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Incontro Sensibile: Francesco Guarino v/s Louise Bourgeois (si parla di donne)

Posted by on Apr 1, 2017

Incontro Sensibile: Francesco Guarino v/s Louise Bourgeois (si parla di donne)

Gli “Incontri sensibili” ideati da Andrea Viliani, direttore del Madre, da Laura Trisorio, direttrice dello Studio omonimo, e da Sylvain Bellenger, direttore del Museo e del Real Bosco di Capodimonte, consistono nell’accostare opere d’arte di periodi diversi per suggerire allo spettatore, attraverso il confronto, le affinità, le differenze, le particolarità di ciascuna opera e quindi una sua più profonda comprensione.

Sabato 25 marzo si è aperto il ciclo di questi incontri con una mostra, alla Reggia-Museo di Capodimonte, curata da Laura Trisorio e da Sylvain Bellenger. Le opere presentate sono un quadro di Francesco Guarino (1611/1651) e una scultura di Louise Bourgeois (1911/ 2010). La mostra è stata preceduta, il 23, al Madre, da film e talk sulla vita e l’arte di Louise Bourgeois e, il 24, allo Studio Trisorio, dalla inaugurazione di una mostra di disegni e sculture in bronzo dell’artista francese.  L’argomento che accomuna le due opere presentate è quello, molto à la page, della violenza contro la donna.

Francesco Guarini (o Guarino) (1611/1651) è un grande artista, mortificato, come tanti altri artisti napoletani, dal generico epiteto “caravaggesco”, che ne limita il valore. Nato in una famiglia di pittori da più generazioni, ne ha ereditato quell’arte antica che rende il suo quadro un oggetto in se stesso bello, raffinato e prezioso. Vi è dipinta una donna e la sapienza dell’arte ne rende non solo le fattezze ma anche gli affetti, di un’umanità profonda e anch’essa antica.

Oggi consideriamo questo quadro nel suo essere opera d’arte e lo ammiriamo in quanto tale. Ma un tempo, suppongo, gli si rivolgeva, con venerazione, una preghiera. Perché ci racconta “Il martirio di Sant’Agata” ( è il suo titolo), una Santa martire. Che nacque e visse a Catania, città di antica origine greca, nel III secolo. Era quindi una donna greca, come avverte lo stesso nome Agata, che in greco significa “buona”. Era una giovane di nobile famiglia e molto bella.  Il console della città, il romano Quinziano, se ne invaghì e la desiderò come sposa. Agata lo rifiutò. Quinziano si sentì offeso e il suo amore si mutò in odio. Era il tempo dell’imperatore Decio (249/251), che perseguitava i cristiani.

Quinziano ne approfittò per accusare la giovane di cristianesimo e la fece bruciare sui carboni ardenti, come san Lorenzo. Ma prima la martirizzò facendole strappare le mammelle, che però, si dice, da un angelo, di notte nel carcere, venivano risanate. Nel dipinto, soltanto alcune macchie di sangue, che risaltano sul bianco panno con il quale la giovane ricopre la ferita, raccontano il martirio a cui è stata sottoposta.

Agata non sembra soffrire (merito dell’angelo?) e sembra voler dimostrare che il supplizio non l’ha domata, che la violenza non l’ha conquistata e appare con un’espressione, seppure non arrogante, di sfida.  È l’immagine di una donna gentile ma forte. Sant’Agata è una santa potente, protettrice della città di Catania e capace di fermare la lava dell’Etna quando avanza pericolosamente. Questo dipinto è alieno da una tragica drammatizzazione barocca.  E, poiché è opera di un uomo, potremmo anche dire che in fondo rappresenta l’immagine che un uomo dell’epoca poteva avere di una donna, che, per di più, santificava.

Certo oggi l’immagine ovvero l’identità stessa della donna è molto cambiata (componenti: società tecnologica, industrializzazione, meccanizzazione, abbandono dei campi, globalizzazione, principio di eguaglianza, diritti civili… ecc.). Un aspetto di questo cambiamento è testimoniato da Louise Bourgeois anche con “Femme couteau”, la scultura che vien messa a confronto con “Il martirio di Sant’Agata”. “Femme couteau” è l’immagine di una donna, anzi della donna in generale. Perché evidentemente si tratta di una donna qualunque, che non ha una sua identità, una sua propria fisionomia: manca addirittura della testa. È una donna sconciata, fatta a pezzi.

Manca anche delle braccia e di una gamba. La sua realizzazione in scultura non si avvale della tecnica tradizionale anzi la nega in toto. Questa donna non è di marmo né di legno né di metallo. È di pezza. Come le bambole di pezza che trastullavano le bambine. È appunto una sorta di bambolotto imbottito, ricoperto da scampoli di grossolana tela cuciti tra loro. Ha due grossi seni tondi e una grossa pancia trattenuta da pezzi irregolari di questa tela. Infilata nel collo, la lama di un coltello con un manico nero.

Sono stata a domandarmi e a domandare che tipo di coltello fosse, fin quando non mi è stato suggerito che è la forma ingigantita di un rasoio, di quelli che i barbieri usavano e usano ancora. Quindi è una aggeggio maschile e sembra stia a simboleggiare la violenza maschile contro la donna. Non per niente Bourgeois è considerata una grandissima artista, la prima artista femminista.

Nella “Sezione Contemporanea” di Capodimonte ci sono, in una teca, altre due sue opere, di piccolo formato: “Fallen Woman” e “Give and take”, una sorta di mano tozza, che può anche essere scambiata per la zampa di un animale e che ha un laghetto di oro nel cavo del palmo e dita tozze simili ad artigli rapaci. La Bourgeois ha donato queste due sue opere al Museo, nel 2008, dopo una sua “personale”, che invase molte sale della Reggia e anche il grande cortile centrale, in cui campeggiava quell’enorme ragno che lei chiamava “Maman” e che portò, in vari esemplari, per le  città del mondo.

Di questa mostra non ho un ricordo molto preciso. Oltre “Maman”, ricordo vagamente qualche imponente installazione e una sala piena di sculture di minori dimensioni in scuro metallo, qualcuna che scendeva giù dal soffitto, qualche altra che mi ricordava, forse impropriamente, le opere di Alberto Giacometti.

L’arte della Bourgeois mi apparve fatta di tragedia, di tristezza, di dramma,  di violenza e di paura. Vissuta a lungo, quasi cento anni, sebbene sia stata inattiva per lunghi periodi a causa della sua ricorrente depressione, Bourgeois ha avuto tempo per dire delle sue fantasie e dei suoi sentimenti con le sue opere figurative. E anche con gli scritti e i filmati delle interviste, in cui racconta che le sue paure sono dovute a traumi infantili subiti per il comportamento di suo padre. Che era un donnaiolo e aveva una relazione con la bambinaia che viveva in casa, accudendo lei, le due sorelline e il fratellino. Mentre la mamma fingeva di nulla.

Louise racconta che questa situazione, in fondo più simile a una pochade che a un dramma, ha costituito la tragedia della sua vita. Che si aggiungeva al “tragico” disagio – lei dice – che provava per “lo sforzo di farsi perdonare il fatto di essere nata femmina”, mentre suo padre desiderava un maschio. Ha dichiarato che la psicanalisi e la scultura le sono servite per dare tregua alle sue ansie.

Se le cose stessero soltanto così, se dovessimo vedere nelle opere della Bourgeois soltanto delle lagne personali, non ce ne interesseremmo più di tanto. Ma spesso gli artisti esprimono, malgrado sé stessi, delle verità che non sanno di dire.  Così la B, forse senza esserne pienamente cosciente, descrive l’evoluzione presente e futura della figura femminile, cioè il progetto di una nuova immagine di donna, che si avvererebbe con l’eliminazione di quella antica. Per comprendere la moderna femminilità occorre cancellare dalla propria mente la tradizionale immagine della donna. La donna via via,sempre di più, sembra dire la Bourgeois, dovrà trasformarsi in un essere diverso.

D’altronde la stessa storia dell’arte, a mio avviso, lo testimonia. Il processo di disidentificazione è iniziato, potrei dire, con l’immagine della Libertà di Eugène Delacroix (1798/1863) che, con una bandiera in una mano e un fucile nell’altra, avanza baldanzosa calpestando i cadaveri dei vinti in battaglia. Ma continua più decisamente  nel Novecento. Certo, nel corso del tempo, la donna si era continuamente evoluta ma pur sempre, mi sembra, conservando le fondamentali caratteristiche femminili.

Ce lo testimonia anche un rapido excursus nella storia dell’arte che parte da 25.000 anni fa, dalla Venere di Willendorf, del Naturhischeìtriches di Vienna: il ventre gonfio come gravido di prole, i seni gonfi di latte parlano di una dea che dà vita e nutrimento. Come le granitiche (e di granito)  Matres Matutae del Museo Campano di Capua. Poi la figura femminile splende nelle Veneri, si ingentilisce nelle figurazioni magnogreche delle ceramiche tarantine e della Primavera di Stabia. Diventa preziosa nelle teorie bizantine delle Beate, quando le Sante cristiane si vestono pudicamente ma mostrano il seno nudo delle Madonne del Latte.

Più tardi, ridiventano dee pagane nelle eleganti figurazioni di Botticelli, che sembra rifarsi, per vie sconosciute, alle donne magnogreche. E si dimostrano soddisfatte di essere amate dal maschio le donne di Tiziano e di Luca Giordano, che potrebbero consolare una bambina che si dispiace di lasciare l’infanzia, svelandole il loro felice abbandono. Che diventa sensibilissimo e palpitante nell’abbandono mistico della Santa Teresa del Bernini. E sono femminilissime le donne del Settecento, sia quelle del Serpotta, che, nell’oratorio di San Lorenzo, in contrasto con la severa Natività di Caravaggio (poi trafugata), si coprono, maliziose, di elegantissimi vestiti, sia quelle che si spogliano audacemente con sorridente coquetterie nei dipinti di Francois Boucher, sia quelle  dolci fanciulle sognanti che fecero sognare gli uomini, nei dipinti di tanti.

Tutte così vincenti da far dire a Elisabeth Vigée le Brun: “nel vecchio regime regnavano le donne, la Rivoluzione le ha detronizzate”. Invece la Bourgeois considera questa antica donna perdente e vittima della violenza ancestrale dell’uomo contro di lei.

Così le “Cinque donne in strada” di Ludvig Kirkner già si stanno modernizzando e sono eleganti signore, tutte uguali ed erotiche senza sensualità. Dopo poco Max Ernst dice che la donna è malvagia, lo è perfino la Madonna che, con cattiveria, bastona il piccolo Gesù.  Ed ecco Magritte a dire che per lui la donna non esiste più: ne resta un vestito senza corpo e delle scarpe con il tacco e senza piedi, soltanto con delle unghie laccate.

E c’è Otto Dix che incalza e dipinge la caricatura della donna moderna nel ritratto della giornalista Sylvia von Harden, che fuma nervosamente una sigaretta, guarda saccente attraverso il monocolo e ha una sciatta calza male arrotolata. Drastico è Willem de Kooning, che dipinge più volte un’immagine orribile e paurosa intitolandola “Woman”, la nuova donna. E una donna futuribile è il ragno gigantesco asessuato, terribile e tutto nero, che stava appostato, nel 2008, nel cortile della Reggia-Museo di Capodimonte.

La bambola di pezza, sarà, fino al 17 aprile, in una teca, in una sala dello stesso museo, accanto alla Sant’Agata di Francesco Guarini (o Guarino).

Adriana Dragoni

gia pubblicato su agenziaradicale.com

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte

Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte

 

 

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