Introduzione di Gennaro Marulli 15 maggio 1848 di Gianandrea de Antonellis
Demitizzazione di una giornata
Scritta a una anno dagli avvenimenti del «ferale» e «catastrofico» 15 maggio 1848, la cronaca del conte Gennaro Marulli, pur nella sua militaresca essenza (o forse proprio grazie ad essa), spoglia gli eventi di tutto il millantato romanticismo che aleggia intorno alla giornata delle barricate. E si allontana anche dall’epica di cui – loro malgrado – avevano contribuito a ricoprirla due letterati non imputabili di simpatie rivoluzionarie: il gesuita Antonio Bresciani [1798-1862] eCarlo Alianello [1901-1981]. Il primo, con il capitolo 15 maggio del notorio (perché usualmente citato senza essere stato letto) L’Ebreo di Verona[1],prima parte della sua trilogia sul Quarantotto, pubblicata “a caldo” e fornita di notizie di prima mano provenienti da testimoni diretti e dai collaboratori dell’autorevole rivista «La civiltà cattolica»; il secondo, un secolo dopo, con i tre racconti intrecciati ambientati in quella turbolenta giornata napoletana[2].
Innanzitutto – e questo va detto soprattutto a coloro che non conoscono la topografia partenopea – Marulli riduce territorialmente la portata degli scontri ad una sezione molto limitata della città: in pratica essi riguardarono lo sgombero delle barricate poste su via Toledo e sue immediate adiacenze da piazza San Ferdinando fino a Santa Teresa degli Scalzi. È vero che si tratta di una basilare direttrice cittadina, ma in effetti fu l’unico punto che venne presidiato dai facinorosi e dai traditori della Guardia Nazionale. Se pensiamo all’estensione degli scontri in altre città (innanzitutto Palermo e Parigi), quella di Napoli appare come una scaramuccia di ben poco conto, fomentata da quelli che allora venivano definiti “liberali”: non è un caso che la durata degli scontri – al di là del numero dei morti, più un’operazione di polizia che una vera e propria battaglia[3] – sia stata limitata alla sola giornata del 15 maggio.
In secondo luogo viene messo a nudo il ruolo deleterio della “Camera”. Marulli sintetizza la parte nefasta giocata da questa accozzaglia di arrampicatori sociali che cercano nella vita politica pubblica le soddisfazioni che non sono stati capaci di raggiungere in quella lavorativa e sociale. I Deputati, «appartenenti nella massima parte a quel ceto di avvocati i quali, anziché essere forniti di dottrina e probità, altro non conoscono che le rabolerie, le cabale e gl’intrighi del Foro», fomentano le Guardie nazionali, «formate di persone non avvezze a riflettere, scevre di cognizioni e di sapere, stante le poche cose apparate, se pure apparate, mancanti de’ lumi della pratica e dell’esperienza»[4]. I “rappresentanti della Nazione”, tronfi di smisurato orgoglio, «applicano le loro vergognose mene a tutto quello che la materia governativa richiede» ed uniti agli oziosi (probabilmente intende i malfattori, e nella fattispecie a Napoli quei camorristi che avrebbero avuto una parte rilevante nel 1860[5]) «hanno col loro ciarlatanismo e propagandismo di dottrine intemperate ed immoderate formato non solo la rivoluzione nel napolitano Stato, ma nell’Italia tutta e oltremonti». I ragazzotti della Guardia nazionale, dal canto loro, «non suscettibili a discernere il bene dal male», vittime di “cattivi maestri”, «il più de’ quali impostori Demagoghi, parlanti sempre a quelle giovani menti con parole generatrici, secondo l’avviso del Mazzini»[6].
In terzo luogo viene evidenziato un possibile intento strumentale nascosto dietro l’impegno unitario: l’adesione alla prima guerra d’indipendenza sembra avere anche l’obiettivo di allontanare quanto più possibile da Napoli la Guardia Reale (cioè le truppe regolari, fedeli al Re), sostituendola con l’infida Guardia nazionale, infarcita di liberali. Insomma, il fine ultimo sembra essere non quello di creare l’Italia “una”, né di sostituire un Re assoluto con uno costituzionale, bensì del rovesciamento di ogni forma di Monarchia.
Le “istruzioni” mazziniane
Il testo di Marulli deve però essere necessariamente letto alla luce di un testo attribuito a Mazzini che il Conte cita[7] e che riportiamo integralmente in appendice: si tratta dell’appello Agli Amici d’Italia, vera e propria summa del pensiero rivoluzionario.
Va riconosciuta allo scritto mazziniano[8] un’acutissima lucidità: «il re di Piemonte [avanzerà nelle riforme] per l’idea della corona d’Italia; il gran duca di Toscana per inclinazione ed imitazione; il re di Napoli, per la forza; e i piccoli principi avranno a pensare ad altro che a riforme». L’intero corso del “Risorgimento” è perfettamente indicato: lungi dall’essere un effettivo “risorgere” della “Nazione”, esso si concretizza nella annessione degli Stati preunitari da parte del Regno di Sardegna. Insomma, Carlo Alberto nel 1848 voleva realizzare non “l’Italia una”, bensì il Grande Piemonte e lo stesso progetto era quello iniziale di Vittorio Emanuele e Cavour nel 1860, mentre quello di Mazzini (che si compì nonostante il radicale genovese fosse stato messo da parte) era ben più vasto e ambizioso.
Dunque, almeno per i “moderati”, “l’Italia una” – per quanto casuale sia stata la sua realizzazione[9] – può apparire come un fine, mentre per i “radicali” esso non è altro che il mezzo: il loro vero fine è evidentemente quello di attaccare il Trono e l’Altare, porre le basi della repubblica e della democrazia, distruggere tutto ciò che rappresentava ancora – in qualche modo – l’Ancien Régime; o meglio una forma di governo che, considerata da chi si trovava sulla sponda liberal-progressista[10], pur nella sua modernità appariva ancora legata al mondo della Tradizione.
L’attacco a ciò che è un simbolo del passato (ancorché, lo ripetiamo, corrotto dalla modernità) è fondamentale per la mentalità progressista: anche la monarchia costituzionale che “regna ma non governa” deve essere sostituita da una repubblica, per dittatoriale che possa essere questa rispetto alla “democraticità” dell’altra[11].
Peraltro non c’è limite alle richieste dei “progressisti”, come viene esplicitato nell’appello: «Un re dà una legge più liberale: applaudite, domandandogli quella che deve seguire» (§ 5).
La categoria dei radical-chic non era ancora stata definita in questo modo, ma i liberali provenienti dalle fila della nobiltà erano già presenti, tanto che il documento mazziniano suggerisce di approfittare della loro dabbenaggine: «Un gran signore mostra non sapersi che fare de’ suoi privilegi, mettetevi sotto la sua direzione; se egli vuole arrestarsi, voi siete a tempo a lasciarlo; egli resterà isolato e senza forza contro di voi, e voi avrete mille mezzi da rendere impopolari quelli che si sono opposti ai vostri progetti. Tutti i dispiaceri personali, tutte le illusioni, tutte le ambizioni irritate possono servire la causa del progresso, se altri dà loro buona direzione» (§ 5).
Del resto, il Terzo Stato, quello che aveva fatto scoppiare la Rivoluzione, non era composto – almeno nella sua “testa” – da “popolani”, bensì da coloro che attualmente definiremmo alto-borghesi: banchieri, magistrati, ricchi mercanti che avevano una enorme disponibilità di denaro, estremamente superiore a quella dei nobili (pensate al ricchissimo signor Jourdain e allo spiantato Conte Dorante ne Il borghese gentiluomo di Molière), ma non ne condividevano le posizioni di potere, in particolar modo a Corte e nell’esercito, in cui, grazie al cosiddetto “Editto di Ségur”[12] del 1781, erano indispensabili i quattro quarti di nobiltà per divenire ufficiali. A maggior conferma dell’importanza che il Terzo Stato aveva nella vita sociale, va ricordato che appunto l’Editto di Ségur, un ultimo «colpo di coda dell’aristocrazia feudale sia contro la noblesse de robe sia contro la borghesia»[13], si era reso necessario per arginare l’invadenza dei borghesi che si volevano nobilitare approfittando della venalità dei gradi militari, mettendo «in difficoltà i numerosi aristocratici decaduti e impoveriti»[14], ma indebolendo l’esercito: va infatti considerato che «la potenza del denaro non equivaleva a talento, perlomeno non a talento militare. Non costituiva certo elemento di progresso il fatto che ricchi borghesi trentenni potessero comprarsi reggimenti dove la piccola nobiltà, economicamente decaduta o comunque non influente, era confinata ai gradi inferiori, magari dopo decenni di esperienza»[15]. Insomma, riconoscendo l’Editto di Ségur come “meritocratico” si dovrebbe coerentemente concludere che la Rivoluzione sia partita dal desiderio di far prevalere le ragioni economiche su quelle della competenza e dall’invidia di chi si vedeva posposto, a causa dei propri natali più modesti e nonostante la propria ricchezza, rispetto alla nobiltà decaduta e impoverita.
Paradossalmente, si potrebbe affermare che la stessa Rivoluzione sia nata dalle aspirazioni dei ricchissimi e portata avanti dalle rivendicazioni dei poverissimi contro la situazione dei “mediocri” appartenenti al Primo e al Secondo Stato. Può sembrare offensivo, al giorno d’oggi, tanto incline a vedere nella Rivoluzione un elemento positivo per la storia dell’intera umanità (dimenticandone volutamente gli eccessi e considerandoli una deviazione dalle – positive – idee originali anziché una logica conseguenza da esse[16]), affermare che molti grandi capi giacobini furono essenzialmente mossi da invidia, ma pensando anche alla sola triade “terrorista” Marat, Danton e Robespierre – due avvocatucoli e un medico da strapazzo che si davano arie da piccoli nobili (uno si firmava d’Anton; l’altro fu felice di essere nominato medico delle guardie del corpo del conte d’Artois, futuro Carlo X; mentre il terzo, dieci anni prima di scatenare il Terrore, si dimostrava baciapile e delicato ai limiti della svenevolezza[17]) – è difficile non pensare all’invidia come primo motore delle loro gesta… Del resto, anche la futura casta militare dell’esercito “imperiale” napoleonico sarebbe stata composta da carrieristi che, aggirato l’editto di Ségur grazie ai tragici eventi bellici e fatta una brillante carriera nei ranghi degli ufficiali, da accesi repubblicani che erano stati in gioventù non avrebbero disdegnato nella propria maturità titoli nobiliari e, talvolta, addirittura regali.
La combinazione delle esigenze di borghesi arrivisti, cadetti di famiglie aristocratiche ansiosi di rivincita e popolani invidiosi e ideologizzati scatenò dunque una delle più sanguinose carneficine che la Storia ricordi e che – ben stranamente – viene tuttora ufficialmente celebrata, anziché pubblicamente esecrata. Potenza della vittoria, che dimostra come la storiografia non possa essere appannaggio degli sconfitti.
La rivoluzione “a segmenti”
La valanga delle Rivoluzioni liberali innestata da quella giacobina, continua, nel XIX secolo, con i moti del 1820-1821 (a Napoli, mentre in Spagna ebbe più gravi strascichi nel “Triennio liberale”), con quelli del 1830 (con notevoli conseguenze soprattutto in Francia, dove la monarchia “reazionaria” di Carlo X fu sostituita da quella “liberale” di Luigi Filippo) e quindi del 1848, che vide la Penisola italiana lacerata dalla guerra cosiddetta “d’indipendenza” (prima di questo nome) e sorgere a Roma una nuova repubblica (seconda così nominata, per distinguerla da quella del 1797-1799, “sorella” della Repubblica francese).
L’apparente “moderazione”, nel corso dei decenni, dell’impeto rivoluzionario (giacobino nel 1799, liberale nel 1820, costituzionale nel 1848, unitario e “legittimista” nel 1860, con il “tranquillizzante” aristocratico e monarchico Cavour intervenuto “suo malgrado” per bloccare da un lato il colpo di mano del democratico e plebeo Garibaldi e dall’altro le trame del fanatico repubblicano Mazzini[18]) rende apparentemente sempre meno pericolosa la richiesta di cambiamento e meno angosciante la percezione della rivoluzione.
Solo apparentemente, però. In realtà le istanze di base (la lotta al Trono ed all’Altare, intesa come rovesciamento dei tradizionali principi religiosi, politici e giuridici, rimangono inalterate nel tempo, anche ai nostri giorni: guerra alla Religione (anche se l’attuale magistero si pone in linea con la mentalità progressista: data la natura gerarchica della Chiesa, bisogna essere pronti ad un eventuale cambio al vertice, assecondando i Pontefici che “piacciono al mondo” e contrastando quelli che, eventualmente, dovessero rivolgere lo sguardo al passato); guerra al principio monarchico (anche se rappresentato da una pallida – se non squallida – imitazione della vera Monarchia, la Monarchia tradizionale); e infine guerra allo Jus naturalis, o a quel poco che ne rimane negli ordinamenti giuridici dei singoli Stati, imponendo sovranazionalmente i diritti umani contro il diritto divino[19].
Nel suo scritto, come accennato, Mazzini si rivela estremamente lucido e, di conseguenza, pragmatico. Si rende conto della difficoltà di una rivoluzione percepita come estremista: «Se voi non avete che il popolo, la diffidenza nascerà al primo passo, e tutto sarà perduto. Se il movimento è condotto da alcuni grandi, questi serviranno di passaporto al popolo» (§ 2).
E si rende conto anche che “l’Italia una” è una utopia, poiché manca – e in ciò anticipa di un ventennio Massimo d’Azeglio (o lo Pseudo-d’Azeglio)[20] – quell’ingrediente (evidentemente superfluo) rappresentato dagli “Italiani”. Infatti scrive, icasticamente: «In Italia il popolo è ancora da crearsi» (§ 4).
Sono pure interessanti – e tuttora validi – anche i suoi consigli su come affrontare la propaganda: «Le discussioni profonde e dotte non sono né necessarie, né opportune; vi sono parole generatrici, che contengono tutto, e che devono sovente ripetersi al popolo: libertà, diritti dell’uomo, progresso, uguaglianza, fratellanza, ecco quello che il popolo comprenderà, soprattutto, quando vi si opporranno le parole di dispotismo, di privilegi, di tirannia, di schiavitù, ecc.». Insomma, una vuota retorica, fatta di frasi fatte e di parole d’ordine anziché di ragionamenti, per un lavoro mirato alla mobilitazione e non al convincimento: «Il difficile non è convincere il popolo, ma riunirlo; il giorno, in cui sarà riunito, sarà il giorno dell’era novella» (§ 4).
Nella lotta per il trionfo dell’idea nuova – ovvero per la conquista del potere, in nome del primato della prassi (tipico della mentalità rivoluzionaria) – non è necessario fare inutili distinguo tra chi può essere un alleato: «Il globo terrestre è formato di grani di sabbia; chiunque vorrà fare un solo passo di progresso con voi, deve essere dei vostri, sinché vi abbandoni» (§ 5). Dunque alleanze con tutti, finché risultano utili, senza preoccuparsi delle motivazioni (quindi, ancora una volta, il perfetto contrario di ciò che deve fare il vero soldato cattolico, il combattente della Controrivoluzione, che deve scegliere i propri commilitoni di lotta non soltanto in visione dell’utilità momentanea, ma in funzione dello scopo finale)[21].
A questa “apertura” a tutti c’è un solo limite: quello del mondo militare: «L’armata è il più grande ostacolo al progresso del socialismo; sempre sommessa per educazione, per organizzazione, per dipendenza la è un grande ajuto pel dispotismo» (§ 6). Ecco perché, dove aveva fallito (rectius, nemmeno tentato) Mazzini, sarebbe riuscito brillantemente Cavour, capace di arruolare buona parte degli ufficiali borbonici presentandosi non come un rivoluzionario, bensì come un conservatore, costretto suo malgrado a invadere gli Stati alleati per evitare che il preteso autoritarismo dei vari Principi “preunitari” potesse provocare una reazione mazziniana…
In realtà quella cavourriana non fu una prevenzione, bensì unicamente una moderazione della rivoluzione, ovvero un suo segmento: come tale, non risultò spaventoso quanto l’intero. Infatti, il Ministro piemontese non pretendeva di cambiare il calendario, di abolire i titoli nobiliari e di instaurare il culto della Dea Ragione o dell’Essere supremo: si limitò – più modestamente ma assai più efficacemente – a far estendere la validità delle leggi anticlericali[22] a tutta la Penisola…
È evidente che un simile “segmento” rivoluzionario, non cruento nonostante le importanti conseguenze che causa, viene più facilmente accettato: peraltro – allora come ora – la legge anticlericale veniva presentata come un “adeguamento” alla legislazione presente nei principali Paesi d’Europa; così, di piccolo passo in piccolo passo, i principi rivoluzionari vengono assorbiti lentamente, inavvertitamente, in una sorta di mitridatizzazione culturale che ci fa accettare quello che, solo pochi anni prima, era considerato assolutamente inammissibile.
Un notevole esempio letterario di questo procedimento si ha nel breve romanzo Maestro Domenico (1871) di Narciso Feliciano Pelosini[23], in cui al protagonista è magicamente permesso di vivere il Risorgimento non giorno per giorno, abituandosi lentamente alle novità, bensì tutto d’un colpo, poiché egli si addormenta nel sereno Granducato di Toscana e si risveglia una decina di anni dopo nel massonico Regno d’Italia, alla vigilia della presa di Roma. Il sonno prodigioso permette al maestro Domenico un giudizio più obbiettivo di quello dei suoi compaesani, assuefatti da uno stillicidio di innovazioni e quindi incapaci di percepire i mutamenti nella loro effettiva e complessiva portata[24].
La Rivoluzione può non essere interamente sanguinaria: spesso riesce a raggiungere il proprio scopo attraverso una serie di piccoli atti, eventualmente supportati da qualche grande evento brutale e cruento. Ciò è accaduto, ad esempio, con la rivoluzione dei costumi (il ’68) e con la stessa Rivoluzione italiana, più conosciuta come Risorgimento: l’atto violento (l’invasione garibaldina e la conseguente discesa dell’esercito piemontese) era stato preceduto, fu accompagnato e sarebbe stato seguito da una serie di azioni, di prese di posizione culturali, di mode, di battage propagandistico, di leggi che aveva contribuito a cambiare la mentalità della popolazione e che permise di far percepire una guerra di aggressione come una lotta popolare di liberazione. Tanto che anche un osservatore attento come Alessandro Manzoni contrappose la Rivoluzione francese, caratterizzata da «l’oppressione del Paese, sotto il nome di libertà»[25] a quella italiana proprio sottolineandone la mancanza di eccessiva violenza e la sua “naturalezza”:
Qui [in Italia], infatti, la libertà, lungi dall’essere oppressa dalla Rivoluzione, nacque dalla Rivoluzione medesima: non la libertà di nome, fatta consistere da alcuni nell’esclusione di una forma di Governo, cioè in un concetto meramente negativo, e che, per conseguenza, si risolve in un incognito; ma la libertà davvero, che consiste nell’essere il cittadino, per mezzo di giuste leggi e di stabili istituzioni, assicurato, e contro violenze private, e contro ordini tirannici del potere, e nell’essere il potere stesso immune dal predominio di società oligarchiche, e non sopraffatto dalla pressura di turbe, sia avventizie, sia arrolate: tirannia e servitù del potere, che furono, a vicenda, e qualche volta insieme, i due modi dell’oppressione esercitata in Francia ne’ vari momenti di quella Rivoluzione; uno in maschera d’autorità legale, l’altro in maschera di volontà popolare.
Qui, ancora, ai Governi distrutti poté sottentrare un novo Governo, con un’animatissima e insieme pacifica prevalenza e quasi unanimità di liberi voleri. E un così gran cambiamento, non solo apparve, nell’atto stesso, un fatto stabile, ma appar tale ogni giorno più, malgrado gl’inciampi frapposti e le difficoltà inerenti a ogni gran cambiamento.[26]
Manzoni, membro di una aristocrazia che, pur essendo “cattolica”, non fiatò alla conquista di Roma, anzi la avallò; pronto (e prono) ad accettare la vulgata relativa ai Plebisciti e a condannare come banditismo il cosiddetto “brigantaggio”, è la perfetta espressione del “cavourrianesimo” e rappresenta quella intellighenzia solo in parte vittima, ma in gran parte essa stessa colpevole, del “trasbordo ideologico inavvertito”.
Quel mélange culturale che un secolo dopo sarebbe stato incarnato dal pensiero della democrazia “cristiana”, incapace di rendersi conto dei graduali mutamenti sociopolitici (o volutamente indifferente ad essi, volendo escludere una connivenza), che nel loro limitato percorso (segmenti, appunto, della rivoluzione) risultano accettabili alla maggior parte della popolazione, politici ed intellettuali compresi.
Gianandrea de Antonellis
[1] L’opera fa parte di una trilogia dedicata al Quarantotto e composta da L’Ebreo di Verona [1850]; La Repubblica romana [1852]; Lionello o delle Società Segrete [1853].
[2] Carlo Alianello, Soldati del Re, Mondadori, Milano 1952 (ora Osanna, Venosa 2014), a cui andrebbe affiancato l’introvabile breve dramma La luna sulla Gran Guardia (1955).
[3] In effetti si trattò dello sgombero delle barricate su via Toledo, con il paradosso che la polizia vera e propria (la Guardia nazionale) aveva contribuito ad alzarle e difenderle, anziché impedirle ed abbatterle.
[4] Cap. Le conseguenze. Qui, p. 92.
[5] Sulla cosiddetta consorteria, cioè l’accordo criminale tra “galantuomini” (liberali filosabaudi) e “uomini d’onore” (camorristi) stretto negli anni immediatamente precedenti l’invasione “italiana” e perpetuatosi dopo l’Unità, cfr. la mia Introduzione al romanzo anonimo (ma forse del drammaturgo Giacomo Marulli, fratello di Gennaro) Ernesto il disingannato, pubblicato nel 1874 e recentemente riproposto da D’Amico Editore (Nocera Superiore 2017).
[6] Qui, p. 92-93.
[7] Qui, p. 93.
[8] Se è lecito nutrire dubbi sulla autenticità della stesura da parte di Mazzini (ad esempio, non è inserito nel catalogo dei suoi scritti redatto da Giulio Canestrelli, Bibliografia degli scritti di Giuseppe Mazzini, La Società Laziale Tipografia-Editrice, Roma 1892), lo scritto rispecchia la mentalità mazziniana e non risultano prese di distanze dallo scritto, che gli fu fin da subito attribuito.
[9] Si può affermare che il progetto più vasto riuscì un po’ come, 140 anni dopo, gli attentatori di Nuova York (a prescindere da chi fosse il loro vero mandante), sarebbero riusciti ad abbattere le Torri gemelle, quando volevano presumibilmente “solo” colpirle.
[10] Ricordiamo a questo punto ciò che scriveva lo stesso Marulli: «Tanto è dire Radicali, quanto Illuminati, uomini dell’Unione di Virtù, della Banda nera, Giacobini, Liberi Muratori, Carbonari, Pellegrini bianchi, Liberali, della Giovane Italia: tutti questi diversi nomi non mostrano che la stessa cosa». Qui, p. 99, n. 10.
[11] Un esempio odierno si può riscontrare nell’estrema sinistra spagnola, che appoggia le smanie d’indipendenza catalana al principale scopo di sostituire la monarchia (peraltro costituzionale e liberale – tanto da essere stata brillantemente definita da Miguel Ayuso «non monarchia, ma repubblica coronata») con una repubblica tout court.
[12] Così chiamato perché firmato dal Maresciallo di Francia Philippe Henri de Ségur (1724-1801).
[13] Lucio Ceva, Comando ed eserciti in Europa tra Medioevo e Restaurazione, in Teatri di guerra: comandi, soldati e scrittori nei conflitti europei, Franco Angeli, Milano 2005, p. 13-40:33.
[14] Ibid.
[15] Ivi, p. 33-34.
[16] L’ideologo tradizionalista Juan Vázquez de Mella (1861-1928) affermò (Discurso en el Congreso de los Diputados, 3 de marzo de 1906) che non è possibile «impiccare gli effetti dopo aver incoronato le cause», ovvero, per essere più aderenti al testo originale, prima porre le premesse sopra un trono, poi alzare un patibolo alle conseguenze.
[17] «Il 9 marzo 1782, fu nominato dal vescovo de Conzié giudice del Tribunale vescovile. La Camera episcopale di Arras, composta da un balivo e da cinque avvocati, assicurava l’alta, la media e la bassa giustizia ad Arras, a Vitry, nel villaggio di Marcœuil e in ventisei parrocchie della regione. Si rese conto che la funzione di giudice non faceva per lui. Allora, contrario per principio alla pena di morte, dovette tuttavia applicarla una volta nei confronti di un criminale e diede subito dopo le dimissioni». Mario Mazzucchelli, Robespierre, Dall’Oglio, Milano 1967, p. 29.
[18] «L’immaginario della “patria” o “nazione” napoletana elaborata dal fronte radicale [nel 1848, ndc], invita poi a pensare il Risorgimento nei termini di un processo che non fu solo indirizzato all’unificazione nazionale». Viviana Mellone, Napoli 1848. Il movimento radicale e la rivoluzione, Franco Angeli, Milano 2017,p. 290.
[19] Ciò sta avvenendo con l’attuale “rivoluzione del gender” che, pur essendo oggettivamente meno sanguinaria della rivoluzione bolscevica, non è meno perniciosa e, nella sua subdola “versione soft”, risulta addirittura meno “avvertita” della deflagrazione brutale del 1917.
[20] La frase «pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani», effettivamente risulta solo nella edizione postuma del 1866 de I miei ricordi (Barbera, Firenze 1866, p. 7), ma il concetto è comunque presente negli scritti di Massimo d’Azeglio. Cfr. Claudio Gigante, “Fatta l’Italia, facciamo gli Italiani”. Appunti su una massima da restituire a d’Azeglio, in «Incontri. Rivista europea di studi italiani», XXVI (2011), n. 2.
[21] E qui non si può non citare il famoso passaggio: «La restaurazione dell’ordine, che viene chiamata contro-rivoluzione, non sarà affatto una rivoluzione contraria, bensì il contrario della rivoluzione». Joseph de Maistre, Considerazioni sulla Francia, a cura di Guido Vignelli, Editoriale Il Giglio, Napoli 2010, p. 125.
[22] Le leggi “Siccardi” (9 aprile 1850 n. 1013 e 5 giugno 1850 n. 1037) che sancivano la separazione fra Stato e Chiesa del Regno di Sardegna; la legge “Rattazzi” (29 maggio 1855 n. 878) che abolì gli ordini religiosi ritenuti privi di utilità sociale e ne espropriò tutti i conventi; e le leggi “eversive” (7 luglio 1866 n. 3036 e 15 agosto 1867 n. 3848), che sancivano l’incameramento da parte del demanio statale dei beni ecclesiastici e i cui esiti sono così sintetizzati da uno studio coevo: «It appears from an official return laid before the Chamber of Deputies in the session of 1865, that there were still, at that period, 2,382 religious houses in Italy, of which 1,506 were for men, and 876 for women. The number of religious persons was 28,091, of whom 14,807 were men, and 14,184 women. The Mendicant order numbered 8,220 persons, comprised in the above mentioned total. A project of law, brought in by the Government, for the entire suppression of all religions houses throughout the kingdom, was adopted by the Chamber of Representatives in the session of 1866». Frederick Martin, The Statesman’s Year-Book, Macmillan and Co., London 1869, p. 327.
[23] Narciso Feliciano Pelosini, Maestro Domenico, Solfanelli, Chieti 2005.
[24] Un esempio contemporaneo – superfluo farlo notare – viene dalla legislazione sul cosiddetto gender.
[25] Alessandro Manzoni, La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859: saggio comparativo, Milano 1889, p. 2. Il saggio, iniziato negli anni 1862-1864 e rimasto incompiuto, fu pubblicato postumo. Lo si trova con il titolo Storia incompiuta della Rivoluzione francese.
[26] Ivi, p. 3-4. Si noti il brigantaggio ridotto a un semplice “inciampo”…