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In memoria di Carlo di Borbone, re di Napoli e di Sicilia, nel 300esimo anniversario della nascita

Posted by on Set 4, 2016

In memoria di Carlo di Borbone, re di Napoli e di Sicilia, nel 300esimo anniversario della nascita

un altro ricordo importante di Carlo di Napoli di Borbone da parte di Dr. Ubaldo Sterlicchio. in allegato il documento in pdf con le fonti storiche

Il 20 gennaio 2016, con una solenne funzione religiosa presso la Basilica di Santa Chiara in Napoli, i Cavalieri del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio hanno celebrato il 300esimo anniversario della nascita di Carlo di Borbone, re di Napoli e di Sicilia, nato a Madrid il 20 gennaio 1716 ed ivi deceduto il 14 dicembre 1788. Capostipite della Casa Reale Borbone delle Due Sicilie, fu il quinto figlio di Filippo V di Spagna, ma il primogenito dei nati dal secondo matrimonio di quest’ultimo con la nobile italiana Elisabetta Farnese. Egli viene generalmente ricordato con il nome di Carlo III, quantunque questo ordinale fosse stato dal medesimo ufficialmente assunto solo come re di Spagna. È anche doveroso ricordare che Carlo, da parte della madre, nata da un Farnese figlio d’una Medici, ereditò la successione farnesiana nei Ducati di Parma e di Piacenza, assunta nel 1731 come Carlo I, nonché quella di «gran principe ereditario di Toscana», quale lascito mediceo.

Nel 1734, durante la guerra di successione polacca (1733-1739), Carlo, a capo delle truppe spagnole, conquistò i regni di Napoli e di Sicilia, sottraendoli alla dominazione austriaca. L’anno successivo, in Palermo, fu incoronato re come Carlo III di Sicilia, mentre a Napoli avrebbe dovuto assumere l’appellativo di Carlo VII. Ma egli rifiutò volontariamente la numerazione ed optò per un semplice “Carlo”, volendo sottolineare il fatto di essere re di uno Stato indipendente. Tuttavia, il titolo di re gli verrà ufficialmente riconosciuto solo a seguito del trattato di Vienna del 1738, in cambio della rinuncia agli Stati farnesiani e medicei, rispettivamente, in favore degli Asburgo e dei Lorena.

Il 10 maggio 1734, Carlo entrò trionfalmente in Napoli, ove fu accolto con un incredibile entusiasmo. Con lui, dopo due secoli di vicereame (di Spagna prima e d’Austria dopo), il Sud d’Italia tornava a essere indipendente e sovrano. Di fatto, cominciò proprio allora quella che lo storico Giuseppe Galasso ha definito «l’ora più bella» nella storia dei Regni di Napoli e di Sicilia, segnando una stagione di grandi riforme, fra le più notevoli nell’Italia del tempo. I due secoli precedenti avevano purtroppo costituito un periodo di grave impoverimento, riducendo il Paese in una condizione miserevole e privandolo di tutte le risorse.

Il 25 maggio 1734, con la battaglia di Bitonto, Carlo sconfisse gli Austriaci che da 27 anni governavano il Sud. Questo fatto d’armi, importante sotto il profilo militare, viene tuttora ricordato da un maestoso monumento storico-commemorativo che fu eretto sul luogo dei combattimenti: l’«obelisco carolino», il cui piedistallo reca quatto epigrafi, una per ogni faccia (ciascuna rivolta verso un punto cardinale), ivi incise in ottimo latino, verosimilmente attribuibili a Bernardo Tanucci (1698-1783).

In particolare, nella lapide rivolta a mezzogiorno si legge: «CAROLO HISPANIARUM INFANTI NEAPOLITANORUM ET SICULORUM REGI (…) QUOD (…) ITALICAM LIBERTATEM FUNDAVERIT APPULI CALABRIQUE SIGNUM EXTULERUNT», la cui traduzione letterale è: «A Carlo infante di Spagna re dei Napoletani e dei Siciliani (…) poiché (…) aveva fondato l’italica libertà i Pugliesi ed i Calabresi alzarono la bandiera». A tale riguardo, c’è da notare che il vocabolo latino libertas significa anche indipendenza e che l’epigrafe non parla di «utriusque Siciliae libertatem», ma puntualmente di «italicam libertatem», per cui ne discende che, attraverso queste parole, a Carlo di Borbone venne riconosciuto il merito di aver posto i fondamenti dell’«indipendenza italiana». L’idea di indipendenza dell’Italia intera, quindi, risultava essere stata già concepita nel nostro Sud, ben oltre un secolo prima che della stessa se ne appropriassero i liberal-massoni ottocenteschi e che essa fosse realizzata – nel peggiore dei modi possibili – da Cavour e Vittorio Emanuele II.

Fino al 1860 il 25 maggio fu considerato giorno di festa nazionale.

Iniziava così una nuova era per il Meridione d’Italia. Carlo era un uomo dal carattere forte, che aveva appreso dalla madre, Elisabetta Farnese, l’amore per le arti e la bellezza e dal padre, Filippo V, la sagacia per la buona amministrazione e l’irreprensibilità dei comportamenti.

A causa della giovane età, nei primi anni di regno fu consigliato nelle scelte di governo soprattutto dalla madre, una donna molto forte, istruita, saggia, come d’altra parte era naturale, vista l’illustre famiglia alla quale apparteneva, tanto che ella influenzava persino le decisioni del marito, sovrano di Spagna.

Durante la guerra di successione austriaca (1740-1748), Carlo inviò nel 1742 un contingente di soldati in Lombardia in aiuto dei franco-spagnoli (tutti i rami di Casa Borbone erano alleati). Accadde però che la flotta inglese apparve nel Golfo di Napoli e minacciò di bombardare la città; Carlo decise allora di ritirare le sue truppe, suscitando le ire di Parigi e Madrid. Tuttavia, seppe ben riscattarsi nel 1744, quando sconfisse definitivamente l’esercito austriaco a Velletri, ponendo così per sempre fine alle pretese asburgiche su Napoli e riuscendo a svincolarsi, di fatto, dalla tutela di Madrid. Con questa vittoria, Carlo iniziò ad essere veramente il Re di Napoli e il Regno divenne indipendente a tutti gli effetti. Ciò fu ancora più chiaro nel 1746, con la morte di Filippo V di Spagna e con la messa in disparte di Elisabetta. Da questo momento, egli divenne un “vero” «Re di Napoli», entrando in perfetta sintonia con il suo popolo e rivolgendo la massima attenzione verso i bisogni di quest’ultimo; con il passare degli anni, poi, sovrastò l’influenza dei ministri, diventando un grande sovrano ed il vero artefice della sua politica, nonché accentrando tutto il potere nelle sue mani.

Ma l’eredità lasciata dagli austriaci, e soprattutto dal lungo dominio spagnolo, era pesante. Una popolazione allo stremo, la corruzione dilagante. Dalle grandi sale del Palazzo Reale, il giovane re attuò radicali riforme ed avviò una grande opera di rinnovamento attraverso un riordino, sia architettonico che amministrativo. Si aprì, per il Regno di Napoli, un periodo di crescita e di sviluppo, che resterà memorabile nella storia del Meridione d’Italia. I sudditi, ad esempio, assistettero increduli alle opere di bonifica delle zone paludose: i territori liberati dalla piaga della malaria si ripopolarono, si generò nuovo lavoro e benessere. Re Carlo, cresciuto alle grandi Corti europee, aveva idee moderne, coraggio e spirito d’iniziativa; era attento alle esigenze del suo popolo e ne subiva il fascino. Diverrà uno dei Sovrani più amati del suo tempo.

I territori governati comprendevano, oltre a gran parte del Sud dell’Italia continentale, anche la Sicilia, ma questi resteranno due Regni separati fino a quando, nel 1816, a seguito del Congresso di Vienna, il suo successore Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia ne decreterà la definitiva unificazione nel Regno delle Due Sicilie.

Carlo di Borbone fu un perfetto esempio di «sovrano illuminato», ossia un monarca che amava circondarsi di intellettuali, artisti e uomini politici che portavano avanti le idee dell’Illuminismo che, nel ‘700, definito appunto secolo dei lumi, si diffusero in tutta Europa, ponendo in primo piano assoluto l’intelletto umano, contro l’ignoranza e la superstizione. D’altra parte, la cultura napoletana era riuscita ad anticipare molti importanti temi dell’Illuminismo, la cui affermazione avvenne intorno al 1750; si pensi, ad esempio, alle eminenti figure di Giambattista Vico e di Pietro Giannone, morti rispettivamente nel 1744 e nel 1748. Napoli, insieme a Parigi, fu la città che più contribuì alla formazione della corrente illuministica, non limitandosi però ad assorbirla, come stava invece accadendo nel resto d’Europa. Gli intellettuali napoletani, infatti, svolsero un importante ruolo sociale e culturale, imprimendo all’«Illuminismo napoletano» i caratteri peculiari dell’originalità e divenendone precursori e propulsori. Oltre alle citate personalità, è doveroso ricordare anche Antonio Genovesi (fondatore della prima cattedra al mondo di Economia Politica), Ferdinando Galiani, Gaetano Filangieri, Antonio Broggia, Francescantonio Grimaldi, Francesco Mario Pagano e altri. Durante il periodo carolino, il pensiero napoletano conseguì un vero lustro europeo; ma la vitalità culturale non si nutrì solamente di riformismo, bensì fu un moto più ampio: basti pensare agli scavi di Pompei ed al ruolo assunto da Napoli con la costruzione (nel 1737) del teatro San Carlo, vero tempio della musica europea. Carlo, cui toccò gran parte dell’eredità farnesiana, fece anche trasferire nel Regno le stupende opere d’arte antica e moderna, che tuttora formano il pregio maggiore dei musei napoletani.

Tra i primi atti di governo di Carlo abbiamo la tassazione dei beni ecclesiastici, i quali, poiché erano numerosissimi grazie a speciali privilegi del passato, permisero di triplicare le entrate fiscali. In occasione del suo passaggio in Toscana, mentre si dirigeva nel Mezzogiorno, poté affiancarsi Bernardo Tanucci, il quale ricoprì vari ruoli fino a diventare primo ministro ed acquisire il titolo nobiliare di marchese. Vero e proprio uomo di fiducia del re, Tanucci intraprese un vasto programma riformatore amministrativo e finanziario, sottraendo poteri e privilegi a nuclei particolari che sfruttavano risorse senza recare un tangibile beneficio allo Stato. Fu, peraltro, anche artefice del Concordato con la Chiesa Cattolica del 1741, in cui si sanciva la supremazia dello Stato. La sua politica finanziaria, ispirata ai più moderni principî, apportò grandi risultati all’economia del Regno.

A quell’epoca, tutte le Corti europee gareggiavano in potenza e prestigio, costruendo grandi regge progettate da famosi architetti e riempiendole di tesori d’arte. Re Carlo, da parte sua, chiamò Luigi Vanvitelli (1700-1773), uno dei maggiori architetti del ‘700, per erigere una reggia che doveva rivaleggiare, per grandezza e bellezza, con quella di Versailles. Fu necessario quasi un secolo per ultimarla, ma ciò che venne realizzato fu un capolavoro: la Reggia di Caserta, una reggia maestosa. I lavori per la sua costruzione iniziarono nel 1752: 1200 stanze e una grande area che sfiorava il volume totale di oltre due milioni di metri cubi. Essa è tuttora considerata fra le più importanti residenze reali al mondo; il gran palazzo comprende un’ampia area verde composta dal giardino all’italiana con bellissime fontane e la cascata, nonché dal cosiddetto giardino all’inglese costituito da boschi.

Allo scopo di portare l’acqua alle meravigliose fontane del giardino all’italiana e, quindi, alla reggia stessa (oltre che, in un secondo momento, al complesso di San Leucio), venne dato contestualmente il via alla realizzazione dell’Acquedotto Carolino (dal nome del re), una grande costruzione ingegneristica che, per l’approvvigionamento idrico, sfruttava le sorgenti alle falde del Taburno, a 254 metri sul mare. Lungo 38 chilometri, l’acquedotto Carolino era costituito da un condotto largo 1,20 metri ed alto 1,30 metri, con 67 torrini a pianta quadrata per gli sfiatatoi e per l’accesso all’acquedotto stesso, onde consentire i necessari controlli. Fu realizzato così un capolavoro a cielo aperto! I lavori iniziarono nel 1753  tra lo scetticismo generale delle maestranze dell’epoca, che vedevano l’opera come qualcosa di tecnicamente impossibile da realizzare. Non per Vanvitelli.

Fu realizzata tutta la serie di trafori nei monti per il ritrovamento delle sorgenti; ma il vero ingegno dell’architetto fu quello di superarsi e superare anche l’antica grandiosità romana con «i ponti delle valli», ossia un ponte lungo più di 500 metri per collegare il monte Longano al Garzano. Si trattò di una maestosa e lunga struttura che attraversava la valle di Maddaloni, la prima e più grande in Europa, costruita sul modello degli acquedotti romani; essa si compone di triplici arcate alte fino a 55 metri. Terminato dopo 17 anni di lavoro, esso fu considerato una delle maggiori opere ingegneristiche del XVIII secolo.

L’Acquedotto, insieme al Palazzo Reale di Caserta e al complesso di San Leucio rientrano nel patrimonio UNESCO dal 1997.

Ma il più grosso segno che Carlo ha lasciato nei Regni di Napoli e di Sicilia è di natura artistica, architettonica e archeologica: a lui si deve l’apertura sistematica degli scavi di Ercolano, Pompei e Stabia; la realizzazione del Real Teatro di San Carlo, che sostituì il San Bartolomeo e fu inaugurato il 4 novembre 1737, giorno dell’onomastico del re, con la rappresentazione dell’opera Achille in Sciro di Metastasio (al secolo Pietro Trapassi). Oltre alla menzionata Reggia di Caserta, Carlo fece edificare anche le Regge di Portici e di Capodimonte. Anche il Foro Carolino (oggi Piazza Dante) fu affidato all’opera del Vanvitelli e vanta alcune sculture di Giuseppe Sanmartino (l’artista del Cristo velato). Sempre al re Carlo è dovuta la costruzione del gigantesco Real Albergo dei Poveri (opera dell’architetto Ferdinando Fuga); il rinnovamento e l’ampliamento del Palazzo Reale di Napoli; la fondazione della Real Fabbrica di Capodimonte per la produzione della porcellana; la fondazione dell’Accademia di Belle Arti. Grazie a tutto ciò, Napoli divenne una grandissima capitale europea, sicuramente e di gran lunga la più importante città in Italia, ambitissima méta del Gran Tour, capace di stregare Goethe e Stendhal.

Carlo si innamorò a prima vista della sua capitale e del suo popolo – il quale gli ricambiava quell’amore – tanto che imparò la lingua napoletana per diventare egli stesso napoletano, comprendere ed essere vicino alla sua gente.

Per l’edilizia militare, ricordiamo il Forte del Granatello, i quartieri militari di Aversa, Nola e Nocera, il restauro di numerose fortezze e la costruzione di nuove; la creazione dell’eser-cito nazionale e della flotta, la più importante in Italia ed una delle prime in Europa; la costruzione di fabbriche di oggetti militari che emanciparono il Regno dal monopolio straniero. Per l’edilizia sacra e di carità (il Re fu sempre sensibilissimo ai bisogni dei poveri), occorre ricordare il Ritiro delle Donzelle povere dell’Immacolata Concezione, l’Opera del Vestire gli Ignudi, il Collegio delle Scuole Pie a Palermo, l’Immacolatella, il grande Albergo dei Poveri a Palermo, il Monastero delle Teresiane a Chiaja e a Pontecorvo, i due grandiosi Alberghi per i Poveri del Regno di Napoli – l’uno a Porto Nolano, l’altro a S. Antonio Abate – il Ritiro di S. Maria Maddalena per le donne ravvedute, il monastero delle Carmelitane a Capua, il restauro dell’incendiata Chiesa dell’Annunziata a Napoli. Per l’edilizia culturale, ricordiamo la nuova splendida sede dell’Università, gli scavi di Ercolano e Pompei, l’Accademia Ercolanense, la Fabbrica de’ Musaici, l’istituzione di nuove accademie e cattedre nel Regno, la Biblioteca Reale, divenuta poi la grande Biblioteca Nazionale e il Museo nazionale. Chiamò poi Giambattista Vico (1668-1744) a Corte come storiografo del Regno. Fra le iniziative commerciali, per sanare la difficilissima situazione economica, Carlo istituì la Giunta di Commercio, intavolò trattative con turchi, svedesi, francesi e olandesi; istituì una compagnia di assicurazioni e adottò i necessari provvedimenti per la difesa del patrimonio forestale; cercò di sfruttare le risorse minerarie. La più famosa delle iniziative artistico-commerciali fu senz’altro quella delle porcellane di Capodimonte. Al di là dei costi altissimi, Franco Valsecchi così descrive l’iniziativa: «Fu una splendida creazione, che tradusse, con squisito senso d’arte e con felice genialità, l’immagine della vita napoletana», sia di quella signorile che di quella popolare. Inoltre istituì consolati e monti frumentari, promulgò leggi per l’incremento dell’agricoltura e della pastorizia.

Nel 1741 stipulò un concordato con Roma, in virtù del quale iniziò a tassare alcune proprietà del clero; poi aggiornò il sistema tributario; migliorò il caos legislativo varando un nuovo codice nel 1752, anche se lo stesso non venne poi pedissequamente applicato; si interessò infine anche del sistema giudiziario, ma senza sconvolgere il secolare assetto sociale dello Stato.

Nel 1759 il trono di Spagna rimase vuoto, a seguito della morte senza eredi del fratellastro Ferdinando VI di Spagna, e proprio Carlo dovette occuparlo, a malincuore e controvoglia. Secondo una leggenda, che pare abbia comunque un fondamento di verità, al momento di lasciare il suo Regno si tolse dal dito un prezioso anello che portava sempre, rinvenuto negli scavi di Pompei, affermando che il gioiello apparteneva ai napoletani, non a lui. Dopo 25 anni di regno nel Meridione d’Italia, Carlo dovette così rinunciare definitivamente ai troni italiani, abdicando il 6 ottobre 1759 e decretando la definitiva separazione tra la corona spagnola e quelle napoletana e siciliana.

Nell’ottobre 1737, Carlo aveva sposato la 14enne principessa Maria Amalia, figlia del re di Sassonia, la quale gli diede ben tredici figli, il primo dei quali purtroppo era incapace mentale; ma poi vennero altri quattro figli maschi (Carlo Antonio, Ferdinando, Gabriele e Francesco Saverio); così la successione era assicurata. Tuttavia, minacce di carattere “dinastico” gravavano sul Regno. Infatti, poiché Carlo era destinato a salire sul Trono di Spagna, le grandi potenze, con la Lega di Aranjuez e il Trattato di Vienna, avevano stabilito che il Regno di Napoli e di Sicilia sarebbe dovuto passare al Duca di Parma e Piacenza, Filippo di Borbone, mentre questi ultimi due Ducati sarebbero stati assegnati, rispettivamente, all’Austria ed ai Savoia. In pratica, Carlo rischiava, per salire sul Trono di Madrid, di perdere il Regno che si era faticosamente conquistato. Pertanto, egli lavorò sempre perché questo “equivoco” (come lo chiamava) non accadesse; ed, in effetti, vi riuscì, favorito dalla situazione internazionale. Quando nel 1759 morì Ferdinando VI, egli divenne re di Spagna con il nome di Carlo III e, pur rinunziando alle Corone di Napoli e Sicilia (la qual cosa era già prevista dalle norme ereditarie borboniche), le garantì al terzogenito maschio Ferdinando, mentre il secondogenito Carlo Antonio lo seguì in Spagna come erede al Trono iberico. Carlo avvalorò tale decisione promulgando la Prammatica del 6 ottobre 1759 con la quale il nuovo Re di Spagna sanciva definitivamente l’irreversibile processo di divisione delle due Case Reali.

Infatti, con quel documento, Carlo stabilì: «che l’ordine di Successione da me prescritto non mai possa portare l’unione della Monarchia di Spagna colla Sovranità e Domini Italiani, in guisa che o i Maschi o le Femmine di mia Discendenza di sopra chiamati, sieno ammessi alla Sovranità Italiana, sempre che non sieno Re di Spagna o Principi di Asturias dichiarati già o per dichiararsi». La ratio legis della Prammatica è oltremodo chiara ed inequivocabile: «electa una via, non datur recursus ad alteram», vale a dire che: «scelta una via, non è consentito seguirne un’altra», ragione per la quale, da quel momento in poi, le due Monarchie sarebbero state del tutto separate, in modo che, qualora un discendente (maschio o femmina) di Carlo fosse entrato a far parte della Casa Reale di Spagna, sarebbe ope iuris decaduto da tutti i diritti dinastici della Casata di Napoli e di Sicilia, ivi compresi quelli concernenti i Gran Magisteri dei relativi Ordini Cavallereschi. In specie, chi fosse divenuto infante di Spagna avrebbe perso, ipso facto ed irreversibilmente, ogni diritto, sia di successione al Trono delle Due Sicilie, che alle cariche di Gran Maestro degli Ordini Cavallereschi connessi ai Domini borbonici del Sud Italia. In virtù di ciò, unitamente allo scettro di quello che diverrà poi il Regno delle Due Sicilie, Carlo conferì al terzogenito Ferdinando (1751-1825) anche il Gran Magistero degli Ordini Cavallereschi facenti capo, in via peculiare ed esclusiva, alla relativa Corona (distinta e disgiunta da quella spagnola): in primis, quelli dell’Ordine di San Gennaro e dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio, quest’ultimo facente peraltro parte dell’eredità farnesiana. Il secondogenito, Carlo Antonio, fu designato invece quale successore di Carlo III al Trono di Spagna, ove ascese nel 1788 come Carlo IV.

Ma il principale merito politico di Carlo resta quello di aver rifondato la «nazione napoletana», rendendo il Regno di Napoli e di Sicilia indipendente e sovrano. Per quanto, oggi, i più recenti e importanti studi stiano giustamente rivalutando la politica svolta dagli Asburgo nei secoli precedenti, è indubbio che solo con il Regno di Carlo il governo napoletano, i suoi sovrani, i suoi ministri, iniziarono a pensare ed agire nell’interesse esclusivo del Regno di Napoli e dei suoi abitanti. Tracciando un bilancio del suo regno a Napoli, lo storico Giuseppe Coniglio così scrive: «Carlo, alla vigilia della sua partenza per la Spagna (…) era sicuro di aver provveduto nel migliore dei modi alla sorte dei paesi che erano venuti sotto il suo scettro. Aveva stabilito tutto quanto era possibile prevedere ed aveva ottenuto l’approvazione delle grandi potenze (…) Figli e fratello di Carlo avrebbero regnato in pace e trasmesso ai loro eredi il trono; la costruzione diplomatica si mostrò efficiente ed atta ad affrontare vicende quanto mai ardue e tempestose, superando periodi estremamente difficili, sia in Spagna, sia in Italia».

Tuttavia, poiché il figlio Ferdinando era ancora minorenne (il bambino aveva solamente otto anni), in Napoli fu insediato un Consiglio di reggenza guidato dal primo ministro Bernardo Tanucci.

Carlo lasciò al figlio un regno vero, un regno nuovo, un regno avviato sulla strada delle riforme, del progresso civile e culturale, un regno amato dai suoi sudditi. E questa è la più grande delle ricchezze che i suoi discendenti erediteranno da lui.

 

dott. Ubaldo Sterlicchio

fonte  reteduesicilie.it

Carlo di Borbone re di Napoli e di Sicilia

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