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Itri: la festa dei falò risale alla primigenia cultura greca

Posted by on Nov 3, 2019

Itri: la festa dei falò risale alla primigenia cultura greca

   Di tutte le tradizioni itrane è sopravvissuta soltanto la festa dei falò. Ad Itri, in occasione della festività di S. Giuseppe, vige l’antico uso, che si perde nella notte dei tempi, di accendere grandi fuochi.

   Questa consuetudine è stata tramandata attraverso i secoli fino ai nostri giorni e può considerarsi un ritorno alle cose semplici, al di fuori della convulsa vita della civiltà attuale. Forse essa risale, addirittura, al periodo ellenico. Si dice, infatti, che i Laconi, fuggiaschi per l’invasione dorica, guidati dai Dioscuri, fondarono le città di Gaeta, di Formia e di Amyclae (il luogo preciso in cui sorse quest’ultima città non è stato ancora scoperto). 

   Anche Itri abbonda di località di derivazione greca come “Nasso” e “Bucefalo”, collina posta dopo la stazione ferroviaria, sulla destra, andando verso Formia. Essa, di un miglio e mezzo di circuito, di circa 250 moggia, sassose ed arenose, terminante con il M. Carbonara e Montuolo verso mezzogiorno, tenimento di Gaeta, potrebbe, vista la conformazione della collina, significare “testa di  bue”, come il cavallo favorito di Alessandro Magno, che lo domò adempiendo la condizione di un antico oracolo, per meritare la corona macedone, ed in onore del quale fondò una città, Bucefala, sulle sponde dell’Idaspe, dove fu ucciso, in battaglia, Bucefalo.

   In territorio formiano, confinante con Itri, vi è un sito, chiamato “Piroli”, dal greco”purà”, che significa “fuochi!, “fuochi di sacrificio”. Appunto in questa località, un quarantennio fa, vennero alla luce delle terracotte rotonde, sovrapposte (il proprietario dell’appezzamento dove furono rinvenute sosteneva che il suo campo era pieno di questi strani dischi calcarei e che essi venivano fuori dissodando il terreno), che lasciano pensare ad un altare per sacrifici. Il loro diametro era di circa 15 centimetri, lo spessore di circa 4 centimetri. Da un lato essi erano abbastanza lisci, dall’altro tugosi e con una rientranza al centro, come se fossero dei piatti.

   Dunque un arcaico e misterioso rito della primigenia cultura greca, santificato dal nome cristiano, scomposto e sfasato dal soffio di civiltà diverse.

   Le feste del fuoco hanno, tutte, una teoria solare. I selvaggi, ancora oggi, si servono di incantesimi per ottenere la pioggia e il bel tempo e non è da meravigliarsi che l’uomo primitivo dell’Europa facesse altrettanto.

   Anzi – quando si consideri che nei Paesi del nord le giornate fredde e grigie prevalgono su quelle serene e calde – è naturale che ggli incantesimi, per far splendere il sole, abbiano avuto una parte importante fra le pratiche superstiziose dei popoli europei.

   Non può essere un semplice caso che due delle più importanti e diffuse feste coincidessero proprio con i solstizi. Il ceppo, così diffuso a Natale, nelle case dove c’è un caminetto, fu, in origine, inteso ad aiutare lo stanco sole invernale a riaccendere la sua smorta luce. L’usanza di lanciare dischi infuocati – che era in grandissima auge, fino a pochi anni fa, nella regione del Lago dei Quattro Cantoni e nelle campagne, e che fu limitata da quando si verificarono incendi a fattorie e a fienili – e di far ruzzolare ruote ardenti, giù per le colline, non sono che imitazioni della corsa del sole attraverso il cielo.

   In alcune parti della Francia, della Svizzera e dell’Estonia, all’uso di accendere falò si accompagna ancora quello di portare torce accese attraverso i campi i prati, in mezzo a greggi e ad armenti.

   Il concetto del fuoco come agente distruttore, purificatore, per eliminare le influenze dannose, siano esse spirituali che materiali, che minacciano la vita degli uomini, degli animali e delle piante, è così semplice ed ovvio che non poteva sfuggire alle menti degli agricoltori, che, per primi, organizzarono queste feste.

   L’intenzione originaria di tutte queste feste del fuoco era anche di distruggere, o perlomeno di allontanare, le streghe, considerate la causa prima di quasi tutte le disgrazie e le calamità che accadevano agli uomini, agli armenti ed ai raccolti.

   La festa del falò ad Itri, che esalta la genesi della vita, l’amore, la comunicazione, è rivissuta, con genuino entusiasmo, dal popolo, che, nella fiamma, nella gioia, vuol vedere il grande amore, la fedeltà e la purezza del padre putativo di Gesù. In onore del santo falegname di Nazaret, si compie questo antico rito agrario, alla presenza di numerosi gruppi di persone, che si riuniscono vicino ad enormi cataste di frasche e di legna, raccolte dai ragazzi negli ultimi tre mesi, in una vera e propria sfida tra i quartieri per innalzare il falò più alto e duraturo. Essi si recano, di notte, nelle selve, muniti di roncole, di accette e di seghe, e tagliano, molte vokte dissennatamente, alberi, depauperando il patrimonio forestale, trascinandoli fino all’esaurimento delle forze.

   I grossi mucchi affastellati vengono bruciati nei piazzali e nei crocicchi del  centro aurunco, verso le 19, al momento della benedizione in chiesa, mentre la gente intona canzoni popolari, secondate dalle fisarmoniche e dagli organetti, e balla il saltarello, danza che consiste in saltelli, accompagnati da battute di mano. Una sorta di “pirobazia”, ovvero di “danza del fuoco”, residuo di misteriosissimi riti pagani.

   Chi cucina sulla brace chili di maccheroni in grosse caldaie; chi arrostisce salsicce su graticole e su “rocchi”; chi ancora degusta le dorate e croccanti “Zeppole”, ricoperte di zucchero e cannella, che altro non sono che le “fritiliae” dei tempi remoti, quando erano offerte dalle sacerdotesse durante le feste Liberali, in onore di Bacco.

   E’ festa grande, che si protrae fino all’alba, in ogni angolo di Itri, ma soprattutto in Largo Spapenda, dove viene allestito un gigantesco fuoco, attorno al quale si riunisce una marea di persone per ballare, cantare e degustare le saporite “zeppole”, apprezzate quale elemento fondamentale ed essenziale della festa, che, per l’appunto, è chiamata “festa delle zeppole”.

   Il rito della “zeppola” avviene verso le ore 21, quando delle donne, paludate in enormi grembiuli di canapa bianca, preparano, in alcune conche, la “pasta” della zeppola. Intanto una grossa pentola è collocata sul “treppete”, con sotto brace viva e fuoco più vivo ancora! Ci vuole un po’ di tempo prima che la teglia si infochi a dovere. Nell’attesa, si parla di “zeppolate” passate, accompagnate da qualche particolare che le hanno rese indimenticabili.

   Il vino generoso della “Selvotta”, l’Abbuoto, che scorre come un fiume, lavora a meraviglia a colorire i ricordi, di particolari “saporiti”. Persone anziane, ritornando indietro con la memoria, rivivono gli attimi più belli della loro gioventù con gioia, appena contenuta. I vecchi, riproponendo le festose serate della loro giovinezza, riferiscono minutamente gli episodi più significativi vissuti da loro, rivedendosi fra gruppi di amici e di amiche, che solevano riunirsi raccontando storielle buffe e ponendo indovinelli, di non facile soluzione.

In queste feste paesane, in queste allegre e rumorose “riunioni”, in cui tutti cantavano a squarciagola, non mancava mai il vino e vi regnava una grande spontaneità, che univa tutti i componenti della brigata. Il fiasco di vino rendeva più gaia la comitiva e contribuiva a prolungare il “divertimento” fino a tarda ora, in particolar modo nelle lunghe serate estive.

   Ogni avvenimento lieto, ogni lavoro portato a compimento, era festeggiato allegramente, con brio. In queste occasioni, si cantavano, in dialetto itrano, le canzoni allo più in voga e si ballava in cerchio la tarantella o il saltarello e, ad ogni cambio di “partner”, venivano lanciati gridi per il segnale. Qualche massaia, per l’occasione, preparava dolci per le donne e, per gli uomini, manicaretti con in mezzo peperoncino amaro, finemente tritato, che stimolava tutti a bere e a gridare maggiormente.

   Il canto (anzi più che canto era poesia stornellata) più in auge, ai tempi dei nostri nonni e delle nostre nonne, era quello che i fidanzati si cantavano vicendevolmente, dopo aver litigato. Era il cosiddetto “colloquio a dispetto”, una vera schermaglia tra i due, che si concludeva spesso con immagini gentili e con la riappacificazione degli ex fidanzati.

   Ad un tratto, “E’ tiempo  di frive’ la pasta” (E’ ora di friggere la pasta). Tutti ad accalcarsi intorno alle friggitrici, intente ad “annegare” nell’olio la rozza e semplice composizione di acqua, farina e lievito. Si “mena” la zeppola dentro l’immenso pentolone, colorato dalla fiamma. Giusto al centro, si cala la densa crema, perché la zeppola deve venir “soccia” (uguale) da tutte le parti. Pochi minuti di cottura ed eccola fragrante, al bacio… dello zucchero, insaporita dalla vaniglia!

   Un effluvio di olio si diffonde per tutta la vasta piazza, nella quale, più che altrove, si celebra la “sagra delle zeppole”; dove alcuni zampognari, calzanti le caratteristiche “ciocie”, propongono, “a fiato libero”, melodie nostrane, accompagnati da fisarmonicisti.

   Ricordiamo che, non molti anni fa, quando i carboni si stavano ormai raffreddando, i ragazzi vi saltavano sopra, al grido : “Evviva San Giuseppe, con tutte le zeppole appriesse!”, mentre le vecchiette si scaldavano al fuoco delle fascine, innalzate in “pagliaro”, alla cui sommità era posto un fantoccio di paglia rivestito di stracci, e filavano la lana. A tal proposito, dobbiamo rammentare che i ragazzetti itrani, cinquant’anni fa, per scherzo, appiccavano il fuoco alla stoppa delle vecchie conocchie, mentre le nonne filavano, scrollandosi, ogni tanto, le incandescenti faville provenienti dalle maestose fiammate.

   Altra consuetudine  che vigeva nella festa di S. Giuseppe era quella di apparecchiare il banchetto, tavola ricca di imbandigioni, messe a disposizione da una famiglia benestante di Itri per 12 poveri del luogo, che rappresentavano i dodici discepoli di Gesù, missionari della dottrina cristiana, a “L’Ultima Cena”, consumata dagli Apostoli assieme ad un altro povero, simboleggiante il Salvatore. Le portate di questo rito di carità e di ospitalità erano parecchie e gli indigenti erano serviti dal padrone di casa, un certo Soscia, che premurosamente somministrava vivande e bevande.              

   Uno dei significati che si attribuisce a questa tradizione secolare, che rivive ad Itri con insospettata forza (parrebbe quasi incredibile, se non ne fossimo tutti testimoni e protagonisti  puntuali), è la fine dell’inverno con il suo freddo ed il ritorno della primavera, portatrice di buoni raccolti e di splendide giornate. Nel simbolismo giuseppiano il rito di accensione dei fuochi, come è noto, serviva per rimuovere le influenze invernali e la paura dei “morti”.

   In ultima  analisi, possiamo dire che questa antichissima costumanza che si riconnette ai rititi agresti di propiziazione per i nuovi raccolti, ci fa gustare una pausa di riflessione, quasi alla ricerca del tempo perduto, riportandoci ad una dimensione naturale, in cui l’individuo ritorna ad essere il protagonista della vicenda umana.

   Di ciò dobbiamo ringraziare questo santo un po’ … piromane, ma che ha nel cuore una nobiltà che lo porta a distinguersi, a primeggiare. Ha la nobiltà dei sentimenti rari e preziosi, questo umilissimo lavoratore, che l’autrice svedese Selma Lagerlof, Premio Nobel nel 1909, rievocando il Natale, immagina, in una tempesta di neve, che va in cerca di fuoco, per riscaldare la Madonna e il Bambinello.  

Alfredo Saccoccio

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