spesso distorcendola, mai negandola!!!
Gli assalitori, secondo me, tutto potevano essere men che “briganti”.
La banda poi sarebbe stata sgominata solamente dopo dieci anni. Anche questo elemento della leggenda induce a riflettere: quante bande brigantesche hanno potuto operare in un così ampio arco temporale?
Il capobanda, ferito a morte, avrebbe ordinato a Ratiia di mettere in salvo il tesoro: la donna avrebbe sotterrato il bottino in un luogo nascosto.
Ve l’immaginate una banda che non sa come sopravvivere quotidianamente, che non utilizza per dieci anni un bottino così ingente?
Suvvia, la storia – per leggenda che sia – non regge proprio: è figlia dei tempi, della cultura perbenista e risorgimentale dell’epoca, che aveva ogni interesse ad attribuire ai “briganti” misfatti veri, presunti e più spesso inventati.
Allora, se la storia è completamente inventata, dov’è la verità profonda contenuta nel racconto, quella stessa di cui parlavo all’inizio?
E’ nell’epilogo, a ben riflettere: molti – narra sempre la leggenda – si sforzarono di trovare il tesoro, non riuscendovi fino a quando alcuni contadini – sulla scorta di alcune voci – riuscirono a individuare il nascondiglio: scavarono e trovarono i forzieri, ma mentre li dissotterravano furono presi a fucilate dal fattore del posto; scapparono ed il furbastro si impossessò del tesoro.
Successivamente, con i soldi ricavati, acquistò terreni ed immobili, creandosi un’agiatezza economica che portò negli anni successivi la sua famiglia a divenire una delle più ricche dell’intero Salento.
Ecco la verità nascosta: molti, in un periodo tragico della nostra storia, hanno tratto vantaggio dal sangue e dal sacrificio di una classe sociale che osò ribellarsi, contrapponendo la sola arma possibile, la violenza di gruppo al sopruso della legge ed alla legge del sopruso: intendo la classe dei contadini meridionali che in breve diventarono per l’opinione pubblica i “ briganti”, i moderni appestati, gli uomini fuori dal consorzio umano, i perturbatori dell’ordine costituito (ed imposto), gente da eliminare ad ogni costo e senza pietà.
Molta gente ha utilizzato il ribellismo contadino della seconda metà dell’ottocento per rafforzare il proprio potere economico e sociale, anche alimentando nella credenza popolare storie come questa.
Tocca a chi come noi è abituato a leggere tra le righe, non solamente ricercare le verità nascoste negli archivi o smontare le falsità di una storia costruita ad uso del regime. Ci tocca pure combattere le leggende e i luoghi comuni.
Valentino Romano
fonte
http://www.adsic.it/2003/09/13/il-tesoro-di-ratiia/#more-140