INVITO A CENA CON DELITTI
“Vorrei una cernia al garum e del Falerno fresco.”, ordinò.
“Subito, Signore.”, rispose il cameriere, ma tra sé pensò: che è ‘sto garum? mai sentito! vado in cucina e chiedo allo chef.
Quella sera, una serata di giugno calda ma non torrida, il Cavalier Ofonio Tigellino vestiva come di prammatica per una cena sul lungomare: camicia in lino bianca con maniche rimboccate, pantaloni blu, mocassini senza calze. Elegante, ma senza affettazione o ricercatezza. Doveva infatti cercare di non dare nell’occhio e se avesse sfoggiato uno di quei costosissimi completi in stoffe orientali che indossava da vivo, si sarebbe di sicuro fatto scoprire. Era solo, perché non gli era stato concesso di tornare accompagnato, e si doveva pure spicciare.
“Cavaliere, a mezzanotte bisogna assolutamente rientrare, abbiamo già fatta per lei un’eccezione straordinaria. Mi raccomando, non aggiungo altro!”, gli aveva detto San Pietro, e se n’era andato, scuotendo però il capo con scetticismo.
Ofonio quel posto, punta San limato, lo conosceva bene. Ci aveva abitato per anni, quando non stava a Roma e lo preferiva, ovviamente, alla Capitale. Un mare splendido a pochi passi, la campagna ed il Monte Massico alle spalle, le ville degli amici più cari nel raggio di qualche miglio. C’erano, in casa, tutti i tipi di opportunità per sfogare le sue passioncelle, non proprio commendevoli. Da ultimo, nella villa c’erano persino le sue terme private, ma quelle preferiva non ricordarle, perché ogni volta che ci pensava un brivido ghiacciato gli scendeva lungo la schiena.
Nulla gli era stato regalato gratis, capiamoci. Aveva dovuto lavorare sodo, sudare molto e sputare sangue per arrivare dove era arrivato: da cavallaro a praefectus, il numero due dell’Impero, secondo solo a Nerone.
L’inizio della scalata era stato piacevole. Si era trattato di usare il suo fascino mediterraneo per portarsi a letto la sorella di Caligola. Fu esiliato per questo e, richiamato dall’esilio, si rese conto che il percorso sarebbe stato in salita. La corte era a dir poco un nido di aspidi, e bisognava guardarsi contemporaneamente davanti, di dietro, ed in tutte le altre direzioni. Per fortuna non gli mancavano avidità, scaltrezza, crudeltà, doppiezza e determinazione; tutto quello che serviva, insomma. Alla fine, era riuscito a sbaragliare tutti gli altri concorrenti e a diventare il vice di Nerone, ed a Roma si diceva che fosse l’unico in grado di superarlo in quanto a sadismo e perversione. Quando Nerone era caduto, il nostro Ofonio non aveva esitato a tradirlo e ad abbandonarlo. Ma poi aveva puntato su un cavallo sbagliato (cosa incredibile per un esperto come lui) e Otone, uno degli avversari, gli fece pervenire a Sinuessa un pizzino con un’offerta che non si poteva rifiutare: che fai, ti suicidi tu, o veniamo ad ucciderti noi?
Prima che gli si annebbiasse la vista e l’ultima goccia di sangue gli fuoriuscisse dalle vene, però si pentì di tutto il male che aveva commesso. Pensò che in fondo non ne era valsa la pena, se doveva finire così. Pensò che sarebbe stato meglio essersene rimasto in Sicilia a badare ai suoi cavalli. Ciò bastò a salvargli l’anima. Lui non sapeva di avercela l’anima, ma se l’era salvata lo stesso.
Per fortuna lo chef aveva fatto l’Alberghiero, e sapeva cos’era il garum. Ma non aveva la ricetta, ci sarebbero voluti giorni per prepararlo, e poi comunque non c’era la cernia. Pensò di andare personalmente al tavolo, a scusarsi.
“Cavaliere, ci scusi, ma siamo ancora in bassa stagione, la dispensa non è al completo e non abbiamo quello che ha ordinato. Ma posso servirle delle linguine con la colatura di alici di Cetara. Sono buonissime, hanno quasi lo stesso sapore, si fidi di me, si lasci servire…”
“Va bene, ma facciamo presto”, rispose il Cavaliere, che cominciava ad agitarsi perché si avvicinava l’ora del rientro.
Le linguine gli piacquero, le divorò, ed al momento del conto lasciò una mancia stratosferica. Chef e cameriere andarono a salutarlo personalmente alla porta.
“Eccellenza, torni presto a trovarci, la aspettiamo. Torni presto, la prossima volta troverà tutto quel che desidera.”
“Certamente, con piacere. Ma non dipende da me…” rispose Ofonio, con un sorriso velato di tristezza. E i due restarono a chiedersi come mai un signore così elegante e distinto non potesse andare dove voleva.
Scese sulla spiaggia vicina, si tolse i mocassini, si rimboccò l’orlo dei pantaloni e si mise a passeggiare. Pensò che il Paradiso poteva attendere ancora qualche minuto.
Perché il Paradiso è il Paradiso, senza dubbio. Ma anche la brezza salmastra che ti riempie i polmoni, lo sciabordio delle onde sul bagnasciuga, il profumo del mare in una passeggiata sulla spiaggia di notte, non sono male.
Michele Scotto di Santolo
(Nel video, i resti della villa romana di Punta San Limato, che tradizionalmente si ritiene appartenuta a Gaio Ofonio Tigellino).