INIZIÒ NEL 1796 DI RAIMONDO ROTONDI
Ho già accennato alle sfumature eccentriche della storia arpinate, in parte coincidenti con identiche eccentricità della storia finale del Regno delle Due Sicilie. I noti avvenimenti del 1860 videro alto-borghesi privilegiati, funzionari di rango elevato, ufficiali superiori dell’esercito e della marina, schierarsi contro il sistema statale al quale dovevano tutto, determinandone il crollo.
Pochi di quei signori, che “segarono il ramo sul quale erano seduti”, trovarono poi una qualche sistemazione di ripiego, seppure vassalla, nel nuovo sistema. Altri furono trattati semplicemente a “pesci in faccia” e liquidati con il classico “calcio nel sedere”, non appena la loro opera non meritoria non fu più necessaria.
A questo proposito la storia delle mie zone e in particolare del mio paese, Arpino, è emblematica. Occorre ricordare che il territorio comprendente Arpino, Castelluccio (oggi Castelliri), Isola di Sora (oggi Isola del Liri), Sora, con propaggini nelle vicine Valle Roveto e Valcomino, era a metà dell’ottocento una delle zone più industrializzate d’Europa. Cartiere, feltrifici, lanifici, fonderie e miniere davano lavoro a più di metà della popolazione. Grazie a queste attività alcune famiglie avevano accumulato enormi fortune. E proprio da quelle famiglie privilegiate provennero i più strenui nemici dei Borbone. Mi sono sempre chiesto da cosa traesse origine tanto astio nei confronti di una dinastia reale che, in fondo, aveva arricchito e faceva vivere nel lusso i sedicenti oppositori.
Per quanto riguarda Arpino ho il sospetto che gli avvenimenti del 1796 possano avere qualche responsabilità. Cercherò di riassumerli, basandomi sui pochi frammenti di storia locale reperibili e sulle memorie di Ferdinando IV, pubblicate nel 1965 da Umberto Caldora.
All’inizio di quell’anno Arpino era parte del Ducato Boncompagni Ludovisi, insieme a Sora, Alvito, Arce, Rocca d’Arce, Brocco (odierna Broccostella), Castelluccio (odierna Castelliri), Coldragone, già frazione di Rocca d’Arce (attualmente comune con il nome di Colfelice), Fontana (oggi Fontana Liri), Isola di Sora (oggi Isola del Liri), Palazzolo (oggiCastrocielo), Colle San Magno, Terelle, Roccasecca, Aquino, Santopadre, Schiavi (attuale Fontechiari), Casale (oggi Casalattico), Casalvieri, Pescosolido. Si preannunciava, però, il primo atto di “eversione della feudalità” del Regno di Napoli. Già Carlo di Borbone aveva ricondotto nell’ambito delle prerogative statali molte funzioni arrogate in modo improprio dai feudatari. Il penultimo duca Gaetano Boncompagni Ludovisi non aveva gradito la novità e, dal 1747, si era trasferito a Roma, ovverosia in uno stato estero. Il figlio Antonio II Boncompagni Ludovisi, duca agli inizi del 1796, era stato sempre a Roma e non conosceva il territorio che in teoria amministrava. I Boncompagni Ludovisi, per quasi mezzo secolo, si erano accontentati delle rendite che comunque riusciva a dare il ducato, senza occuparsene più di tanto. Ho il fondato sospetto che le famiglie più ricche e in vista avessero approfittato della prolungata assenza per fare un po’ come gli pareva, e improvvisarsi “feudatari facenti funzione”. Dal 1794 era, però, iniziata la fine della pacchia. Ferdinando IV aveva dato inizio alla costruzione della “consolare”, che doveva unire Napoli ad Avezzano passando per i paesi della parte estrema della provincia di Terra di Lavoro. Il costo stimato di 300.000 ducati doveva essere coperto in parte mediante la tassazione dei comuni posti fino a 10 miglia (circa 15 Km) dal tracciato che, per tre anni, avrebbero versato una quota di 800 ducati per ogni mille abitanti. Per un paese come Arpino, che all’epoca contava circa tredicimila abitanti, si trattava di un esborso consistente, pari ad oltre 1/10 del costo dell’intera opera. La ventilata tassa creò di sicuro più di qualche malcontento fra i ricchi industriali lanieri del paese, chiamati a farsi carico della maggior parte di una spesa notevole, mentre erano abituati da decenni a pagare poco o nulla.
Altre spese occorrevano per preparare l’arrivo del Re Ferdinando IV, previsto per il 15 maggio 1796 nell’ambito delle complesse trattative per il pieno reintegro del ducato nel demanio.
Fra marzo e aprile giunsero in Arpino il “real equipaggio” e un distaccamento di “soldati del Re”, a peggiorare la situazione di caos già esistente nell’angusto centro abitato. L’Arpino dell’epoca doveva somigliare molto ad alcune odierne città del sud est asiatico. Gli ancora esistenti vincoli feudali confinavano la maggior parte delle attività all’interno delle mura, dove 7-8000 addetti lavoravano ogni giorno in una miriade di laboratori artigiani, fabbriche e fabbrichette per la tessitura e la tintura della lana. Ogni sotterraneo, seminterrato, stamberga, grotta e/o locale comunque utilizzabile era stipato di vasche, macchinari, materiali grezzi, semilavorati, prodotti finiti, scarti, ingombri di ogni genere. La mancanza di spazio non impediva la lavorazione di un’enorme quantità di lana, solo in parte proveniente da allevamenti locali. I prodotti finiti, che avevano raggiunto ottimi livelli qualitativi, venivano poi esportati in tutto il mondo. La rete di trasporti era costituita da carriaggi, carovane di muli, e altri mezzi vari, a trazione umana e animale. Altro traffico era generato dai rifornimenti dei generi di prima necessità, alimentari e non, provenienti ogni giorno dai paesi vicini. Le tintorie consumavano grandi quantità di legna da ardere, fornita da un esercito di boscaioli e dal continuo andirivieni di carovane di asini e muli.
“Real equipaggio” e “soldati del Re” peggiorarono il costante ingorgo. Fu necessario addirittura demolire alcune case lungo l’odierna Via Aquila Romana (già Via Vecchia), per allargare il tracciato e consentire il transito delle grosse carrozze. Altro problema derivò dall’alloggio già critico per gli abituali residenti, costretti a contendersi lo spazio con telai, macchinari e merci, arrangiandosi come potevano.
Nel frattempo un certo Napoleone Bonaparte aveva iniziato la sua “Campagna d’Italia”. Il 10 maggio 1796 sconfisse gli Austriaci a Lodi. A fianco degli Austriaci combattevano duemila cavalieri napoletani, che risultarono decisivi per coprire la ritirata ed evitare il disastro totale. Napoleone rimase impressionato dalle loro manovre spericolate e li soprannominò “Diavoli Bianchi”.
A causa della sconfitta Ferdinando IV rinviò la visita del 15 maggio e iniziò una serie di attività per rafforzare l’esercito e la difesa dei confini, con un arruolamento di massa straordinario. Il rinvio comportò anche il ritiro di “Real equipaggio” e “soldati del Re”, e il momentaneo alleggerimento della situazione di Arpino. Il sollievo fu di breve durata, perché pochi giorni dopo arrivarono ben 594 Picchieri di Marina, che furono alloggiati alla meno peggio nel palazzo Boncompagni e nelle costruzioni vicine. I Picchieri, che nei giorni seguenti sarebbero diventati più di tremila, erano combattenti temibili, ma anche turbolenti, riottosi e indisciplinati. A detta dello stesso Ferdinando IV, erano la “feccia del lazzarismo di Napoli”. Possiamo immaginare quanti problemi riuscì a creare l’arrivo di un contingente così numeroso, di quel genere di soldati, in un già caotico centro abitato.
Problemi simili assillavano tutti i paesi lungo la frontiera, da Fondi al Tronto, dove i comandi avevano scelto di accantonare le truppe. Per dirla con le parole di Pietro Colletta: “Accorrevano da ogni parte i soldati, con tanta voglia pronta che la diresti da repubblica e non da signoria. E quando l’esercito fu pieno andarono trentamigliaja nei campi e alloggiamenti della frontiera per guardia e minaccia.”.
Lo stesso Colletta ci parla dei guai conseguenti: “Molti soldati raccolti sopra piccoli spazi, poca scienza, nessun uso di milizie, amministratori nuovi, nuovi uffiziali, generali stranieri, componevano l’esercito; e la inespertezza universale ingenerò molti mali.”.
Napoleone non sapeva nulla di quella “inespertezza universale”. Aveva visto all’opera i “Diavoli Bianchi” e pensava che anche le reclute principianti di quel tentativo di bozza di esercito fossero allo stesso livello. Aveva ritenuto di cautelarsi firmando l’armistizio di Brescia con il Regno di Napoli, il 5 giugno 1796.
Ferdinando IV non si fidava di Napoleone e continuò a incrementare il dispositivo di difesa. Il 30 giugno emanò un editto “per la consegna di fucili del calibro di tre quarti di oncia inclusive in sopra per armare i volontari, non consentendo né l’urgenza, né le circostanze di provvedere in altro modo, neppure all’estero.”.
L’editto chiarisce bene qual era la situazione del Regno: imbelle, disarmato e privo di ogni esperienza e preparazione militare dopo oltre mezzo secolo di pace. Non esisteva più un vero e proprio esercito e neanche uno stato maggiore degno di quel nome. I pochi reparti operativi erano composti da mercenari e comandati da ufficiali mercenari. La leva di massa stava avendo successo, ma le reclute inesperte si trovavano ad essere guidate da ufficiali alle prime armi, altrettanto inesperti. La folle imperizia con la quale si era deciso l’accantonamento delle truppe nei centri abitati, la dice lunga anche sul livello di preparazione dei comandi superiori.
In quella situazione di caos totale, il 4 luglio 1796, Ferdinando IV giunse in Arpino, dove sarebbe rimasto, con brevi intervalli, per un lungo periodo. Doveva firmare, fra l’altro, la ratifica del reintegro nel demanio del Ducato Boncompagni Ludovisi. La complessa trattativa fra i rappresentanti del Duca e l’avvocato Don Nicola Vivenzio, incaricato dalla corte, era in corso da tempo e si avviava oramai alla conclusione. Il primo atto di “eversione della feudalità” del Regno di Napoli era un avvenimento importantissimo, ma il Re, come si evince dalle sue memorie, sembrava più preoccupato dai venti di guerra e dall’approntamento del suo tentativo di esercito.
Il primo problema che si trovò ad affrontare, appena giunto, fu, però, di carattere locale e particolare. Lo racconto con le sue parole: “Ci sono due Collegiate, che da tanti anni si contrastano e dispendiano per la preminenza. L’una è attaccata alla casa dove abito, e si dice da tutti essere la più antica; onde io lì avrei dovuto andare a smontare ed essere da quella ricevuto. L’altra è più giù, attaccata al quartiere dove sono alloggiati i signori picchieri, e dove essi hanno fatto una novena a San Gennaro; subito dunque hanno sposato il partito della loro Chiesa, perché io in quella andassi. Prima dunque che io arrivassi è mancato poco che non ne nascesse una guerra. Acton e i generali Parisi e Minichini hanno quietato la faccenda e io ho dovuto, per quieto vivere, andare a tutte due; prima però a quella dei marinari che dappertutto avevano posto le loro sentinelle con le picche.”.
Le due collegiate “dispendiavano per contrastarsi” già da qualche secolo. La saga interminabile e mai terminata, incomprensibile per noi “moderni”, aveva visto di tutto: false testimonianze, falsi documenti, processi infiniti, sperpero di incredibili somme di denaro, duelli, risse, attentati, linciaggi, morti. Niente male per due istituzioni religiose, teoricamente tenute a diffondere gli insegnamenti di Cristo.
Il Re Ferdinando IV, evidentemente basìto da quell’antica sconcertante disputa così poco religiosa, cercò di mantenersi equidistante dai contendenti per tutto il periodo della sua permanenza ad Arpino, riuscendo, però, soltanto a indispettirli entrambi.
Nel frattempo, mentre le “collegiate” continuavano la rissa secolare, il Re passava in rivista i soldati e i volontari, che continuavano ad arrivare ad Arpino e nei paesi vicini. Assisteva anche alle esercitazioni, quasi sempre insoddisfacenti “non per causa dei soldati, che sono pieni di buona volontà, ma degli ufficiali che sono del tutto ignoranti del loro mestiere.”.
Doveva esserci, credo, qualcosa di sbagliato nei meccanismi di selezione degli ufficiali del Regno, come avrebbero ben dimostrato gli avvenimenti dei decenni successivi. Gli ufficiali del 1796, a detta di Ferdinando IV, oltre ad essere incapaci, mostravano anche poca volontà, facendosi trovare “in pettola”, o addirittura a letto, negli orari fissati per le esercitazioni, oppure presentandosi alle stesse “col trommonciello di vino annevato, come se andassero a Posillipo”. L’inesistente preparazione, la scarsa professionalità e l’impegno nullo degli ufficiali avrebbero prodotto, all’esame dei campi di battaglia, i pessimi risultati che conosciamo. Nel frattempo, oltre alle inqualificabili esercitazioni, l’imperizia nell’accantonamento delle truppe stava creando i primi problemi sanitari nelle improvvisate camerate.
Il 9 luglio 1796 giunse in Arpino anche la Regina Maria Carolina d’Austria, che sarebbe rimasta fino al 14, ovviamente contesa dalle tempestose “collegiate”, sempre pronte a sfruttare qualsiasi occasione nella loro particolare lotta per la “matricità”.
I coniugi reali, sposati da 28 anni e con ben 16 figli, continuavano ad amoreggiare e bisticciare come due fidanzatini, o almeno così risulta dal diario e dalle lettere di Re Ferdinando. È divertente notare che, secondo il costume dell’epoca, Ferdinando IV segnalava nel diario, con un asterisco, il compimento dei “doveri coniugali”. Le giornate di permanenza ad Arpino della moglie sono piene di asterischi. Il 15 luglio, alla moglie tornata a Napoli scriveva: “Arpino non è più lo stesso per me, perché mancandoci tu è un corpo senz’anima.”.
Il 20 luglio un’altra lettera alla moglie segnalava il “crescere di qualche malattia”, e l’insufficienza degli “ospedali provvisionali”.
Si trattava delle prime avvisaglie dell’epidemia, forse di tifo, che avrebbe devastato tutti i paesi lungo la frontiera, provocando almeno diecimila morti fra i soldati, a detta di Colletta. Non ho trovato nessun dato sulle vittime civili, che furono tantissime. Ad Arpino, dove il contagio fu micidiale a causa del sovraffollamento, il numero dei morti superò la capienza dei soliti luoghi di sepoltura. L’esteso “Civico Cimitero di San Giacomo”, distante poche centinaia di metri dal centro abitato, fu completamente riempito e definitivamente chiuso. In quell’occasione si utilizzò per la prima volta il sito nei pressi del “Convento dei Cappuccini”, sede dell’attuale Cimitero Comunale.
La situazione doveva essere tanto grave che addirittura le due rissose “collegiate”, di solito indifferenti a tutto ciò che non riguardava la loro disputa, notarono che c’era “un’epidemia in Città” che faceva “grandissima strage dei cittadini e forestieri nell’accantonamento dei soldati”.
All’epoca le malattie e la morte erano affrontate con fatalismo, e considerate ineluttabili al pari di altri fenomeni naturali. Nessuno pensò al “distanziamento sociale” o al “lockdown”. Continuarono addirittura ad arrivare soldati e volontari. Una “task force” militare si limitò soltanto a consigliare alcune generiche norme d’igiene, fra l’altro irrealizzabili nel formicaio umano che era diventato Arpino.
Pensarono, comunque, di salvaguardare la salute del Re, che il 23 luglio tornò a Napoli.
Iniziava intanto a serpeggiare il malcontento anche fra i soldati e i volontari, spediti in gran numero in paesi che non potevano alloggiarli in modo adeguato. Il 1° agosto, a Mignano, il Sindaco fu ucciso durante una lite con i militari. Iniziava anche a verificarsi qualche caso di diserzione.
Il 5 agosto il Re ripartì verso i confini, forse per contribuire a ristabilire l’ordine. Nello stesso giorno concesse gradi e onorificenze a quelli che si erano prodigati per promuovere l’arruolamento di massa, a volte armando e vestendo a loro spese i volontari.
Il 6 giunse a Gaeta dove fu ricevuto da Tschoudy, “famoso” perché nel 1799, senza neanche provare a resistere, avrebbe “regalato” la quasi imprendibile fortezza ai Francesi. Ferdinando IV conosceva benissimo l’inefficienza di quell’ufficiale, tanto è vero che lo usava come termine di paragone negativo quando incontrava altri ufficiali non all’altezza della situazione: “Ecco un altro Tschoudy”. Ciò nonostante, nel 1799, Tschoudy si sarebbe trovato ancora a capo di uno dei capisaldi della difesa del Regno, con le ovvie conseguenze.
L’8 agosto Ferdinando IV tornò ad Arpino.
La reazione nei confronti delle epidemie era davvero diversa a quei tempi. Noi che, alle prese col Covid-19, dichiariamo “zone rosse” in presenza di pochi positivi asintomatici, non riusciamo a capire come in un paese sovraffollato, dove la mortalità superava la capienza dei cimiteri, continuassero ad arrivare soldati. Ai 3.300 Picchieri si era nel frattempo aggiunto un intero contingente di “Granatieri Esteri”, oltre alla consueta scorta del Re.
Il 10 il Re fu raggiunto dalla moglie che, fra bisticci e “asterischi”, si sarebbe trattenuta fino al 17.
Il 12, con “Regio Dispaccio”, fu reintegrato nel demanio l’intero ducato Boncompagni Ludovisi, che fu diviso in quattro giurisdizioni, rette da un governatore di nomina regia.
Non ho trovato notizie sull’insediamento del governatore in Arpino, anche se sospetto che non riuscì a farsi troppo benvolere dai lanieri più abbienti. Nel 1799, quando avrebbe provato a reinsediarsi dopo il ritiro dei Francesi, sarebbe stato infatti assalito, linciato e decapitato da un gruppo di lanieri guidato da un tale Macciocchi, poi impiccato.
Il reintegro nel demanio non dovette essere indolore per gli straricchi industriali del paese, abituati a fare il comodo loro da mezzo secolo e non più avvezzi alle regole e al fisco del Regno.
Nel diario di Ferdinando IV la giornata del 12 passò quasi inosservata, anche perché il “Regio Dispaccio” di tale data fu solo l’atto conclusivo di una complessa trattativa in corso da lungo tempo.
Nel paese, intanto, continuava l’epidemia, tanto “che ne morivano otto o dieci al giorno” a detta del Re. Quest’ultimo, nonostante l’epidemia, continuava il suo peregrinare fra Napoli, Arpino (dove era alloggiato) e altri paesi dell’Alta Terra di Lavoro, cercando si soprintendere alla costituzione dell’esercito, fra ufficiali mediocri ed esercitazioni mai troppo soddisfacenti. Tutto continuò fino al 10 ottobre, quando fu sottoscritto il trattato di pace “di Parigi” con il Direttorio francese.
Da quella data la necessità di prepararsi alla guerra fu ritenuta meno impellente. Molti reparti di volontari furono smobilitati e le esercitazioni scemarono. Quella che non scemò affatto fu l’epidemia, che continuò a imperversare per un altro intero anno. Ad Arpino nell’estate del 1797 erano ancora segnalati centinaia di malati. La quasi ecatombe influì di sicuro sulla vita sociale ed economica del paese. I ricchi lanieri, già traumatizzati dal reintegro di Arpino nel demanio, videro anche ridursi o azzerarsi i loro guadagni. Dovettero inoltre sostenere l’impatto dell’alloggio dei soldati e del ricovero dei malati, il più delle volte in edifici di loro proprietà. L’esercito pagò con “obbligazioni” che, data la situazione caotica degli anni seguenti, sarebbero rimaste lettera morta o sarebbero state onorate con molto ritardo. La simpatia nei confronti del Re non poteva trarne beneficio.
Si sa che le disgrazie non amano la solitudine. Negli primi mesi del 1798, quando le conseguenze negative del 1796 erano ancora ben presenti, i Francesi invasero lo Stato Pontificio, arrestarono il Papa Pio VI e proclamarono la “Repubblica Romana”. Ferdinando IV, nonostante la situazione ancora disastrosa, si sentì obbligato a intervenire. Fu bandito un altro frettoloso arruolamento di massa. Ai primi di novembre 1798 un esercito di nuove reclute inesperte e prive di addestramento, con gli stessi ufficiali “mediocri” del 1796 e l’appena nominato comandante in capo Mack, attaccò l’agguerrito esercito francese della “Repubblica Romana”. Dopo alcuni fortunosi successi iniziali, l’inevitabile sconfitta si trasformò in rotta disastrosa. Mack pensò soltanto a fuggire, senza preoccuparsi di organizzare almeno una linea di resistenza al confine. Ordinò, al contrario, di distruggere le scorte di polvere e chiodare i cannoni, lasciando completamente indifesa la frontiera.
Alla vigilia di Natale del 1798 le truppe francesi guidate da Pamphile Lacroix entrarono in Arpino e, secondo un copione che si sarebbe ripetuto spesso in quei giorni, trovarono i possidenti locali ad accoglierli con giubilo, subito disposti a danzare sotto “l’albero della libertà”. Tanta abnegazione non li salvò dalle pesantissime contribuzioni imposte dagli occupanti, che furono i primi frutti di quell’albero. Non li salvò soprattutto dall’ira funesta del superstite popolo d’Arpino che, secondo quanto narra Ugo Foscolo, insorse, trucidò i soldati francesi e “diede il sacco” ai possidenti, colpevoli di aver accolto gli esosi occupanti. Molti di essi furono costretti a fuggire, e alcuni sarebbero tornati in paese soltanto nel 1806.
Le due rissose “collegiate” parteciparono a loro modo anche a quegli avvenimenti. Una delle due fornì alcuni elementi di spicco dell’effimera Repubblica Napoletana. L’altra fornì la maggior parte dei volontari della “truppa a massa” arpinate, protagonista di aspri scontri con le truppe francesi nei dintorni di Capua.
Si era in realtà creata, anche all’interno di Arpino, una netta spaccatura sociale fra i ricchi sedicenti “patrioti”, schierati con gli occupanti stranieri, e i popolani della “truppa a massa” che realmente s’impegnarono in difesa della patria.
Quella spaccatura sociale non si sarebbe mai sanata del tutto e sarebbe stata una delle cause che avrebbero portato, qualche decennio dopo, alla fine del Regno.
Raimondo Rotondi