Itri nei tempi: dal periodo neolitico ai tempi moderni di Alfredo Saccoccio
Le origini di Itri sono oscure e si perdono nei tempi più remoti, nella preistoria. Il nostro paese era un centro di civiltà neolitica ed eneolitica ausonica: infatti testimonianze di una vita millenaria, vestigia di superbe civiltà che indicano la grandezza di una stirpe, sono i ritrovamenti fatti ad Itri, 149 anni fa, di una stazione neolitica, in cui furono rinvenuti raschiatoi, frecce, lance, accette, coltelli, punteruoli in pietra levigata ed in ossidiana, di gustosa e morbida opera. Molto probabilmente gli oggetti dovevano far parte di una “officina litica”, molto prospera e progredita.
Del periodo eneolitico (3.000-2.000 a. C. a. C) è la “stazione di Valle Oliva”, località in territorio di Itri, in cui fu scoperta una coppa a forma di globo, costruita a mano, con bocca rientrante, con manici ad anello schiacciato, ornata sulla spalla da una striscia irregolare, a zig zag, e ruvidamente incisa in un duplice ordine di zanne di lupo. Il manufatto, di colore marrone, a macchia e lisciato, poteva mettersi in relazione con un altro modello venuto alla luce nel medesimo sito preistorico, assieme a numerosi frammenti di ceramica, recuperati, nel 1936, in una grotta preistorica, dal Ministro della Pubblica Istruzione, Sen. Pietro Fedele, sposato con l’itrana Tecla De Fabritiis, grazie a ricerche di superficie. Il boccale monoansato, di forma globulare schiacciata, rinvenuto intero, che apparteneva probabilmente al corredo di una sepoltura, era conservato nella torre di Pandolfo Capodiferro, alla foce del Garigliano, una sorta di museo della cultura aurunca,andato distrutto nel corso dell’ultima guerra mondiale, perché la “turris ad mare” fu fatta saltare dai soldati tedeschi. Era sparita un’opera archeologica del Bronzo Medio iniziale, della cultura del Gaudo (Campania). A quell’epoca questi sensazionali reperti rappresentarono l’esaltante conferma archeologica della presenza di un insediamento abitativo preistorico risalente all’età del bronzo, del II millennio a. C., una datazione che testimonia l’esistenza, a Valle Oliva, di una vita nomade dei pastori, oppure, più verosimilmente, di una vita stabile degli agricoltori. Sul posto, dunque, la storia (sarebbe più preciso parlare di protostoria) si affacciò imperiosamente alla ribalta. Questo primitivo “pagus”, fatto di agricoltura e di pastorizia, non era ancora assurto ad organizzazione poliade, ma già aveva in sè il germe della vita in comune, dell’aggregazione in leghe. Altri “pagi”, disseminati sui monti e sulle colline, erano “Palmole”, “Monte Fumo”. S. Nicola” e “La Mostaca”, che originariamente erano nuclei fortificati, a difesa del territorio e del bestiame.
In questi siti i monumenti megalitici sono veramente molti: tanto numerosi quanto dimenticati e, spesso, abbandonati all’incuria ed alla distruzione, operata dagli uomini più che dagli elementi atmosferici; distruzione che costituisce una perdita netta ed irreparabile, sia dal punto di vista storico-archeologico che da quello artistico. Sono terrazzamenti di massi enormi, in muratura poligonale, che qualche studioso locale di antichità sostiene essere stati costruiti da uomini di statura e forza eccezionali.
Una leggenda che, un tempo, si udiva raccontare ad Itri, diceva che le mogli di questi uomini giganteschi (i rozzi ed antropofagi Lestrigoni?), provviste, anch’esse, di forza straordinaria, portavano loro i massi raccolti sui monti vicini, trasportandoli sul capo, avvolto da un semplice cercine. Esse percorrevano il cammino filando la rocca e chiacchierando. Le leggende sono sempre pittoresche e più fascinose della storia. Però non erra chi pensa che le grosse pietre vennero tratte tutte dai monti, sui quali si edificavano le arci e le “cittadelle”, tutte orientate a levante, e fatte rotolare poi o fatte scivolare, dopo la squadratura, fino al posto dove dovevano essere collocate. Queste rudimentali, ma salde ed efficienti cinte ciclopiche, che richiamano alla memoria un’epoca in cui favola, leggenda e storia si confondo in un suggestivo ed affascinante mistero, fecero definire da Johann Heinrich von Pflaumern, nel “Mercirius Italicus” (1628), l’aspro e pittoresco Itri “oppidum saxeum”, mentre dal poeta tedesco Georg Fabricius è detto “oppidum fumosum”.
Non si è riusciti a trovare notizie storiche, interessanti Itri, intorno al periodo romano. Dobbiamo saltare fino al 589 d. C. per avere la prima notizia su Itri, risalente ai Greci, i quali, con il sostegno della fortezza di Gaeta, ne difesero le gole e la ferace pianura del Garigliano. Nelle stesse gole di Sant’Andrea, nell’846, i Saraceni tesero un’imboscata all’esercito spoletino, che si diede a precipitosa fuga. Le milizie spoletine erano state inviate dal re d’Italia Ludovico, su suggerimento di suo padre Lottarione. Due anni dopo, i musulmani si accamparono nel prato della località “Madonna delle Grazie”, per poi trasferirsi ad Agropoli, sul golfo di Salerno.
Nel 1338 ci fu una controversia tra gli itrani ed i gaetani per un certo tenimento. Ambedue le città rivendicavano il territorio di loro pertinenza, per cui si ricorse alle armi. I gaetani attaccarono per primi e mossero contro la fortezza di Itri. Nel fatto guerresco si inserì il conte fondano Nicolò Caetani, che sconfisse i gaetani, dimostrando la sua indole riottosa ed il suo valore. L’episodio bellico procacciò al Caetani e ad alcuni uomini del suo seguito il cingolo e l’onore delle armi da parte del re di Napoli, Roberto. I gaetani, però, non si diedero per vinti e, nel febbraio del 1340, invasero nuovamente il borgo di Itri. Anche questa volta essi furono duramente sconfitti per l’intervento del re Roberto in favore del conte Nicolò. Nello scontro le truppe gaetane persero molti uomini ed il loro comandante, il napoletano Corrado Guindazzo. Inoltre gli sconfitti dovettero sborsare al sovrano di Napoli 200 once come risarcimento di danni.
Passano 603 anni e la guerra si abbattè, devastatrice, su Itri, che dovette subire furiosi, martellanti bombardamenti dall’aviazione alleata, nei quali trovarono la morte circa 300 persone, procurando lutti e dolori alla popolazione, oltre che rovine all’abitato. Intere squadre aeree anglo-americane scaricarono, senza risparmio, tonnellate di bombe e di spezzoni incendiarii al fosforo, Il cielo, in alcuni giorni, era come oscurato da stormi di aerei, di quadrimotori, che si succedevano senza tregua, terribili, come angeli vendicatori. Erano bombardieri pesanti, del tipo “Fortezze volanti” e “Liberator”; bombardieri medi, “Marauder” e “Boston”; caccia-bombardieri di scorta, “Lightning”, “Thunderbolt” e “Spitfire”. Gli aerei della RAF (sigla di “Royal Air Force, denominazione dell’aviazione militare britannica) giungevano dall’Inghilterra, scaricavano i loro grossi proiettili, ad alto esplosivo, sulle città, proseguivano fino al Nord Africa, dove si rifornivano di altre bombe, da sganciare, nel viaggio di ritorno, su case ed edifici, che si trasformavano in trappole mortali per i civili. L’esito di questi bombardamenti fu disastroso per molti centri aurunci, soprattutto per Formia e per Itri, i cui abitanti assistevano, il più delle volte, dalle montagne vicine al crollo delle loro abitazioni. Di Itri rimase un cumulo di macerie fumanti. La cittadina fu tutto un cratere di fuoco. Da qualche foto dell’epoca e dal “Combat Film (“I cobelligeranti”) si possono notare alberi schiantati al suolo o crivellati dalle schegge; rocce divelte; macigni ciclopici ridotti quasi in polvere, come pure alcune case; strade convertite in piste polverose e fangose; fognature rese inservibili; servizi sociali (scuola e chiese) crollati; rotaie ferroviarie disgiunte. Una vera e propria desolazione, un’indimenticabile immagine di morte impressa indelebilmente nella memoria degli itrani superstiti, una testimonianza di quell’accecamento generale che coglie gli uomini, quando il demone della guerra li possiede.
Occorrerebbe la penna di un Goethe o di un Manzoni per descrivere adeguatamente lo spettacolo doloroso, il “calvario” del paese, prostrato dai lunghi bombardamenti aerei, che incisero profondamente sul tessuto urbano, civile ed umano! Ai dolori sofferti per la guerra, si aggiunse, il 19 maggio 1944, quando Itri venne occupato dagli “alleati”, il comportamento bestiale dei soldati marocchini, appartenemti al Terzo Corpo d’Armata Francese, del quale fecero le spese alcune donne che si trovavano sui monti, sottoposte da quei selvaggi a turpitudini e a strazi inenarrabili. Qualcuno disse, a tal proposito, che Cartagine “era venuta a restituire l’urlo delle sue donne violentate dai legionari di Scipione; qualche altro li giustificò accampando la fatalità della guerra (“La guerre est la guerre”) ed anche il “Vae victis”; qualche altro ancora ricordò lo “Jus vitae et mortis”.
Non è possibile, e non lo sarà mai, poter compilare un elenco completo delle donne che in queste contrade furono soggiogate dalla libidine e dalla ferocia delle truppe di colore, per il pudore di quelle che subirono l’oltraggio della soldataglia dalla pelle scura e dalla barba caprina, che, vestita dei loro pittoreschi “diellabas” rigati, scatenarono un turbine di violenza sadica in terra ciociara e in quella aurunca. La responsabilità degli ufficiali francesi, soprattutto dei generali Juin e Guillaume, per le nefandezze compiute dai “gloriosi” goumiers, accontentati nei loro istinti belluini, è quanto mai grave di fronte al Tribunale della Storia, visto che nessun tribunale ha giudicato i nord-africani responsabili di tante infamie perpetrate in Ciociaria e in tutto il Basso Lazio dai cosiddetti “liberatori”, che si resero protagonisti di inaudite crudeltà verso i tedeschi uccisi, come possono attestare alcuni centenari, che li hanno visti portare, a mo’ di trofei, un collare di orecchie, mozzate al nemico.
Stando a statistiche approssimative per difetto, le donne violentate furono oltre seimila. Da questa drammatica, sconvolgente esperienza, nacque un triste neologismo, “marocchinate”, per definire lo scempio fatto da queste truppe particolari nelle campagne , su donne e uomini, giovani e vecchi, che dovettero subire l’onta dello stupro e il contagio di malattie infettive. Questa tragedia, questo delitto di lesa umanità, queste terrifiche memorie di guerra ispirarono un romanzo ad Alberto Moravia, “La ciociara”, da cui venne tratto, nel 1960, l’omonimo film, che laureò Sophia Loren star internazionale e che le valse l’Oscar come migliore attrice protagonista e molti altri riconoscimenti cinematografici. Si sapeva dell’’odissea dei centri ciociari e di quelli aurunci, ma si è steso un velo sulle infamie e sui lutti, in ossequio ai vincitori, che hanno sempre ragione e che possono permettersi tutto!