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Itri, luogo di poetiche montagne e di strane avventure di Alfredo Saccoccio

Posted by on Ott 9, 2019

Itri, luogo di poetiche montagne e di strane avventure di Alfredo Saccoccio

  Il 1765 l’abate Gabriel-François Coyer, che scrive ad una sua Aspasia, pubblica a Parigi, in forma epistolare, “Voyages d’Italie et d’Hollande”, in due volumi. Gesuita, membro dell’Accademia di Nancy e della Reale Società d’Inghilterra, l’autore partecipò attivamente alla vita politica e militare, dopo aver sconfessato i voti. L’opera fu assai apprezzata. Egli diede di ogni città notizie descrittive anche sugli usi e costumi del popolo. Nel primo volume, a pag. 255, allude alla possibilità “di essere svaligiato” a Napoli, rischio che avrebbe corso ad Itri e nelle gole di Fondi.

   Lo storico ed erudito antiquario Biondo Biondi, meglio conosciuto come Flavio Biondo, in “Italia illustrata” (1448-53) mira ad una descrizione geografica, archeologica e storica dell’Italia, secondo le singole regioni, solo 14 su 18 del piano progettato, escludendo le isole.   Grandissima fu l’influenza che il Biondo ebbe nel suo tempo, ma anche in quelli successivi. Per almeno un secolo, non ci fu autore  di discipline storico-antiquarie che non lo utilizzasse o non ne facesse riferimento, perché importanti furono gli spunti proposti dall’umanista. Per il forlivese, Itri era “patria de Lamuri cittadini Romani, … e queste diece (sic!) miglia sono di strada insilicata antica posta fra le montagne, ma amene, e culte di vigne, di oliveti, e di belli altri pastini”.

   Il poeta Quinto Orazio Flacco, l’asceta del Prese  \nte, del “carpe diem”, senza essere uno spensierato gaudente, un edonista scaltro, dell’ “aurea mediocritas” e del “modus in rebus”, racconta in una satira, la quinta del libro primo, dalle impressioni vivaci, con ricchezza di particolari interessanti, un suo avventuroso viaggio, fatto  nell’autunno del 37 a, C,, assieme al retore greco Eliodoro, “un pozzo di scienza” e ad altri  amici; un viaggio non comodo  né tranquillo, durato circa quindici giorni, al seguito del raffinato e sagace Mecenate, in una missione diplomatica. Il tragitto era da Roma a Brindisi, lungo la tanto celebrata arteria romana, proclamata da Stazio “nobilis”, dove l’amico di Augusto, protettore ed amico di Orazio e di Virgilio, si recava per preparare l’accordo fra Ottaviano ed Antonio, che parve dar tregua al contrasto tra i due contendenti, con il riservare al primo l’Occidente e all’altro l’Oriente. Un viaggio, quello del figlio dell’alpestre Venosa, di circa 550 chilometri in 15 giorni, percorso quasi tutto in vettura, eccetto il tratto pestifero di Forappio, l’odierno Borgo Faiti, fatto per alaggio, su “sandalo”, chiatta tirata, lungo la riva, da una mula … Nel 4° giorno, il percorso in terra aurunca era Terracina – Fondi – Formia, per complessive 24 miglia.

   A stancare il poeta venosino, dovette contribuire la ripida salita di Sant’Andrea, lunga circa tre miglia, la parte malagevole della Via Appia, dove si produceva il Cècubo, il più celebre vino dell’antichità romana. Simile produzione si faceva su quella parte del territorio, che, dalla salita di Itri, si distende verso il mare di Sperlonga sino alle vicinanze di Gaeta. In questa striscia di terra, vi allignavano anche messi abbondanti. Nelle parti incolte, piene di fichi, di allori, di mirti e di lentischi, che molto servivano per la concia delle pelli di animale, si trovava, tra le pietre, il traslucido alabastro, usato per far  vasi, statuine, decorazioni e, in lastre sottili, per la chiusura di finestre, particolarmente nelle absidi delle chiese. Nonostante la fatica dell’attraversamento della gola di Sant’Andrea, Orazio dovette provare un estremo piacere per la posizione amena di Itri e pensato, almeno per un momento, al tanto decantato Cecubo, prodotto dai vigneti delle campagne e delle colline itrane.  

   Arnold von Buchell, detto Buchellius, futuro storico dei Paesi Bassi, percorse la Via Appia verso la seconda metà del Cinquecento. Il giovane fiammingo, partito dall’Urbe il 7 febbraio 1588, accompagnato da Montfort, giunse a Terracina quattro giorni dopo osservando templi, fortificazioni ed edifici lungo l’Appia, dalla superba struttura.  Nel libro “Iter neapolitanum” egli accenna al castello di Itri, posto in amena posizione, sulla via Appia, con colli rivestiti di olivi, di fichi, di viti, dove, nel 1535, morì il carduinale Ippolito de’ Medici, vicecancelliere della Chiesa, avvelenato dai sicari di Alessandro de’ Medici, duca di Firenze, suo cugino.

   J. de la Roche, “Voyage d’un amateur des arts en Flandre, dans les Pays BaS, en Italie, dans la Suisse, fait dans les années 1775, 1776, 1778”, Amsterdam, 1783, visitò l’italia nel 1775 mirando gli edifici e i monumenti antichi e moderni. Egli osserva che “Prima di giungere a Mola di Gaeta, si è attraversato le cittadine di Fondi e di Istrie (sic!). Da allora in poi “la strada diviene migliore & la campagna meglio popolata, meglio coltivata…”.

   Nel gennaio del 1645 è la volta di un viaggio dell’insigne naturalista inglese John Evelyn (1620-1706), autore del “Diary of J. E.”, edito a Londra solo nel 1818, celebre opera di cui gli studiosi del Seicento inglese non possono più fare a meno, che non ci rivela nulla di ignorato, non rettifica errori, ma non dice sciocchezze, non scende a frivolezze nel parlare della nostra patria, tanto ricercata dai viaggiatori stranieri, antichi e moderni, e tato bistrattata nei loro giudizi, di solito superficiali, e, spesso, anche balordi. Quello del figlio della fredda Albione è l’itinerario di un uomo di spirito e quello del Goethe l’itinerario di un uomo di genio. Il gentiluomo di campagna, della contea di Surrey, vissuto in un’epoca avventurosa, turbolenta, irrequieta, tumultuante, piena di vergogne e di glorie, di Carlo I, di Cromwell, di Giacomo II e di Guglielmo III d’Orange, rivolge uno sguardo al Monte Cecubo, famoso, in epoca romana, per il suo vino e prosegue sull’Appia, copiosa di melograni, di aranci, di mirtilli e di arbusti di vario genere,che per lui, appassionato cultore di botanica, rivestivano un’attrattiva particolare e che si impressero nel suo spirito.

   Sul finire del XVII secolo, precisamente nel 1688, lo scrittore francese François-Maximilien Misson (1650?-1721), Consigliere al Parlamento di Parigi, scrisse “Nouveau Voyage d’Italie”, edito nel 1691 a La Haye, opera in tre volumi, in forma epistolare. Prima, ad Itri, “piccola Città su una roccia a sei miglia da Fondi”, il Misson nota, in vari luoghi, enormi alberi che portano silique lunghe mezzo piede o quasi, “grosse come baccelli di fave”, che, una volta seccate, hanno il gisto del miele che si accosta abbastanza a quello della manna.

   Per capire la rilevanza del libro, la guida più “classica”, presa come riferimento da Goethe e da Montesquieu, basta ricordare la disperazione del de Brosses, quando la polizia dello Stato Pontificio glielo sequestrò. Questa guida della Penisola, di un’Italia dei bei paesaggi, delle rovine e degli aranci, conobbe una fortuna europea, con numerose edizioni, e fu la precorritrice del Baedeker o del Joanne. Essa è in realtà un libello anticattoloco, ricco di pregiudizi anticlericali, antipapista, dei più efficaci, un antipellegrinaggio che inventaria fino allo smarrimento le prove della superstizione popolare incoraggiata dalle élites. La scrittura del viaggio, allora, mette la religione alla prova. Lungi dal verificare la pertinenza di un luogo, essa si studia di sciogliere i legami fallaci che incatenano le coscienze.

   Non tutte le testimonianze dei viaggiatori sono positive sul nostro territorio : il primo presidente del Parlamento di Digione, Charles de Brosses (niente a che vedere con il filetto di manzo ai ferri), tra il 1739 e il 1740, pur ammirando il panorama goduto a Mola di Gaeta ed apprezzandone i vini, si lamenta dell’aria insalubre respirata nella piana di Fondi, “un brutto borgo, infossato nella gola delle montagne, dove non si trova né pane né companatico, incidente molto consueto e doloroso lungo questa strada”. Da “Lettres familières écrites d’Italie en 1739-40” riportiamo un brano del suo viaggio nella nostra zona : “Di buon mattino abbandonammo (Fondi, n, d. r.) senza rimpianti e, passando per Itri altro villaggio di misero aspetto, arrivammo a Mola di Gaeta, cittadina molto attraente, amabilmente situata e in bella vista sul bordo del mare”,

   Il borgognone Charles de Brosses, indipendente e frondista, dunque votato all’esilio, parrando per Itré (sic!), lo giudica un “villaggio di abbastanza cattivo aspetto”.

   Scorrendo le pagine di “Lettres familères écrites d’Italie en 1739-40”, tomo II, anno VII della Repubblica, opera postuma, uno dei più gustosi libri sull’Italia del Settecento, le cui osservazioni sono sotto forma epistolare, troviamo un’immagine viva, palpitante, di un Paese reale, saldamente unito sotto il segno dell’arte, della bellezza, della musica, utilizzando i cinque sensi per comprendere appieno l’Italia, per la quale la sua  ammirazione si rinnova ad ogni attimo, stregato, com’era, dal Bel Paese.

   Sono pagine guizzanti per brio ed acutezza quelle del magistrato, un erudito molto stimato dallo Stendhal, che lo considerava un mito come Mozart e Cimarosa nel campo musicale, allo stesso livello del Correggio in quello della pittura. Fu de Brosses a fare del “Grand Tour”, prima di Winckelmann e di Goethe, più che un’indispensabile tappa alla formazione del perfetto gentiluomo, una prova iniziatica ed un rito di passaggio.  Per questo motivo, il suo diario, 58 tessere che formano il libro, rappresenterà, agli occhi di Beyle, un autentico archetipo esistenziale e un antidoto salutare contro la volgarità contemporanea.

   Questo francese, dalla solida formazioe erudita, “savante”, tipica dell’alta magistratura transalpina, con una forte rete di relazioni, non ricercava tanto, come fine ultimo, la verità, ma il proprio diletto. Questa è, almeno, l’impressione che il de Brosses  ci offre di sè a trent’anni, prima di diventare l’illustre “presidente”, all’epoca del suo celebre “tour” italiano, trentacinque anni dopo Addison. Da una decina d’anni celebri filosofi, quali Montesquieu e Berkeley, avevano attraversato la penisola. Lo sguardo che anima quest’uomo sensuale ed edonista appare vivo, spregiudicato, inquieto, curioso e mobilissimo, per cui il diario  della sua esperienza ci regala un prezioso caleidoscopio di notizie e di immagini sulla vita italiana nel XVIII secolo, in un’Italia aristocratica, nel fiore della decadenza, ma ricca di una suprema gioia di vivere, tra belle donne, belle arti e belle note musicali.

Alfredo Saccoccio  

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