Il Trecento, in Sicilia, quando la lingua siciliana soppianta tutte le altre/ Storia della Sicilia del professore Massimo Costa 22
- Il Regime dei “Quattro Vicari”
- Il rapimento della Regina Maria
- Dissolto il potere regio, finalmente un po’ di pace tra le signorie siciliane
- I Chiaramonte stavano per diventare una dinastia nazionale?
- Ma i baroni preferiscono un re straniero debole a un re siciliano forte
- La morte senza eredi del Re d’Aragona attira la Sicilia definitivamente nell’orbita iberica
- L’energico vicariato della Regina Bianca e la morte prematura di Martino il Giovane, ultimo re proprio di Sicilia
- Il brevissimo regno di Martino II il vecchio
- Una nuova, ultima, guerra civile durante l’interregno: la Regina Bianca contro il Gran Giustiziere Bernardo Cabrera
- Cosa restò del lungo Trecento siciliano e cosa andò perduto
di Massimo Costa
Il Regime dei “Quattro Vicari”
La debole pace, e il minimo recupero dell’autorità regia, naturalmente svanirono di nuovo. La povera regina senza regno fu messa sotto tutela dai più potenti baroni del Regno, che finirono di spartirsi le spoglie dello Stato (1378): i “Quattro Vicari”, collegialmente reggenti, e cioè Manfredi Chiaramonte di Palermo, Artale Alagona di Catania, Francesco Ventimiglia (Madonie) e Guglielmone Peralta (Sciacca). Nessuna famiglia minore o città avrebbe osato mettersi contro queste quattro famiglie unite, anche se c’è da dire che raramente queste erano unite per davvero. Di fatto la Sicilia si avviava a dividersi in quattro stati. In questo vuoto di potere cominciava a insinuarsi l’Aragona, che – in piena espansione nel Mediterraneo – dopo la Sardegna ambiva ora ad inglobare la Sicilia. Il 1378 è anche l’anno dello Scisma d’Occidente. Dopo il ritorno dei papi a Roma, la fazione filofrancese rielegge un antipapa ad Avignone.
Il rapimento della Regina Maria
La concordia durò poco, come la legittimità del governo baronale. Il “quinto” barone per importanza, il conte di Augusta Raimondo Moncada, irato per essere stato escluso dal Governo dell’Isola, rapisce la regina (1379), già promessa a Galeazzo Visconti di Milano, e, dopo una prigionia tra Augusta e Licata, la consegna ai Catalani (1381), dalla cui consegna sarebbe derivato, anni dopo (1391), il matrimonio con un nipote del Re Pietro IV, Martino (figlio del fratello), che poi sarebbe stato chiamato “Il Giovane”, per distinguerlo dall’omonimo padre, Duca di Montblanc, fratello del re, anch’egli di nome Martino (ma questa volta “Il Vecchio”). Per inciso ricordiamo che la madre di Martino il Vecchio, Eleonora, era la sorella maggiore di Federico IV, la figlia maggiore di Pietro II: Martino il Vecchio e Maria erano quindi cugini di primo grado. A questo punto il Governo dei Quattro Vicari è a tutti gli effetti, da un punto di vista giuridico, nient’altro che un’usurpazione, giacché la regina Maria, erede anche se femmina, in attuazione del Trattato del 1372, ormai maggiorenne, non li riconosceva più tali. Da notare che, nell’assedio di Augusta contro il Moncada, Artale Alagona per la prima volta nella storia siciliana, usò bombarde, cioè armi da fuoco mai viste prima d’allora.
Dissolto il potere regio, finalmente un po’ di pace tra le signorie siciliane
Ma i vicari vanno avanti con il loro governo e, approfittando dello scisma che nel frattempo aveva colpito la Chiesa (1378), si appoggiarono ai papi di Roma, contro quelli di Avignone sostenuti dagli Aragonesi. Il Ducato d’Atene e Neopatria, nel frangente, si proclama fedele all’Aragona (1381) ammainando le bandiere siciliane per tanto tempo tenute (la Regina Maria ne resta duchessa a vita, ma i ducati non sono più feudo siciliano bensì aragonese). Il Governo vicariale è stato dipinto dalla storiografia generalmente a tinte fosche. In realtà, pur nelle ondate continue – fino alla fine del secolo – della Peste Nera, la Sicilia durante il loro dominio va lentamente recuperando il terreno perduto. Forse essi stavano trasformando, sul modello “italiano”, la Sicilia in un insieme di Signorie, come quella degli Scaligeri di Verona o dei Visconti di Milano. Anche quelle Signorie, dal punto di vista del “Regno d’Italia” interno al Sacro Romano Impero, rappresentavano uno sfaldamento dell’autorità centrale a favore di stati provinciali o regionali, ma – chissà perché – in quel caso repubbliche, signorie e principati italiani sono salutati come piccoli stati, con una loro storia politica vista in positivo, mentre le analoghe formazioni siciliane sono stigmatizzate in negativo come “anarchia baronale”. L’unico svantaggio reale, per la Sicilia, era la perdita dell’unità politica, mentre al loro interno le signorie garantivano l’amministrazione della giustizia, la sicurezza dei traffici e finanche – come si poteva ai tempi – la cultura, non peggio di come avrebbe fatto un governo unitario, con il punto a favore che si trattava di dinastie ormai da secoli sicilianizzate, e non gravitanti, come la casa “Aragona”, sulla Penisola Iberica, dalla quale questa discendeva, con la quale si era continuamente imparentata, e dalla quale non si era mai realmente separata.
I Chiaramonte stavano per diventare una dinastia nazionale?
I più potenti, infine, i Chiaramonte, anche se non al dominio immediato dell’intera Isola (ciò che non era possibile, ma quanti secoli avrebbero messo i sovrani francesi a controllare effettivamente tutto il territorio della Francia?) ambivano chiaramente alla Corona, e quindi a diventare una vera dinastia nazionale, ciò che forse sarebbe stato provvidenziale per la storia della Sicilia. I Quattro Vicari, sotto la guida dell’ammiraglio Manfredi Chiaramonte, riconquistano Gerba (1388) e la detengono per qualche anno (fino all’invasione aragonese del 1392). Ma una serie di successioni mette infine il Vicariato in deboli mani: nel 1388 muore Francesco Ventimiglia e gli succede il figlio Antonio; nel 1389 muore il più valido sostenitore dell’indipendenza del Regno, Artale Alagona, e gli succede il meno esperto fratello Manfredi; nel 1391, infine, tocca al potente Manfredi Chiaramonte, che lascia il vicariato al figlio Andrea.
Ma i baroni preferiscono un re straniero debole a un re siciliano forte
L’indipendenza della Sicilia è ormai in pericolo: all’orizzonte si delinea l’invasione da parte dell’Aragona, questa volta non più come “alleata” e liberatrice, ma come conquistatrice. I vicari, dopo il matrimonio della regina Maria (1391), mentre Giovanni re d’Aragona (il fratello del suocero di Maria), continuava a non avere eredi maschi, intravedono il pericolo per la Sicilia, e – in una concitata riunione a Castronovo – giurano, insieme alla migliore feudalità siciliana, che avrebbero difeso con ogni mezzo la libertà dell’Isola. Ma la corruzione di Martino il Vecchio fu più forte del patriottismo di un momento. A uno a uno i paladini dell’indipendenza si sfilavano, i due vicari minori (Peralta e Ventimiglia) prendevano accordi separati con l’Aragona, la città di Messina riconosceva Martino e Maria, lo stesso Manfredi Alagona tentennava. Solo i Chiaramonte, ormai re siciliani “in pectore”, erano disposti a difendere con ogni mezzo la Sicilia.
Martino il Vecchio, cadetto di Aragona, fatto sposare il figlio Martino il Giovane alla Regina Maria, restaura l’autorità regia in Sicilia
Avendo in mano la Regina Bianca non mancava certo la legittimazione ad occupare la Sicilia. Con una spedizione ben organizzata, Martino il Vecchio, con al seguito gli sposi (Maria e il figlio Martino), a capo di una banda di avventurieri catalani e aragonesi, si avvia verso la Sicilia. La mancanza di uno stato proprio funzionante si rivelerà esiziale per le sorti di questa Terra. Martino il Vecchio sbarca a Trapani nel 1392, proclamando di voler restaurare l’autorità regia dalle tante, troppe, usurpazioni baronali. In realtà sa di dover scendere a compromessi, per attirare a sé parte della feudalità. E, in sostanza, ci riesce. I Siciliani si macchiano di una grave colpa in quell’occasione, preferiscono avere una dinastia che viene da lontano, e che probabilmente li avrebbe lasciati indisturbati nei loro interessi, a una potenziale dinastia siciliana, vicina, che avrebbe prima o poi riportato sul serio la legalità in Sicilia. I Chiaramonte sono abbandonati al loro destino. I loro sterminati beni diventano strumento di compenso per i nuovi “briganti” spagnoli, oltre che per i collaborazionisti. Collaborazionisti tra i quali sarebbero cominciati a fioccare i titoli di marchese, per i più grandi, e l’elevazione di molti militi a “barone”, segnando l’inizio di un lungo processo inflazionistico dei titoli nobiliari siciliani. Palermo è espugnata, Andrea Chiaramonte, l’ultimo esponente della famiglia, impiccato allo Steri. Si piegano tutti, e naturalmente anche i “vicari” Ventimiglia e Peralta. Non si accetta però di dialogare con gli Alagona, simbolo stesso del vecchio Regno di Sicilia, e troppo potenti ancora per consentire il ristabilimento dell’autorità regia. Come i Chiaramonte sono prontamente debellati dalla loro signoria catanese e costretti all’esilio. E tuttavia, nonostante il governo tirannico di Martino il Vecchio (solo nominalmente intestato al figlio Martino il Giovane e alla nuora Maria), la spedizione ebbe il merito di ricostituire l’autorità e l’unità del Regno, sia pure con gli inevitabili compromessi di un sistema feudale, e sia pure dopo lunghe e alterne lotte che durano almeno cinque anni. Significativa, ad esempio, la testimonianza, almeno dal 1397, dell’istituzione di un abbozzo di “Ministero della Salute”, il “Protomedicato”, che si sarebbe poi spinto fino al pieno XIX secolo, quando le strutture sanitarie sarebbero state accentrate a Napoli dalle Due Sicilie. Nel frattempo, per vicende politiche e militari attinenti alla Penisola Balcanica, tra il 1388 e il 1390, anche i possedimenti greci, in capo a Martino e Maria ma già feudi aragonesi sono definitivamente perduti. Martino il Vecchio tenta di fare riconoscere l’antipapa di Avignone, per allineare la Sicilia con l’Aragona, ma in questo non riesce: i due sovrani, per tenere l’ordine, devono dichiararsi fedeli a Roma. Il demanio riacquista molti poteri usurpati dai baroni durante l’anarchia, ma fino ad un certo punto: tra continue rivolte, compensi ai Siciliani “collaborazionisti”, compensi a una nuova ondata di baroni catalani venuti al seguito della spedizione, lo Stato siciliano si ricostruisce molto lentamente.
La morte senza eredi del Re d’Aragona attira la Sicilia definitivamente nell’orbita iberica
Se il fratello di Martino, Giovanni il Cacciatore, fosse riuscito ad avere discendenza propria, ancora una volta la Sicilia avrebbe potuto fortunosamente salvare la propria indipendenza, con un nuovo ramo autonomo della Casa Aragona. Ma la sorte che già aveva segnato il ramo siciliano della famiglia non doveva essere migliore con i cugini catalani. Nel 1396 re Giovanni muore senza eredi: Martino il Vecchio viene incoronato Re d’Aragona e lascia quindi la Sicilia al figlio Martino il Giovane. Ancora Sicilia e Aragona sono regni separati, ma il destino appare segnato, anche perché il “Giovane” è un pupillo nelle mani del padre, incapace di politica propria e per nulla affezionato alla Sicilia. Il “Giovane” vedrà morire il piccolo erede avuto da Maria, Pietro Federico, a solo un anno per un incidente mentre giocava con una lancia. Nel 1402 la malattia o il dispiacere si portano via la stessa regina Maria. Martino il Giovane si risposa con Bianca di Navarra, con la quale finalmente viene coronato a Palermo nel 1403 (per inciso, senza parlare più di feudalità o di censi da pagare al Papa) ma i due pongono stabilmente la loro sede a Catania; anche il figlio avuto da questa sposa morirà prima di compiere un anno. Si deve a questo re una certa attività legislativa ed amministrativa: dopo un Parlamento tenuto dal “Vecchio” in cui è approvata l’ultima tornata di “Costituzioni” volute dal re e votate dal Parlamento, inizia l’era dei “Capitoli”, proposti dal Parlamento, al contrario, e poi approvati dal re; ma Martino il Giovane emana anche molte “Prammatiche”, cioè legislazioni di secondo livello, fatte direttamente e solo da lui. Con lui nascerà il Regio Consiglio, formato dai più importanti magistrati del Regno, sorta di esecutivo, che poi – in epoca viceregia – sarebbe diventato il “Sacro Regio Consiglio”. Le città demaniali sono effettivamente sottratte alle signorìe baronali, la milizia e i castellani regi riprendono a funzionare regolarmente e a dipendere dalla Corona.
L’energico vicariato della Regina Bianca e la morte prematura di Martino il Giovane, ultimo re proprio di Sicilia
La regina Bianca si mostra donna capace di reggere saldamente lo Stato, già in una prima assenza del marito (1404/05) richiamato in Aragona e ad Avignone per motivi politici inerenti a quella corona. Ma ormai la Sicilia è una pedina dell’Aragona. Nel 1408, per guidare una spedizione in Sardegna per conto del padre, Martino lascia nuovamente la moglie Bianca come vicaria. Il fior fiore dell’aristocrazia siciliana lo segue, tra i quali anche quella di nuova acquisizione, come Sancho Ruiz de Lihori, Grande Ammiraglio (il posto lasciato dai Chiaramonte) e Bernardo Cabrera, nuovo Conte di Modica e Gran Giustiziere (il posto lasciato dagli Alagona). In pratica è una spedizione in grande dell’esercito e della flotta siciliana, ma questa non serviva ad ampliare il potere della Sicilia bensì solo della monarchia di Barcellona. La Sardegna, infatti, era entrata da una settantina d’anni circa nell’area di influenza catalana, ma non era ancora doma. E qui Martino, pur avendo conseguito vittorie, vi trova la morte per malattia (1409), senza aver lasciato figli legittimi. Martino il Giovane è l’ultimo “re proprio” della Sicilia. Da questo momento in poi tutti i re di Sicilia sarebbero stati anche re di altri paesi per quasi quattrocento anni e questo avrebbe certamente arrestato ogni processo di sviluppo nazionale dell’Isola.
Il brevissimo regno di Martino II il vecchio
Gli succede brevemente nel trono il padre, Martino il Vecchio (II come re di Sicilia, giacché non lo era mai stato prima), ma si tratta di una successione nominale poiché la Sicilia resta sotto il Governo della Regina Bianca, confermata come vicaria. Il “Vecchio”, da parte sua, non sarebbe più riuscito ad avere nuova discendenza nonostante passasse a nuove nozze con Margherita di Prades con cui, stando alle cronache, vecchio e malato non sarebbe neanche riuscito ad unirsi. Notevole che il Consiglio che assisteva la regina era costituito dai rappresentanti delle sei principali città (Palermo, Messina, Catania, Siracusa, Girgenti e Trapani), segno di una vitalità comunale allora di tutto rispetto. Inutili le preghiere dei nobili siciliani di far riconoscere almeno come erede di Sicilia il figlio naturale di Martino il Giovane, Federico de Luna. Nel 1410 Martino II muore, facendo estinguere del tutto la dinastia aragonese.
Una nuova, ultima, guerra civile durante l’interregno: la Regina Bianca contro il Gran Giustiziere Bernardo Cabrera
Si apre un periodo incerto di interregno, durante il quale la Regina Bianca resta regina vicaria di Sicilia. Questi due anni, purtroppo, saranno segnati da una nuova guerra civile (mentre altre ne succedevano in Aragona) tra la regina Bianca da un lato, e il giustiziere e conte di Modica Bernardo Cabrera dall’altro che, in assenza del re, si sentiva costituzionalmente chiamato a farne le veci. Dietro questi due governi paralleli della Sicilia c’erano due partiti: quello nazionale siciliano che pressava per l’elezione di un re proprio con la regina Bianca, e la nuova ondata di feudatari catalani venuti con i Martini (tra cui lo stesso Cabrera, che aveva tolto la grande contea di Modica proprio ai Chiaramonte), che nulla avevano a che spartire con i vecchi catalani del Vespro, ormai sicilianizzati, e che propendevano per una stretta unione con Catalogna e Aragona. Per un momento si pensò ad un matrimonio tra la stessa Bianca e il Peralta, discendente per parte materna dagli Aragona. Ma anche questa ultima occasione di dotarsi di una propria dinastia regnante sfumò per fatti contingenti. La regina tenne parte del territorio, ma non Catania, occupata dal Cabrera. In un Parlamento di guerra, a Taormina nel 1411, tentò di rassegnare le dimissioni da vicaria e di diventare “Presidente” di un governo provvisorio formato dai rappresentanti delle principali città, feudatari e prelati. Donna intelligente e di polso, vero capo di stato, siciliana soltanto adottiva ma più siciliana nel cuore di molti siciliani di nascita, avrebbe affidato a questo governo il compito di individuare un re e convocare un nuovo Parlamento per acclamarlo una volta sconfitto il Cabrera. Purtroppo il progetto naufragò per l’ottusità della città di Messina che in questo governo pretese la maggioranza assoluta dei rappresentanti e il triplo di quelli della città di Palermo. E così la guerra continuò con fasi alterne, tra cui: il curioso e fallito episodio del tentativo di rapimento della regina Bianca allo Steri di Palermo, operato dal Cabrera, che vagheggiava di sposarla; la temporanea occupazione papale di Messina e Milazzo, per punire l’Isola ribelle per il rifiuto di un dominio feudale che non c’era mai stato e che i re non avevano mai riconosciuto; l’invio di ambasciatori dalla Catalogna, che ormai non voleva mollare la presa sulla Sicilia, i quali in un arbitrato assegnarono il governo al Cabrera; la conseguente rivolta dei baroni “nazionalisti” e la cattura dello stesso Bernardo Cabrera, che però non pose fine alle ostilità da parte della fazione catalana.
Cosa restò del lungo Trecento siciliano e cosa andò perduto
Il “lungo Trecento” siciliano volgeva così al termine. Nel bene o nel male era stata l’epoca della nascita del nazionalismo siciliano moderno. Il Regno “dell’Isola di Sicilia”, ristretto rispetto a quello precedente di dinastia normanna e sveva aveva con difficoltà conquistato il proprio diritto all’esistenza nel novero delle nazioni-stato europee dei tempi. Era nato anche un vero e proprio senso di appartenenza nazionale, uno spirito nazionale, che sarebbe durato secoli, così come il consolidamento dello Stato di Sicilia e il primo ordinamento costituzionale parlamentare europeo propriamente detto. Anche la lingua cambia. Ormai il siciliano ha soppiantato tutti gli idiomi precedenti (tranne il greco di Sicilia, che sopravvive in parte a Messina città e in alcuni luoghi del Val Demone, ma in posizione ormai apertamente recessiva, testimoniata dalle continue traduzioni di atti notarili dal greco al latino di questo secolo, segno che la lingua si andava perdendo), persino tra gli ebrei di Sicilia, che fra di loro scrivevano in siciliano sotto la forma dei caratteri ebraici. Il siciliano è ora anche lingua scritta, anzi lingua nazionale, dapprima timidamente accanto al latino e solo per usi pratici, e poi sempre di più con l’avanzare del secolo, specie come lingua parlamentare e politica. Solo la presenza di una dinastia propria non si sarebbe rivelata una conquista duratura, per una serie di sventure dinastiche, e questa complicazione avrebbe segnato in negativo i successivi quattro secoli di storia del Regno. Ma molte delle conquiste del Vespro si sarebbero rivelate particolarmente durature, e tra queste certamente quella della Costituzione parlamentare.
Cronologia politica della Sicilia sotto la dinastia indipendente degli Aragona:
1282-1285 Pietro I (dal 1283 vicario Giacomo Aragona) e Costanza II Hohenstaufen
1285-1296 Giacomo (vicario Federico Aragona, il futuro Federico III, dal 1291)
1296-1337 Federico III (in realtà II)
1337-1342 Pietro II (associato al trono dal 1320)
1342-1355 Ludovico (fino al 1348 sotto la reggenza di Giovanni Aragona, Duca d’Atene, dal 1348 al 1350 sotto la reggenza del Gran Giustiziere Blasco Alagona e della regina Elisabetta di Carinzia, dal 1350 al 1352 sotto la reggenza della sola Elisabetta, dal 1352 al 1353 sotto la reggenza di Costanza Aragona, dal 1353 al 1355 sotto la reggenza di Eufemia d’Aragona)
1355-1377 Federico IV (in realtà III, fino al 1359 sotto la reggenza di Eufemia, dal 1359 al 1361 sotto la reggenza del Gran Camerario Francesco Ventimiglia)
1377-1392 Maria (dal 1377 al 1378 sotto la reggenza del Gran Giustiziere Artale Alagona, dal 1378 al 1392 sotto la reggenza dei Quattro Vicari: Manfredi Chiaramonte (Andrea Chiaramonte dal 1391), Artale Alagona (Manfredi Alagona dal 1389), Francesco Ventimiglia (Antonio Ventimiglia dal 1388), Guglielmone Peralta.
1392-1402 Martino I “il Giovane” e Maria
1402-1409 Martino I “il Giovane” (nel 1404-05 e dal 1408 vicaria la regina Bianca di Navarra)
1409-1410 Martino II “il Vecchio” (vicaria la regina Bianca di Navarra)
1410-1412 Interregno (vicaria la regina Bianca di Navarra)
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