JOHN FRANCIS EDWARD ACTON
ACTON, John Francis Edward. – Nacque a Besançon nel giugno 1736 da Edward, nobile inglese emigrato qualche anno prima in Francia per motivi religiosi e stabilitosi a Besançon come medico, e da Cathérine Loys de Gray, figlia del presidente del Parlamento di quella città. In Francia ricevette la prima educazione, fino a quando, all’età di quattordici anni, fu affidato, a Livorno, alle cure di un suo omonimo zio.
Questi aveva a lungo navigato, quale capitano di vascello, nella Compagnia delle Indie Orientali, prima di passare al servizio di casa d’Austria, commodoro in capo delle forze navali in Adriatico, e, dal 1748, alla direzione della marina toscana (cfr. S. Romiti, Le marine militari italiane nel Risorgimento [1748-1861], E. Gibbon (Private letters, edited by Rowland E. Prothero, I, London 1896,) lo ricorda a Livorno, nel 1764, “in a most melancholy situation”, abbandonato dagli amici inglesi in seguito alla sua conversione al cattolicesimo, avvenuta, per motivi “of intercst or devotion”, dopo un violento attacco di apoplessia.
Sotto la guida dello zio, l’A. fece la sua prima breve esperienza marinara, accompagnandolo in alcune missioni, e completando poi la sua istruzione, dal 1750 al 1756, tra gli equipaggi della marina inglese. Al suo ritorno in Toscana, nonostante la nomina a tenente di vascello nella marina granducale, terminò gli studi nell’università di Pisa. Nel 1767 venne promosso capitano di vascello e nominato, come già suo zio, cavaliere dell’Ordine di S. Stefano. La guerra contro i Barbareschi, nella quale anche il granduca si trovava impegnato, diede all’A. occasione di dar prova di perizia e di ardimento, con imprese condotte alla Goletta di Tunisi e sotto le fortezze marocchine di Arzila e Larache. Maggiore rinomanza gli venne, nel 1775, dalla partecipazione a un attacco in forze tentato dal re di Spagna contro Algeri, quando, comandante delle poche navi toscane, riuscì a coprire la ritirata di un intero corpo d’esercito spagnolo incautamente sbarcato nella base avversaria.
Richiesto dal ministro G. de Sartine, oltre che dì consigli, di una ispezione ai principali porti di Francia, il paese che gli aveva dato i natali e nelle cui armate servivano i due fratelli cadetti (cfr. il frammento di diario sui colloqui col ministro della marina de Sartine, in Arch. di Stato di Napoli, Affari esteri, f. 4294), preferì restare al servizio del granduca. Nel 1776, alla morte del vecchio zio, l’A. ascendeva al comando della marina toscana col grado di general maggiore. Qualche anno dopo, la sua fedeltà ai Lorenesi era largamente ripagata da un atto che avrebbe segnato il suo destino: Ferdinando IV di Borbone lo richiese per qualche tempo a Pietro Leopoldo perché riordinasse la marina napoletana.
L’A. giunse a Napoli nell’agosto del 1778; di lì ad alcuni mesi il granduca si piegò alle pressioni del cognato, perché l’abile marinaio fosse definitivamente lasciato alla ricostruzione della flotta e del commercio delle Sicilie, sicché, il 14 apr. 1779, gli fu affidata, col grado di tenente generale, la segreteria di Stato e la direzione della Real Marina, cui si aggiungevano, il 4 giugno 1780, la segreteria della Guerra e, nel corso del 1782, quella di Azienda e Commercio. L’A. attese alla riforma dell’esercito e, più ancora, della marina: la bella flotta borbonica di fine ‘700 fu, infatti, fondamentalmente una creazione sua, come creazione sua furono i cantieri, soprattutto quello di Castellammare, e le scuole da cui uscirono i migliori ufficiali del Regno. La segreteria di Azienda e Commercio fu trasformata, sin dall’ottobre 1782, in un nuovo e importante organo di stato, il Supremo consiglio delle Finanze, destinato a dare impulso alle riforme economiche e sociali del Regno. Ne derivarono l’apertura di numerosi consolati, il “privilegio di scala e porto franco” a Messina (settembre 1784), l’affermarsi della prima compagnia di assicurazioni marittime in Napoli, mentre erano ripresi vecchi e più volte interrotti negoziati con la Francia e con l’Inghilterra per trattati di commercio, e venivano iniziati quelli con la Russia, destinati a concludersi con l’accordo del gennaio 1787, e quelli con gli Stati Uniti d’America, che portarono all’istituzione, nel 1797, di un loro consolato nel Regno. Si pensò perfino di stabilire una Compagnia nelle Indie Orientali, con un tentativo che non ebbe, però, seguito.
Anche attivissima, accanto al Caracciolo e al De Marco, titolare della segreteria dell’Ecclesiastico, fu la partecipazione dell’A. alle trattative con la Curia romana per un concordato, che non fu poi portato a compimento, e alla politica estera vera e propria dello stato napoletano, restituito all’indipendenza dalla tutela spagnola. Fin da quegli anni, il ministro “forestiero”, inseritosi con alacrità nella vita del Regno, ma non legato alle vecchie classi dominanti ed al clero, fu simbolo di indipendenza dalla Spagna di Carlo III. L’inasprirsi dei rapporti fra Napoli e Madrid culminò in una vera e propria congiura, ordita, tra il 1784 e il 1785, dall’ambasciata spagnola con la complicità di un gruppo di cortigiani e diretta a travolgere l’A. e l’austrofila regina. Seguì, invece, la rovina del partito spagnolo. Il licenziamento del primo ministro napoletano, marchese della Sambuca, che da posizioni aristrofile era passato ad altre sempre più ispanofile, nelle intenzioni di Maria Carolina avrebbe dovuto aprire il passo all’A.; ma, per decisione del sovrano, il Sambuca fu sostituito dal marchese Caracciolo. La crisi di governo, risoltasi nel gennaio 1786, procurò, tuttavia, all’A. la nomina a consigliere di stato accanto agli altri due segretari Caracciolo e De Marco. Crebbero allora la sfera d’azione dell’A. e l’ascendente che egli, preoccupandosi di tener lontano dalla corte il principe di Caramanico, prediletto della regina, aveva acquistato sulla coppia reale (ma, in realtà, più su Ferdinando che sull’instabile e impetuosa Maria Carolina, al contrario delle voci che si andavano diffondendo e che parlavano di un favore legato a più intime relazioni). I diplomatici delle corti straniere si trovarono spesso disorientati di fronte alla cauta politica d’indipendenza dell’A., che voleva sfuggire al pericolo dell’isolamento come alla suggestione di facili ingrandimenti. Ne risultò un accordo pieno col Caracciolo, più che con la stessa regina.
Insieme col mito dell’imperialismo dell’A, e di Maria Carolina è destinato, sembra, a cadere o ad attenuarsi anche il giudizio tradizionale del ministro “forestiero”, spregiatore delle forze indigene, avverso alla élite intellettuale del Regno risorto all’indipendenza, austrofilo e, da ultimo, strumento della politica inglese nella corte di Ferdinando IV.
Questo giudizio, che risale agli storici coevi (V. Cuoco, G. M. Arrighi, P. Colletta), ricevette conforto dalla concezione autoctona della storia del Mezzogiorno di un maestro (M. Schipa), ed ha ispirato, ancora negli ultimi decenni, pregevoli ricostruzioni dell’intero periodo (A. Simioni), o di particolari eventi di storia napoletana (N. Nicolini). Ma si rivelò eccessivo già alla revisione storiografica della fine del secolo scorso e accenna, adesso, a cedere il posto ad un apprezzamento più equanime. Nel malcostume di corte, tra nobili e militari “adusati per vecchia tradizione alla soggezione verso la Spagna”, chiusi al “sentimento dell’indipendenza e della dignità nazionale”, intransigenti nella difesa dei loro privilegi, non fu difficile rinvenire l’origine prima dell’opposizione al ministro novatore, opposizione destinata ad arricchirsi, nel rovesciarsi della situazione all’interno e all’estero per opera della Rivoluzione francese, dei risentimenti suscitati dal nuovo dramma vissuto dalla corte e dal paese (B. Maresca, La Marina napoletana nel sec. XVIII, Napoli 1902, pp. 47 ss. e 88 ss., e cfr. di lui ancora, per la serena valutazione dell’opera dell’A. alla vigilia della seconda invasione del Regno, I due trattati stipulati dalla corte napoletana nel settembre 1805, in Arch. stor. per le prov. napol., XII [1887]. Le più recenti indagini (N. Cortese, E. Pontieri, G. Nuzzo, G. Castellano), mentre ci rivelano un A. non sordo ai meriti delle più alte espressioni della società napoletana, un Gaetano Filangieri o un L. de Medici o un principe di Caramanico, ci spiegano la genesi della sua politica estera.
La morte del Caracciolo assicurò all’A., dal 17 luglio 1789 ad interim e dal 1 genn. 1790 stabilmente, la segreteria di Casa Reale, Affari Esteri, Siti Reali e Regie Poste, che gli conferiva altresì dignità e titolo di primo ministro. Nella crisi che la Rivoluzione francese imprimeva all’intero continente europeo, la politica dell’A. mirò dapprima ad un franco riavvicinamento alla Spagna, sopiti i vecchi contrasti che l’avevano diviso dal primo ministro conte di Floridablanca, sino a qualche anno innanzi suo tenace avversario; ma la valutazione della potenza marinara spagnola, ai fini di un aiuto in difesa delle coste italiane da un eventuale attacco francese, si dimostrò errata. Tra il 1792 e il 1793, mentre la distanza con la Francia rivoluzionaria cresceva paurosamente, il governo di Napoli vide dileguare le speranze riposte nell’alleanza marittima con la Spagna di Carlo IV. Dopo l’umiliazione subita da Napoli, il 16 dic. 1792, da parte della squadra francese del Latouche, destinata, tra l’altro, a spezzare bruscamente i negoziati condotti soprattutto col re di Sardegna per una lega tra gli stati italiani, l’A. intraprese con l’Inghilterra – nel 1791 vi aveva ereditato il titolo di baronetto di Aldenham – le trattative conclusesi con la convenzione del 12 luglio 1793, che segnava l’ingresso delle Sicilie nella coalizione antifrancese. Quando il trattato, non disonorevole, col Direttorio (Parigi, 10 ott. 1796) restituì la pace al Regno, l’A. non reggeva più le varie segreterie tenute così a lungo. Attaccato dalla nobiltà, ai primi sintomi di esaurimento del paese, stanco e turbato dallo sforzo bellico, aveva presentato le sue dimissioni. Ferdinando IV, accettandole, gli aveva ordinato, nella sua qualità di consigliere di stato in esercizio, di assistere a tutti i consigli che si sarebbero tenuti alla real presenza (25 apr. 1795), lasciandolo sostanzialmente alla testa del governo napoletano, con un autorizzato controllo sulle varie segreterie.
L’A. si era intanto sbarazzato di Luigi de’ Medici, già suo protetto e ora suo rivale, coinvolgendolo nelle congiure giacobine e facendolo arrestare (27 febbr. 1795). Accanto al re a Foggia, il 25 giugno 1797, in occasione delle nozze dell’erede al trono, nel settembre l’A. fu nominato capitano generale di terra e di mare. Dopo l’infelice spedizione romana di Ferdinando IV, l’A. seguì la corte nella fuga in Sicilia, nel dicembre 1798, ed a Palermo apprese la distruzione della flotta lasciata a Napoli e bruciata per due terzi per ordine dell’ammiraglio Niza.
Gli eventi lo riportavano alla direzione ufficiale della politica e all’interim della segreteria degli Esteri (fin dal dicembre 1798), della quale era titolare il marchese di Gallo, all’atto dell’ingresso nella seconda coalizione. Ma, indubbiamente, anche alle decisioni di quell’anno, prese nell’esaurirsi progressivo della sicurezza del Regno, minato ormai all’interno da un’opposizione incoraggiata dalla rivoluzione, giunta ai confini dello stato, ed esposto, nello sconvolto equilibrio della penisola, alla pressione dell’Austria non meno che della Francia, non era stato estraneo l’Acton. Ancora più difficile sarebbe scindere la sua responsabilità da quella dei sovrani nella repressione che seguì alla caduta della Repubblica napoletana. A fianco del Gallo, impegnato in una serie di missioni diplomatiche, alternò in politica estera, nel variare della fortuna delle armi, il motivo antiaustriaco col motivo antifrancese, fino alla pace di Firenze (28 marzo 1801), che privava il Regno dello Stato dei Presidi e gli riduceva le già modeste possibilità di autonomia, all’ombra della potenza soverchiante del primo console. Da Ferdinando IV, che egli aveva preceduto a Napoli nella prima restaurazione, accompagnandovi l’erede al trono (gennaio 1801), l’A. fu insignito del gran cordone del nuovissimo Ordine di S. Ferdinando; ebbe inoltre dal re di Spagna il Toson d’oro, in riconoscimento della parte avuta nella conclusione dei matrimoni spagnoli del 1802. Ma la rottura del trattato di Amiens, subito dopo, lasciava esposta alla pressione terrestre francese la parte continentale dei domini di Ferdinando IV e alla pressione marittima britannica la parte insulare. Si accentuò così l’anglofilia dell’A., che, anche nella vita privata, dopo il matrimonio a Palermo nel 1800 con una sua nipote, si andava staccando dall’ambiente partenopeo. Dopo una serie di violenti scontri con l’ambasciatore di Napoleone, Alquier, a lui ostilissimo, il 10 maggio 1804 il re si decise a esonerarlo dalla segreteria degli Esteri da lui interinalmente tenuta; ma, lasciandogli titolo e carica di consigliere di stato, lo confermava nell’esatta posizione di nove anni innanzi. A quella caduta, ché tale essa fu in realtà, aveva non poco contribuito Maria Carolina.
L’A. si ritirò in Sicilia con la famiglia (24 maggio 1804), con l’appannaggio annuo di tremila ducati di pensione e col titolo di duca di Modica, che lo metteva in possesso di un vasto feudo trasmissibile agli eredi. Ferdinando IV mantenne con lui corrispondenza sino al gennaio 1806, cioè sino alla nuova fuga da Napoli; ma i costanti consigli mandati da Palermo, fattisi via via aperta critica all’operato della regina, non ridiedero più all’A. parte decisiva nella politica del Regno. Nel nuovo e più lungo esilio della corte in Sicilia, l’A. sembrò, sulle prime, riavere, con la segreteria degli Esteri, il credito di un tempo. Non poté far altro che sforzarsi di mantenere l’accordo con gli Inglesi, da cui ottenne garanzia di aiuti terrestri, oltre che marittimi; ma fallirono le sue esortazioni alla corte perché desistesse da progetti di attacchi al continente, e da continue richieste finanziarie al Parlamento dell’isola. Il 26 ag. 1806 il re ne accettò le dimissioni, pur continuando i rapporti cordiali con lui, con una corrispondenza abbastanza attiva fino al 1807, poi sempre più rada.
L’A. morì a Palermo il 12 ag. 1811.
pubblicato già dal compianto
Errico Crisomolo