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Introduzione a Durelli, Saggio sulla questione napoletana di Gianandrea de Antonellis

Posted by on Gen 15, 2025

Introduzione a Durelli, Saggio sulla questione napoletana di Gianandrea de Antonellis

Introduzione

All’indomani dell’invasione garibaldino-sabauda, le voci di critica al regime sabaudo imposto nei territori dell’ormai ex Regno delle Due Sicilie si diffusero ampiamente. Le prime furono – come è ovvio – quelle dei legittimisti, legati alla Dinastia borbonica, che magari avevano pagato di persona il proprio attaccamento e/o il rifiuto di accettare di passare dalla parte degli usurpatori (perdendo la possibilità di fare carriera nell’esercito o nella burocrazia, oppure venendo additati come reazionari e trattati come paria).

Ben presto, però, dato il malgoverno “piemontese”, il numero degli scontenti si allargò anche a coloro che erano stati fautori dell’unità (i cosiddetti italianissimi): mazziniani che non volevano limitarsi all’unificazione, ma puntavano ad abbattere la monarchia; garibaldini entrati nell’esercito che si vedevano snobbati dagli ufficiali di carriera; cavourriani fautori dell’ordine che non vedevano di buon occhio l’eccessiva presenza di camorristi (a cui si erano peraltro inizialmente rivolti) nei posti di comando… insomma, il caos subentrato con l’arrivo dei “liberatori” non colpiva solamente l’aristocrazia nostalgica, l’esercito fedele o i giornalisti presi a bastonate, ma riguardava l’intera società napolitana. E nei decenni successivi gli imponenti flussi migratori da una terra che fino ad allora era stata immune della piaga dell’emigrazione avrebbero confermato che il disagio si sarebbe esteso a tutti gli strati sociali, soprattutto ai più deboli.

Naturalmente, essendo apparso nel 1862, il presente Saggio sulla quistione napoletana considerata dalla stampa rivoluzionaria – che si potrebbe attribuire a Francesco Durelli[1] (1823-1863) per le somiglianze di alcuni punti con il coevo (e più celebre) Colpo d’occhio su le condizioni del Regno delle due Sicilie nel 1862 (anch’esso ripubblicato da questa stessa casa editrice) – non parla del grave problema dell’emigra­zione, ma comunque lamenta lo stato di depressione che, a pochi mesi dall’annessione al Piemonte ha colpito l’intero (ex) Regno.

Il saggio si presenta diviso in due parti: si apre con una prima sezione di commento, divisa in 25 paragrafi (p. 5-49), cui ne segue una seconda di antologia di testi tratti dalla “stampa rivoluzionaria” (p. 51-120); infine sono aggiunge 25 pagine (in numero romano) che raccolgono le 21 note relativa alla prima parte.

Questi sono i temi trattati nei 25 paragrafi della prima parte:

1. Napoli, capitale di livello europeo, è divenuta una provincia di Torino.

2. Il fastoso passato è ormai scomparso.

3. Anche i Siciliani rimpiangono i benefici del periodo borbonico.

4. Spaventa il vuoto lasciato dal non essere più capitale.

5. Elenco di alcune grandezze morali, civili e politiche di Napoli.

6. Napoli inorridisce nel vedere distrutti i suoi usi, costumi, tradizioni; per la fusione del debito pubblico con quello piemontese e per la guerra civile scatenata dall’invasione straniera.

7. Approfondimento sulle disastrose finanze piemontesi.

8. Florido stato delle finanze napolitane prima dell’invasione.

9. La stampa rivoluzionaria, che ha preparato l’invasione, è stata protetta dall’Inghilterra.

10. Le falsità inglesi (e di Gladstone in particolare) sono state smentite dalla stampa di mezza Europa (compreso l’unitario Petruccelli della Gattina).

11. Denuncia dell’ipocrisia falsità dell’ambasciatore sardo a Napoli.

12. Denuncia dell’ipocrisia di Cavour.

13. Errori napoletani: non aver inviato l’erede al trono come viceré in Sicilia ed aver chiamato al governo personaggi come Liborio Romano.

14. Denuncia della corruttela operata dagli unitari.

15. Le criminose azioni di Cialdini.

16. Uso del linguaggio come arma: l’epiteto di briganti e reazionari affibbiato da parte dei sedicenti galantuomini a coloro che non si conformano al nuovo stato di cose.

17. Ipocrisia della stampa piemontese.

18. Ogni esagerazione di principi mena all’abisso e non si può retrocedere se si patteggia con gli estremisti (concessione della costituzione).

19. Il popolo si è sollevato solo quando sono giunti i garibaldini. Evidenti brogli elettorali.

20. Non ci sono due diritti in lotta (l’antico e il nuovo): nel mondo c’è un solo diritto, fondato sull’eterno principio della giustizia.

21. Il Piemonte è il regno meno italiano di tutti.

22. I Napoletani considerano i Piemontesi nuovi padroni e non liberatori.

23. I Napoletani, sempre pacifici, adesso insorgono.

24. Nessun Napoletano (tranne gli emigrati) desiderava un cambio di dinastia.

25. La questione napoletana per il Piemonte da causa di vantata liberazione è divenuta causa dinastica; e per Francesco II, da causa dinastica, vera causa di liberazione se non di umanità.

Il “solito” elenco di mali, si potrebbe dire. No: in questo caso la novità consiste nel sostenere le affermazioni con articoli tratti dalla stampa “rivoluzionaria” ovvero filo-unitaria:

Le quali cose tutte sono compruovate non pure dai fatti; ma dalla irrecusabile testimonianza della stampa rivoluzionaria, di cui siegue la rapsodica e brevissima raccolta. Potrà così spiegarsi come un governo rovesciato dalle arti di quanto v’ha su la terra di più empio e degradante, trincerandosi nella coscienza del suo diritto e del suo bene oprato, crede rispettare se stesso preferendo un dignitoso silenzio ad una polemica clamorosa contro nemici, che hanno sempre eretta la menzogna e la calunnia per unico loro sistema.[2]

Nella seconda parte, infatti inizia l’antologia di articoli della stampa liberale, che contempla giornali e riviste di varia estrazione geografica, di cui l’autore indica spesso la tendenza. Ce ne sono tre francesi: il Constitutionnel, «organo ufficioso del governo francese»[3]; La Patrie, «foglio ufficioso del governo francese»[4]; e il decano Les Débats[5].

I giornali piemontesi sono cinque: Il Diritto, «giornale torinese»[6]; il Cittadino d’Asti, «foglio ufficioso del ministero piemontese»[7]; i torinesi La Monarchia nazionale[8], Espero[9]e Gazzetta del Popolo[10]. Ad essi vano affiancati i liguri la Gazzetta di Genova, «della quale ognuno sa le tendenze liberali»[11] (p. 54); il Movimento di Genova (definito foglio liberale)[12] e il Corriere Mercantile[13] (di Genova).

Altri fogli citati sono il «giornale ministeriale»[14] milanese La Perseveranza (1859-1922), che nel periodo 1866-1874 sarebbe stato diretto da Ruggiero Bonghi; L’Unità italiana[15] (anch’esso di Milano) e il fiorentino (tuttora esistente) La Nazione, definito «periodico notissimo fra i più caldi e tenaci propugnatori dell’unità» e «ministeriale»[16].

Passando a Napoli, partenopee sono le testate «L’Omnibus», «fattosi zelante difensore dei nuovi dominatori»[17]; L’Opinione nazionale, giudicato«semi-officiale»[18]; Il Popolo d’Italia, bollato come «periodico del Nicotera e del Colucci»[19]; Il Nomade, «giornale diretto e scritto dai famosi Lazzaro e Sterbini»[20]; Il Nazionale, «foglio del ministero» e «eco dell’impudente Minghetti»[21]; La nuova Italia. Giornale politico letterario nato nell’agosto del 1860[22]; Il Lampo, uscito nel biennio 1860-1861,su cui scriveva il “pentito” Giovanni La Cecilia[23]; La Democrazia. Gazzetta italiana, che uscì dal 1861 al 1862; L’Italia (apparsa nel solo 1861) e infine La Pietra infernale. Giornale popolare[24], citata solo alla fine e solo una volta, nonostante l’identità di vedute, perché il linguaggio usato per la propria satira era ritenuto eccessivo dallo stesso Durelli[25].

Non è invece chiaro a quale giornale faccia riferimento quando cita (p. 55) L’Unità di Napoli (nel 1861 uscì L’Unità Cattolica, ma non sembra essere un giornale “rivoluzionario”). L’autore cita infine anche lunghi brani tratti dalla Gazzetta ufficiale e dagli Atti o Rendiconti della Camera.

Fonti “rivoluzionarie”, “liberali” e “italianissime”, dunque, concordi nel criticare il malgoverno piemontese e nel denunciare la corruttela della nuova classe dirigente. Innanzitutto viene sottolineata la grave crisi economica che la guerra ha causato:

«Il paese è malcontento: cercava fratelli e trova dominatori. […] Il rincarire degli affitti, del sale, dei cereali, degli oggetti di prima necessità, la mancanza di lavoro e la scarsa circolazione del numerario hanno sconfortati, disgustati tutti gli animi. Il popolo ogni dì sente i bisogni ed ogni dì vede scemare i mezzi di far fronte alla crisi. Gli arresti arbitrari di ottimi cittadini e la penuria crescente in tutto il paese dimostrano ad evidenza che l’inettezza, se non peggio, presiede ai consigli del governo».[26]

Tra le lamentale varie, emergono due termini che hanno avuto una certa fortuna letteraria: la consorteria (che ricorre nell’anonimo Ernesto il disingannato) e i pericolosi virgolatori (citati da Carlo Alianello ne L’alfiere). La consorteria è data dall’unione di liberali e camorristi, che ressero il governo napoletano alla caduta del Regno; si tratta (per i primi) soprattutto di fuoriusciti napolitani del 1848 (e costoro furono i più feroci calunniatori dei Borbone e le vere cause della nascita e diffusione della leggenda nera antiborbonica)[27]:

Gl’inesorabili istrumenti della tirannide piemontese, quelli che in maggior numero allo straniero dominatore provavansi di soggiogare a furia di stragi, di rapine e d’incendi le patrie terre, dilapidarne i tesori, falsarne lo spirito pubblico erano c sono per l’appunto coloro che camuffati della veste di esuli dal regno napoletano per delitti politici a Londra, a Parigi, a Losanna e per ultimo a Torino erano andati imparando l’economia ed il meccanismo di una tirannide, che le terre del regno siculo non avevano mai provata. Contro costoro, pretesi martiri di ieri persecutori spietati l’indomani, non hanno bastanti parole di spregio, che bastino, il Nomade ed il Popolo d’Italia, giornali (come ognuno sa) compilati anch’essi da emigrati politici. Di essi diceva il Popolo d’Italia (25 settembre 1861): «La consorteria di Napoli, schiera di martiri, satolli, si è data la posta a Firenze[28], quindi un ite e venite di genti infinite. Essa non agogna l’esposizione di Firenze, ma il potere. Vedendo sfuggirgliesi a Napoli, corre in riva all’Arno per riafferrarlo.[29]

Non è l’unico passaggio contro questa genia di traditori:

«Ad uno ad uno, tutti vennero al potere, ebbero la gioia di ricevere da semidei le suppliche di quelli che avevano schiuse le porte della patria; ad uno ad uno fecero esperimentare col fatto il loro valore nominale sicché il paese scontò l’errore di averli creduti grandi e lo scontò con durissimi disinganni, non si contentarono del rispetto e del potere, ma divennero terribile setta, per cui era nemico chiunque non scendeva ad inchinarsi e ribelle chiunque osava contradirli. Posti, onori, ricompense, tutto fu dato agli amici dei loro amici, a servi dei loro servi, a cagnotti dei loro cagnotti».[30]

E più sotto si consiglia di rispedirli nel loro amato Piemonte:

Ed ancor più tardi, dopo passati di molti mesi, il Nomade ritrova motivo di adirarsi contro gli emigrati napoletani che il governo piemontese spediva a tiranneggiare la loro patria: «Egli è tempo ormai che la razza emigrata si disperda, e se il governo piemontese senti bisogno di valersene, la compensi, se pure la rea consorteria non si compensò da se medesima, e ci privi pure di sì care gemme che non son punto necessarie alla nostra corona. Noi rinunciamo di buon grado a tali uomini. Il governo piemontese li trovò buoni cittadini, volle crederli grandi e probi; se li tenga dunque per sé». Fecesi in questi giorni passare per le mani di molti, perché la validassero di loro firma, una petizione colla quale si pregava il luogotenente di licenziare gli attuali consiglieri e circondarsi di altri.[31]

Quindi si nota la presenza dei virgolatori, vera e propria banda armata al servizio dei camorristi, utilizzati per il lavoro più sporco (quello che nemmeno i birri piemontesi potevano compiere), in particolare quello di distruggere le tipografie dei giornali di opposizione[32]:

Dal seno di costoro [i camorristi] diramavasi una nuova società che coll’eloquenza delle percosse si studiava acquistare proseliti al governo piemontese. Questa società governata da speciali capi, ed avente peculiari statuti teneva la sua sede principale in torre Annunziata e domandavasi [= nominavasi] la «Società dei virgolatori» (Nomade, 4 luglio [1861]): «Secondo gli Statuti della sullodata società tutti coloro, che non ne dividono le opinioni, o che non vadano a sangue a qualcuno degli onorevoli soci sono bastonati (nel gergo sociale virgolati) senza misericordia».[33]

Sarebbero moltissime le ulteriori citazioni da fare, ma rimandiamo alla lettura diretta del lavoro di Durelli e chiudiamo con questa amara considerazione, dovuta al piemontese Gustavo Ponza (1810-1876), Conte di San Martino, che fu brevemente Luogotenente di Napoli (maggio-luglio 1861)[34].

Dopo il suo allontanamento dalla luogotenenza il conte di San Martino pubblicava quella sua celebre lettera al senatore Gallina, che tanto fu discussa dal giornalismo. Il Popolo d’Italia nella lettera del conte di San Martino che «partiva scontento più del governo centrale che di Napoli» vede quest’unica conclusione «il male di Napoli non ha rimedii a Napoli e che l’origine degli errori è a Torino» e questa conclusione emerge per lui dai «documenti del gran processo sullo sgoverno fatto a Napoli» raccolti dal medesimo conte luogotenente. I suoi predecessori fecero anche di peggio, dice il Popolo d’Italia. Imperocché se «Farini cadde senza nulla dire», Fanti[35] però «coronava l’opera del Farini seminando pel regno la guerra civile» e Nigra[36] «ci fu sempre un enigma e lo è ancora».[37]

Sarebbe stata poi la volta, alla luogotenenza napoletana, di Emilio Cialdini, che – al di là della propria ferocia, su cui non è qui il caso di ritornare – pure si circondò di individui loschi:

«Attorno Cialdini stanno ad una parte gli uomini politici napoletani, uomini per lo più intelligenti ed astuti, ma non sempre di buona fede, passionati e partigiani all’uopo. A Napoli non ci sono che consorterie, sia quella degli emigrati, sia quella di don Liborio, sia altre più o meno indigene ed esotiche: qui la politica non si fa che dalle consorterie e il favoritismo regna sempre sovrano assoluto».[38]

Di questi membri della consorteria (o meglio dei “padri della patria” fuoriusciti) si fa un nome, quello del tarantino Giuseppe Massari (1821-1884), che suscita sdegno quando lo si stente proposto a governatore di Napoli. La nomina fu sventata, ma il giornalista si sarebbe vendicato addossando tutte le colpe dell’insorgenza napolitana a “borbonici” e “clericali”, omettendo del tutto le colpe dei liberali (dai politici ladri ai militari assassini), quando presiedette la commissione che da lui prese nome e dalla cui relazione finale sarebbe scaturita la famigerata 15 agosto 1863, n. 1409 (detta legge Pica dal nome del suo promotore, il deputato Giuseppe Pica – il quale, non dimentichiamolo, era abruzzese ed uno dei tanti esuli del 1848…). Ecco cosa scrive Il Nomade:

«Si è osato dire e pubblicare che un Massari sarebbe stato mandato a governare la voluta provincia napoletana. Al solo pensarlo è sorto un fremito di sdegno, sendo giudicato costui quasi l’ultimo degli emigrati. Ed ora per porre il suggello al tradimento degli emigrati, alla vendita che essi hanno fatta del loro paese si oserebbe proporre a governatore, chi? Oh, si lasci tal gente a rodersi le unghie e i peli della barba, e lor si conceda solo, per commiserazione, di servire, servir sempre, la peggiore delle umane condizioni allorché servasi un ministro o l’altro».[39]

*      *      *

I nemici dei mostri nemici sono nostri amici? Certo che no. Però, non per questo non possono essere veritieri.

Eppure, la critica che viene generalmente fatta da alcuni storici “riduzionisti” – una sottocategoria degli “unitari” – è che i polemisti borbonici si limitavano ad approfittare dei contrasti tra le fazioni mazziniana, garibaldina e cavourriana, prendendo dalle reciproche accuse ciò che a loro faceva più comodo: non le critiche al passato regime, bensì a quello presente. Vale a dire, la violenza terroristica mazziniana, le ruberie dei “Mille”, la brutale repressione piemontese, la corrotta gestione del potere degli uomini di “Ordine”, spesso collusi con (o facenti parte de) la camorra.

In questo “fuoco incrociato” i nostalgici del governo borbonico avrebbero selezionato gli articoli critici che permettevano loro di realizzare un affresco che discreditasse il regime degli invasori, mentre – evidentemente – la situazione era in realtà tutta rose e fiori.

Sarebbe facile citare l’adagio: «quando il dito indica la luna, l’imbecille guarda il dito».

Basterà ribadire che, se la realtà post-unitaria fosse stata davvero tanto idilliaca e se fossero state false le accuse che si lanciavano reciprocamente i vari sostenitore delle singole fazioni di quella che a scuola ci hanno spacciata come la “trinità risorgimentale” Garibaldi-Mazzini-Cavour (in effetti tutt’altro che unitaria), non si sarebbe mai potuto dipingere un quadro così fosco del periodo post-unitario.

Il fatto è che i dati riportati risultano essere veri e che l’accusa di scegliere “solo il male” dai vari giornali non smentisce la presenza di quel male.

In questo caso, infatti, il problema non è la fonte della critica (sempre ammesso che sia attendibile, ovviamente), ma la veridicità dell’avvenimento e il fatto che tale critica provenga da un avversario non la sminuisce. Anzi, l’aggrava, se chi lancia l’accusa, pur appartenendo a un’altra corrente, fa parte dello stesso bando filo-unitario.

Durelli stesso individua tre fazioni antiborboniche (ampiamente minoritarie) presenti a Napoli nel 1860:

La prima, e la più scarsa, quella dei repubblicani. La seconda dei liberali, che volevano l’autonomia napolitana. La terza di coloro che al Piemonte si erano venduti

Ognuno sa che queste tre fazioni congiunte insieme (compresavi anche quella degli autonomisti, quantunque avversa alla dominazione piemontese) formavano enorme minoranza in mezzo al popolo del Regno siculo, il quale allora, nello stesso modo che oggi, voleva l’antico ordine e la dinastia legittima.[40]

L’autore quindi, non considerando teste pensanti – e come dargli torto? – i garibaldini, mera carne da macello per mazziniani e cavourriani, si concentra su queste ultime due fazioni unitarie, affiancando loro quella dei liberali autonomisti (sicuramente i murattiani, che avrebbero voluto incoronare Luciano Murat, e forse i fautori del Conte dell’Aquila).

Durelli dunque non cerca un’alleanza strategica con i nemici dei suoi nemici (qualche tentativo, in tal senso, sarebbe stato fatto, ma senza risultati concreti nemmeno sul piano tattico)[41], però li usa, correttamente, per dimostrare come la vulgata di una “liberazione” in seguito al preteso “grido di dolore”[42] rivolto al Piemonte fosse falsa. La situazione reale è quella che descrive, fatta di soprusi e violenze, voluta da una infima (ma ben agguerrita) minoranza che non si è fatta scrupolo di danneggiare la stragrande maggioranza della popolazione pur di fare carriera[43] o – nella migliore (?) delle ipotesi – imporre la propria Weltanschauung – ideologica, astratta e dannosa – distruggendo le tradizionali ricchezze e potenzialità del Regno.

E – ripeto – Durelli scrive nel 1862, quando ancora non si era profilata la tragica necessità dell’emigrazione da una terra che era stata sempre esente da simile piaga.

Gianandrea de Antonellis

Introduzione a Francesco Durelli, Saggio sulla quistione napoletana considerata dalla stampa rivoluzionaria, introduzione di Gianandrea de Antonellis, D’Amico Editore, Nocera Superiore (Salerno) 2024


[1] Lo fa Luisa Gasparini, Il pensiero politico antiunitario a Napoli dopo la spedizione dei Mille, Soc. Tip. Modenese, Modena 1953, p. 129, n. 104.

[2] Saggio sulla quistione napoletana considerata dalla stampa rivoluzionaria, s.l. 1862, p. 49.

[3] Ivi, p. 98. Questo quotidiano politico, fondato a Parigi da Joseph Fouché poco dopo i Cento Giorni (inizialmente come L’Indépendant), fu pubblicato (con qualche interruzione) fino al 1914.

[4] Ivi, p. 63. La Patrie (1841-1937) quotidiano parigino conservatore del Secondo Impero, fedele sostenitore dell’Imperatore.

[5] Journal des débats politiques et littéraires (1789-1944), quotidiano parigino.

[6] Ivi, p. 51. «Giornale fondato a Torino nel 1854 in seguito a un accordo fra le varie frazioni della corrente democratica, e diretto da C. Correnti, A. Depretis, L. Pareto, G. Robecchi e L. Valerio; nel 1865 fu trasferito a Firenze, nel 1871 a Roma. Primo giornale a carattere veramente italiano, fu sempre organo della Sinistra, e assunse grande importanza dopo il 1876, con l’ascesa al potere di A. Depretis. Cessò le pubblicazioni il 31 dicembre 1895» (Treccani).

[7] Ivi, p. 52. Il Cittadino. Giornale politico commerciale del Circondario d’Asti era sorto nel 1850.

[8] La monarchia nazionale. Foglio politico quotidiano, nato nel 1861.

[9] Fondato nel 1853 da Vittorio Bersezio, l’autore delle celebri Miserie d’monsù Travet (1863).

[10] «Quotidiano politico fondato a Torino nel 1848 con un indirizzo nazionale-liberale, sostenitore dell’unità dell’Italia sotto la monarchia dei Savoia con Roma capitale. Appoggiò la politica cavouriana e la spedizione dei Mille. Nel 1915 patrocinò l’intervento dell’Italia in guerra e sostenne poi il fascismo. Nel 1945, dopo la Liberazione, uscì con il titolo di Gazzetta d’Italia, per riassumere poi quello originario. Cessò le pubblicazioni nel 1983» (Treccani).

[11] Ivi, p. 54. Era nata come gazzetta ufficiale nel 1805. Dal 1848 divenne a tiratura quotidiana.

[12] Cfr. p. 58. «Il Movimento» (1855-1892) ebbe origini letterarie, in quanto derivò le sue pubblicazioni dall’organo ufficiale della Società Letteraria dell’Areopago. Il termine movimento voleva sostituire il più forte rivoluzione. Inizialmente anticavourriano (perché la politica di Camillo Benso non era “nazionale” – cioè “sarda” – bensì internazionale), nel 1860 si contese vittoriosamente con altre testate il titolo di “tribuna dell’impresa dei Mille”, dimostrandosi “italianissimo” durante l’intera rivoluzione italiana.

[13] «Corriere Mercantile. Commercio, Navigazione, Scienze, Arti, Annunci ecc.». Nato in formato libro nel 1824 come bisettimanale, poi trisettimanale e quindi (1844) quotidiano economico, nel 1848 viene trasformato in quotidiano politico e commerciale, ad indirizzo liberale moderato, con formato “lenzuolo”. È rimasto in attività fino al 2015,

[14] Ivi, p. 62. Fondato a Milano pochi giorni dopo l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna da un gruppo di liberali e monarchici, membri delle famiglie patrizie milanesi, sostenitori della politica cavouriana; divenne ben presto il giornale di riferimento delle correnti moderate e monarchiche del ceto dirigente milanese. Stampato in formato lenzuolo, era strutturato sul modello del parigino Journal des Débats.

[15] Altre tre testate con lo stesso titolo furono un Giornale politico-letterario, nato a Palermo nel 1860, e due, con sottotitolo Giornale politico quotidiano, sorte rispettivamente a Genova (1860) e a Firenze (1860-1861).

[16] Ivi, p. 53 e 58. Il primo numero del giornale risale al 19 luglio 1859, dopo l’annessione della Toscana al Piemonte. È sempre stato di orientamento moderato-conservatore. Per i primi dieci anni l’obiettivo del giornale fu quello della causa nazionale; con il 1871, dopo lo spostamento della capitale da Firenze a Roma, la redazione rimase in Toscana e La Nazione smise di essere il giornale dei risorgimentali, per dare spazio alla cronaca cittadina.

[17] Ivi, p. 56, La rivista «Omnibus» era stata fondata a Napoli nel 1833. Tra i primi e più longevi periodici sorti nel Regno delle Due Sicilie, le sue pubblicazioni si prolungarono fino al 1882. Nel 1863 sarebbe divenuto, da rivista letteraria (cui era affiancato anche un Omnibus illustrato), un giornale politico.

[18] Cfr. ivi, p. 118. Il quotidiano nacque a Napoli – sospettosamente – il 1° agosto 1860.

[19] Ivi, p. 60. Il giornale era stato fondato il 18 ottobre 1860 da Giuseppe Mazzini. Avrebbe chiuso le pubblicazioni il 5 luglio 1873. Il calabrese Giovanni Nicotera (1828-1894), nota testa calda del risorgimento (partecipò, tra le altre, alla spedizione di Pisacane e a quella dell’Aspromonte), fu deputato di professione (11 legislature dal 1861 alla morte) e divenne addirittura ministro dell’interno con la Sinistra storica (1876-1877, gabinetto Depretis; e 1891-1892, gabinetto di Rudinì, al tempo dello scandalo della Banca Romana). Del barese Francesco Colucci, da Raffaele De Cesare apprendiamo «che fu più tardi garibaldino e giornalista» (Memor, La fine di un Regno, S. Lapi, Città di Castello 1895, p. 305; ristampa anastatica Grimaldi, Napoli 2003).

[20] Ivi, p. 57. «Rivista politica, scientifica, letteraria illustrata» fondata nel dicembre 1855; meno di cinque anni dopo (ottobre 1860), Il Nomade aveva finalmente trovato un confortevole alloggio, giacché sulla testata ora inalberava, al posto della originale vignetta con un viandante intento ad osservare il panorama, il più rassicurante stemma dei Savoia…

Quanto ai due gerenti citati, il napoletano Giuseppe Lazzaro (1825-1910), democratico non mazziniano, giornalista (tra l’altro diresse il Roma dal 1863 al 1890) e politico della Sinistra (deputato dal 1861 e senatore dal 1908), fu critico del centralismo e della pressione fiscale; sosteneva che alla base della rivolta contro i Borbone ci fosse stata soprattutto la stagnazione economica. Il laziale Pietro Sterbini (1793-1863) fu carbonaro e nel 1848 deputato al parlamento romano per Anagni; fu accusato di essere il mandante dell’omicidio di Pellegrino Rossi e votò per l’instaurazione della repubblica e la decadenza del Papa. Successivamente, in esilio, si avvicinò alla fazione cavourriana, divenendone il cantore (scrisse il poemetto Tauride per celebrare la campagna di Crimea).  Inviato a Napoli come giornalista, avrebbe fondato con Giuseppe Lazzaro il quotidiano Roma (1862), per sostenere da sinistra l’annessione della capitale al nuovo Regno.

[21] Ivi, p. 86 e 61. Varie sono le testate con questo nome. Il rifermento è, presumibilmente, al «giornale quotidiano della sera» edito dal 1860 al 1862, «il maggiore dei giornali annessionisti» (Treccani) e diretto da Ruggiero Bonghi, che riesumò una testata sorta nel 1848.

[22] A meno che non si tratti dell’omonimo «giornale politico, economico, morale» che iniziò le pubblicazioni a Noto il 14 aprile 1861.

[23] Uscito nel biennio 1860-1861, riprendeva una testata del 1848-1849. Sarebbe riapparso nel 1875-1876

[24] Il nome Pietra infernale (poi ripreso dalla quindicinale «Rivista critica dell’Anarchismo» che uscì a Genova dal dicembre del 1907 al giugno del 1908) fa riferimento al nome comune del nitrato d’argento, preparato usato in medicina e veterinaria per cauterizzare le ferite infette.

[25] «Pervenuti a questo punto sospendiamo le nostre ricerche; e soltanto una volta ci sia lecito citare la Pietra infernale, quantunque non poche sue invettive contro il governo piemontese avrebbero potuto corroborare le citazioni desunte dagli altri giornali liberali. Ma noi abbiamo fatta a noi stessi la legge di schivare le irruenze di passioni evidentemente abbiette, e di non dar peso a vili testimonianze» (p. 120)

[26] Ivi, p. 69, citando il Popolo d’Italia (29 Dicembre 1860)

[27] Si veda a proposito l’impagabile ritratto del “martire” Carlo Poerio fatto fa Ferdinando Petruccelli della Gattina, I moribondi di Palazzo Carignano (1862), al cap. XI.

[28] Dal 15 settembre all’8 dicembre 1861 ebbe luogo a Firenze la prima “Esposizione nazionale italiana”.

[29] Ivi, p. 75-76. Il verso citato è tratta da La scritta di Giuseppe Giusti.

[30] Ivi, p. 76-77, citando il Nomade.

[31] Ivi, p. 77-78.

[32] «Tali fogli ebbero tutti breve durata: “La Tragicommedia”, diretta da Giacinto de’ Sivo, uscì solo tre volte prima che il suo direttore fosse costretto all’esilio. Nessun giornale riuscì a sviluppare alcun punto del proprio programma a causa della feroce censura governativa e delle violenze che i camorristi esercitavano ai danni della stampa». Vincenzo D’Amico, Rassegna della stampa politica in dialetto a Napoli (1860-1872), ­Archivio Storico per le Provincie Napoletane, cxxxviii (2020), p. 181. Un elenco di oltre trenta testate che, in tutta la Penisola, soffrirono le violenze degli unitari è riportato nell’anonimo La questione napoletana discussa nel parlamento inglese  (1863), riproposto in Eugenio Di Rienzo, L’Europa e la «Quitione napoletana». 1861-1870, D’Amico, Nocera Superiore (Salerno) 2016, p.145-146.

[33] Ivi, p. 60.

[34] Periodo nel quale, peraltro, egli «distrusse tutto quello che v’era di buono, mantenne tutto quello che v’era di tristo, anzi l’aumentò!», come scrisse il Movimento. Cfr. Ivi, p. 110.

[35] Il modenese Manfredo Fanti (1806-1865), che iniziò la propria carriera militare nell’esercito cristino che combatteva contro i carlisti, è ricordato quale fondatore del Regio Esercito, in quanto fu l’ultimo Ministro della guerra del Regno di Sardegna e il primo di quello d’Italia (fino al 6 giugno 1861).

[36] Costantino Nigra (1828-1907), grazie alla massoneria (nel 1861 venne eletto gran maestro del Grande Oriente d’Italia) fece una carriera strepitosa in diplomazia. «[Nel 1861] iniziò con l’esperienza temporanea di segretario generale della seconda luogotenenza napoletana, tra gennaio e maggio, dopo il fallimento della prima affidata a Luigi Carlo Farini, allo scopo di guidare più in fretta possibile l’unificazione amministrativa del Mezzogiorno, delle Marche e dell’Umbria. Si rivelò inadatto e fu il primo fallimento nella sua brillante carriera pubblica, perché privo di esperienza di governo e portato più a mediare con cautela che a dirigere con decisione». Umberto Levra, voce Costantino Nigra,in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 78 (2013).

[37] Ivi, p. 108.

[38] Ivi, p. 114, citando la Nazione.

[39] Ivi, p. 114-115, citando Il Nomade.

[40] Ivi, p. 51.

[41] Cfr. Ettore d’Alessandro, L’autonomismo anarco-legittimista nelle memorie del duca di Pescolanciano, http://www.adsic.it/ [21.11.2016]). Vari documenti del Duca di Pescolanciano sono stati pubblicati in Fulvio Izzo, Maria Sofia Regina dei briganti. Dall’assedio di Gaeta all’attentato a Umberto I, Controcorrente, Napoli 2012. Mi permetto anche di rimandare al mio Dal Legittimismo al Carlismo, introduzione all’anonimo (ma forse di Giacomo Marulli) Ernesto il disingannato ovvero Il passato ed il presente (1874), il primo romanzo “borbonico” e il primo romanzo carlista della letteratura italiana (D’Amico, Nocera Superiore [Salerno] 2017).

[42] «[…] non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi!». Discorso pronunciato il 10 gennaio 1859 da Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, al parlamento di Torino.

[43] Ancora una volta, è d’uopo consigliare caldamente la lettura del romanzo Ernesto il disingannato.

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