Alta Terra di Lavoro

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Jules Verne cantore della Vandea

Posted by on Giu 3, 2020

Jules Verne cantore della Vandea

Jules Verne: un nome che generazioni di lettori hanno imparato a conoscere attraverso i suoi capolavori immortali: Viaggio al centro della terra, Il giro del mondo in ottanta giorni, Michele Strogoff, Ventimila leghe sotto i mari e tanti altri.

Verne pubblicò nel corso della sua vita un centinaio di romanzi. Era nato l’8 febbraio 1828, e si spense il 24 marzo 1905. Aveva attraversato tutto il XIX secolo, aveva accompagnato la trasformazione del mondo attraverso le invenzioni delle macchine, invenzioni che lui stesso, con la sua fantasia, aveva anticipato. Aveva sognato razzi che portano l’uomo dalla Terra alla Luna, aveva immaginato sommergibili come il Nautilus, aveva precorso i tempi con la sua fantasia.

Per molti, Verne fu dunque, con i suoi racconti fantastici, un anticipatore del futuro, e quindi un cantore delle magnifiche sorti e progressive. In realtà Jules fu ben altro. Fu anzitutto un cercatore: i suoi libri sono avventure alla scoperta dell’ignoto, dello sconosciuto. Verne chiude l’epoca delle grandi scoperte, delle avventure in terre inesplorate che spesso possono nascondere e rivelare sorprese. Verne sembrava animato dal desiderio di scoprire ogni dettaglio, ogni luogo, ogni essere presente nel Creato. Proprio così, non semplicemente il mondo o la natura, ma il Creato, perché Verne era profondamente cattolico. Era nato in Bretagna, una terra dalle radici cristiane molto profonde. Una zona geografica che coincideva con una terra che era rimasta a lungo indipendente da Parigi, e che possedeva una propria specificità etnica, dal punto di vista della lingua (di origine celtica), degli usi, dei costumi, delle tradizioni. Dal punto di vista spirituale, poi, l’ovest coincideva con le terre che avevano conosciuto, un secolo prima, la predicazione di san Luigi Maria Grignon de Montfort, grande devoto di Maria Santissima che le aveva percorse diffondendo la devozione a Nostra Signora, l’amore alla Croce e al Rosario.

Fin da ragazzo Verne mostrò le caratteristiche tipiche dei bretoni: senso dell’ordine, parsimonia, ostinazione e una profonda religiosità. Jules, figlio di un cattolico monarchico di Nantes, era un libertario, ma allo stesso tempo un sostenitore dell’ordine e della legge. Uno dei suoi primi biografi lo descrisse come “beffardo, dalla risposta pronta, scettico su qualsiasi cosa, con una sola eccezione: conservò per tutta la vita, retaggio delle sue origini bretoni, la mentalità cattolica”[1].

Non era cambiato nemmeno quando aveva trascorso a Parigi gli anni dell’università. Ne uscì con una laurea in Legge e, dentro il cuore, un intatto sogno di raccontare grandi avventure, di viaggiare con la fantasia.

Nel 1862 finalmente arrivò il primo grande successo editoriale, e il ragazzo bretone diventò Jules Verne. Il libro era Cinque settimane in pallone, e l’ottima accoglienza presso pubblico e critica gli garantì un contratto con l’editore. Era fatta. Dopo un anno, uscì Il capitano Hatteras, e il successo venne rinnovato. Ormai il pubblico si attendeva nuove opere, e il prolifico autore non lo deluse. Nel 1864 stava lavorando a quello che sarebbe diventato uno dei suoi più acclamati capolavori, Viaggio al centro della Terra, che avrebbe segnato la sua definitiva consacrazione come Maestro della fantasia e dell’avventura, quando chiese al suo editore di pubblicare un romanzo storico che aveva da tempo nel cassetto: Il conte di Chanteleine. Il romanzo riguardava una pagina tragica della storia di Francia e dell’Europa, una pagina tragica e dolorosa avvenuta settant’anni prima. Fu la Rivolta della Vandea: la reazione di una società contadina, tradizionale, cattolica, all’aggressione perpetrata dallo stato autoritario uscito dalla Rivoluzione francese del 1789, uno Stato formalmente espressione della rivoluzionaria volontà popolare, ma in realtà profondamente estraneo al popolo “vero”, quello che viveva nelle grandi città come quello delle campagne.

Una Rivoluzione, quella francese, che ha goduto altresì, di ottima (e immeritata) fama, di vasta pubblicistica. La Révolution ha infatti sempre goduto di una stampa favorevole, da est a ovest, ed è stata presentata come il riscatto degli oppressi contro una società ancora pressoché feudale, come l’avanzare della modernità e del progresso.

La Rivoluzione, impregnata delle filosofie illuministe del XVIII secolo ma anche di antiche suggestioni eretiche come la gnosi, si era proposta di combattere innanzitutto la Chiesa. Si scatenò un movimento di cristianofobia che, di fatto, perdura ancora oggi, mutatis mutandis, all’inizio del XXI secolo.

La prima fase del processo rivoluzionario di guerra alla Chiesa non si limitò a un’offensiva sul piano delle idee, ma fu cruenta, violenta, omicida, perseguitando i cristiani – sacerdoti e laici – come non era accaduto da secoli in Europa. Chi non avesse apostatato davanti alle baionette dei soldati o ai proclami dei funzionari dello Stato veniva deportato o ucciso.

Verne ebbe un grande coraggio a pubblicare Il conte di Chanteleine: decise di raccontare la storia della Rivolta dell’Ovest (alla Vandea infatti si era affiancata anche la sua Bretagna) schierandosi apertamente dalla parte dei vinti. In qualche modo l’esempio lo aveva ricevuto da uno dei suoi principali maestri letterali, Walter Scott, che nei suoi romanzi aveva preso le parti dei giacobiti scozzesi, schiacciati e perseguitati dalla Corona britannica. Verne si fece cantore in questo suo romanzo dell’epopea vandeana, rivelandoci quello che la Storia ufficiale ha poi ammesso (quando lo ha fatto) a denti stretti e in tempi molto recenti.

Uno dei giudizi più lucidi e appropriati su quegli avvenimenti fu espresso nel 1993 dal grande intellettuale russo Aleksandr Solženicyn, protagonista dell’eroica stagione del “Dissenso”, ossia il movimento culturale, civile e religioso che nell’ex Unione Sovietica si era opposto – pagando col campo di concentramento, con la tortura e la morte – alla dittatura comunista. Commemorando le migliaia di vittime della Rivoluzione francese, che sarebbe stata poi il modello per altre rivoluzioni ancor più sanguinarie che avrebbero in seguito funestato il mondo, compresa quella che aveva annientato la sua patria, Solženicyn disse:

Gli accadimenti storici non sono mai compresi pienamente nell’incandescenza delle passioni che li accompagnano, ma a una discreta distanza, quando vengono raffreddate dal tempo.

Per molto tempo si è rifiutato di ascoltare e di accettare quanto era stato gridato dalla bocca di coloro che morivano, che venivano bruciati vivi: i contadini di una terra laboriosa, per i quali sembrava fosse stata fatta la Rivoluzione, ma che la stessa Rivoluzione oppresse e umiliò fino all’estremo limite, ebbene, proprio questi contadini si ribellarono contro di essa!

I contemporanei avevano ben colto che ogni rivoluzione scatena fra gli uomini gl’istinti della barbarie più elementare, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio. Essi pagarono un tributo decisamente pesante alla psicosi generale, quando il fatto di comportarsi da uomini politicamente moderati, o anche soltanto di sembrarlo, veniva già considerato un crimine.

Il secolo ventesimo ha notevolmente offuscato agli occhi dell’umanità l’aureola romantica che circondava la rivoluzione nel secolo diciottesimo. Di mezzo secolo in mezzo secolo gli uomini hanno finito per convincersi, partendo dalle loro stesse disgrazie, del fatto che le rivoluzioni distruggono il carattere organico della società; che danneggiano il corso naturale della vita; che annientano i migliori elementi della popolazione dando campo libero ai peggiori; che nessuna rivoluzione può arricchire un paese, ma solamente quanti si sanno trarre d’impiccio senza scrupoli; che generalmente nel proprio paese produce innumerevoli morti, un vasto impoverimento, e, nei casi più gravi, un degrado duraturo della popolazione[2].

Per il grande intellettuale russo, la Rivoluzione francese si era realizzata nel nome di uno slogan intrinsecamente contraddittorio, e irrealizzabile: “Libertà, uguaglianza, fraternità”. Nella vita sociale, infatti, libertà e uguaglianza sono antagoniste e tendono a escludersi reciprocamente: la libertà non prevede l’uguaglianza sociale, mentre l’uguaglianza limita la libertà, perché diversamente non vi si potrebbe giungere. Quanto alla fraternità, quella autentica non può essere costruita da disposizioni sociali, ma è di ordine spirituale, fondata sul riconoscersi figli di un unico Padre. Inoltre questo slogan ternario terminava con tono minaccioso con l’aggiunta “o la morte”, il che ne distruggeva ogni significato.

L’esperienza della Rivoluzione francese avrebbe dovuto bastare perché gli organizzatori razionalisti della “felicità del popolo” ne traessero lezioni, e invece i procedimenti crudeli della Rivoluzione francese divennero il modello per essere in seguito applicati di nuovo sul corpo di altri popoli e nazioni.

I vandeani cantati da Verne, che nel 1789 presero le armi contro la Rivoluzione, combatterono, soffrirono e morirono non per un vago ideale, ma per difendere qualcosa di molto concreto, a cominciare dalla libertà religiosa, ossia, detto in termini pratici, la possibilità stessa di accedere ai sacramenti, di avere, per sé e i propri figli, un’istruzione cristiana, di poter trasmettere e comunicare liberamente la fede stessa.

La Rivoluzione infatti aveva rivelato sempre più il suo volto violento e anticristiano: il 27 maggio 1792 fu promulgata una Legge che esiliava dalla Francia i sacerdoti che rifiutavano il giuramento di fedeltà allo Stato. L’opposizione alla tirannia rivoluzionaria ebbe i suoi più importanti centri principalmente nelle zone occidentali del paese, in Vandea e poi nel Maine e in Bretagna, dove i contadini andarono a combattere recitando la Corona, cantando le litanie, avendo come stendardo la bandiera del re con il Sacro Cuore di Gesù in mezzo.

Vi furono uomini che, nonostante non avessero avuto occasione di compiere gesta importanti come quelle della Vandea, si distinsero in modo straordinario per il loro coraggio e dedizione: furono i primi a innalzare lo stendardo della fedeltà e gli ultimi a sottomettersi. Le loro azioni non ebbero, almeno all’inizio, grande rilevanza militare, ma lo spirito con cui combattevano li elevò a tal punto che non avevano nulla da invidiare ai grandi capi vandeani: furono gli chouans (scioani) del Basso Maine. La loro azione restò nota col nome di chouannerie, indicando tutta la reazione cattolica nel Maine e in Bretagna.

Il Basso Maine è una regione cosparsa di colline e ben irrorata da fiumi. I contadini erano soliti trattare gli alberi in modo tale che questi crescevano con lunghi rami e tronchi vuoti, usati come nascondigli; numerosi fossi e palizzate ostacolavano l’attraversamento dei campi. Tutte queste cose rendevano la regione adatta alla guerriglia.

I contadini erano legati ai loro costumi e profondamente pii, caritatevoli e ospitali. Un proverbio locale dice che Dio fa pagare il triplo l’elemosina rifiutata. Veneravano i loro sacerdoti, che consideravano come rappresentanti del buon Dio.

Alla fine, tuttavia, la sproporzione delle forze in campo prevalse. Il regime, non pago della vittoria, diede luogo a una spaventosa repressione. Il 17 gennaio 1794 il generale Tureau ordinò la distruzione totale della regione con le parole “Libertà, fraternità, uguaglianza, o morte”. Percorsa dalle “colonne infernali”, la Vandea conobbe così un terribile genocidio. Per sapere cosa fosse avvenuto in quella remota regione dell’ovest della Francia, per conoscere i risultati e gli effetti del passaggio delle “colonne infernali” del generale Westermann sulla popolazione, si è dovuto attendere che le opere di valenti e documentatissimi scrittori riuscissero a forzare il cordone sanitario posto, nell’editoria, a salvaguardia del mito intoccabile della Rivoluzione francese e della sua imperitura grandezza, e venissero tradotte e diffuse.

Dalla tragedia della Vandea che Jules Verne racconta in modo partecipe emerge anzitutto l’odio antireligioso, spietato, cieco, che vide in ogni credente, non importa se inerme, donna o bambino o religioso, un avversario da distruggere.

La Vandea rimane nella storia come il paradigma dei genocidi, preso a modello da differenti regimi totalitari.

C’è qualcosa di drammaticamente preoccupante in questo fenomeno di accanimento ideologicamente determinato contro la terra e gli uomini che la lavorano e che ne hanno cura. È troppo vedere in questa perversa politica della terra bruciata e resa desolata un’antichissima terribile tentazione, la pretesa gnosticheggiante e diabolica di ergersi a dei, a demiurghi in grado di distruggere un mondo che si odia e non si accetta così com’è, in quanto fatto da un altro, per poi ricostruirlo secondo i propri schemi mentali e le proprie sfrenate fantasie. Per gli intellettuali illuministi le parole “fanatico” e “fanatismo” erano spesso abbinate a “contadini”, e il sedicente “fanatismo delle campagne” è sempre stato presentato come uno fra i fattori essenziali della rivolta. Per Voltaire il contadino non è altro che “un selvaggio”: rozzo, insensibile, abbrutito dal lavoro, solerte solo alle indicazioni e ai consigli dei preti, tenacemente avvinghiato alle proprie superstizioni religiose. Tutto diverso dall’ideale del “buon selvaggio” di Rosseau, pulito, adamiticamente innocente, non dedito a spiacevoli e degradanti lavori quali vangare, mungere, falciare; risultato di un immaginario utopico in grado di suscitare nel borghese annoiato (di ieri come di oggi) pruriginose attrattive verso evasioni esotiche non meno che erotiche.

Gli insorti della Vandea e della Bretagna erano in realtà tutt’altro che bruti: uno dei grandi protagonisti di questa epopea della fede fu Jacques Cathelineau, detto “il Santo dell’Anjou”, che in qualche modo sembra aver ispirato Verne per il personaggio del protagonista del romanzo.

Jacques era un venditore ambulante che attraversava paesi e fattorie a vendere pettini e saponette, filo e aghi, lana e fazzoletti, zucchero e sale, nonché corone del rosario.

Gioviale e servizievole, franco e leale, assistette con dolore al progredire della Rivoluzione, in particolare nei suoi aspetti anticristiani. Cathelineau prese allora a organizzare pellegrinaggi per supplicare la Vergine che fosse conservata nella loro terra la fede cattolica: “Confido, Vergine, nel vostro soccorso” era la sua preghiera. Jacques Cathelineau, un laico, un semplice fedele, fedele alla sua fede e alla sua coscienza davanti a Dio e davanti agli uomini, divenne il promotore di manifestazioni sempre più vaste al fine di difendere la Chiesa dagli attacchi mortali della Rivoluzione.

Da Parigi non giungono più solamente cattive notizie, arrivano misure persecutorie. Cathelineau trasmette il suo entusiasmo ai giovani del popolo che si sollevano. La piccola nobiltà, che non è potuta emigrare, cerca di eclissarsi. Il clero, che non è potuto andare in esilio e che rifiuta il giuramento, si nasconde e cerca di calmare gli animi. La gente del popolo, sfinita dai dispiaceri, rosa dalle indignazioni e dalle preoccupazioni, giovani contadini, artigiani e commercianti rifiutano di servire un regime che li disprezza e li perseguita.

 Cathelinau si pone alla guida degli insorti, innalzando non una bandiera politica, ma il vessillo della fede.

Vexilla regis prodeunt
Fulget Crucis mysterium
Qua vita mortem pertulit
Et morte vita protulit

Avanzano gli stendardi del Re

Risplende il mistero della Croce

Su cui la vita ha sopportato la morte

e con la sua morte dà la vita.

Questo era il canto di battaglia di colui che era ormai conosciuto come “il santo dell’Anjou”.

Cathelineau, come Giovanna d’Arco, alimentava la sua ispirazione e la sua determinazione a una fonte precisa: la sua devozione, lo zelo ardente per la gloria del suo Dio, il suo attaccamento alla fede cattolica, il desiderio di vedere la monarchia restaurata. Ecco i primi e principali motivi che gli avevano fatto prendere le armi e che lo avevano reso intrepido in mezzo ai maggiori pericoli. Nella sua generosa decisione non entrarono assolutamente l’ambizione, il desiderio di fare la propria fortuna, di conquistare gloria e di farsi un nome. Il suo valore mirabile, il suo zelo a tutta prova, il suo disinteresse ispiravano una fiducia illimitata ai soldati, che ai suoi ordini facevano miracoli. Era amato dai contadini soprattutto per la sua compassione e perché, nato nella loro classe, ne aveva conservato il costume, i modi e il linguaggio. Per questi motivi venne scelto come generalissimo dell’esercito vandeano, e il semplice mercante di filo fu comandante, senza la sia pur minima opposizione, di grandi signori, sottomessi volontariamente alla sua autorità. Ferito a morte il 29 giugno 1793, nel corso della battaglia di Nantes, la città natale di Verne, spirò il 14 luglio, la tragica ricorrenza della Bastiglia.

La vicenda del “Santo dell’Anjou” è una testimonianza emblematica del sacrificio di coloro che, con lui, lottarono e caddero eroicamente per affermare, di fronte a un potere centrale che trasformava il regime di Francia in una macchina da guerra contro la fede religiosa, la propria fedeltà alla Chiesa e i diritti di Dio e della coscienza.

Il conte di Chanteleine testimoniò ai lettori questa epopea. Il libro, tuttavia, se da una parte non dovette subire censure, e l’autore non ebbe ad avere ostracismi dalla cultura ufficiale, venne tuttavia relegato a una “curiosità”: l’opera di un cattolico conservatore affetto da nostalgia per un passato ormai sepolto.

Jules Verne dovette rassegnarsi: il suo Conte di Chanteleine non sarebbe stato il Waverley o il Rob Roy della Letteratura francese. La cultura ufficiale fece finta di non aver visto, e il pubblicò continuò ad acclamarlo per le sue opere fantastiche e a reclamare nuovi viaggi e nuove avventure. Jules lo accontentò ampiamente.

A partire da quell’edizione del 1864, progressivamente il libro sull’epopea vandeana scomparve dagli scaffali delle librerie, e nemmeno le più recenti ripubblicazioni dell’“opera integrale” di Verne lo comprendono.

Eccolo qui, invece, meritoriamente riproposto. Un vero omaggio al genio di Jules Verne. Un vero omaggio ai martiri della Vandea.


[1] Herbert Lottama, Jules Verne, Mondadori 1999, p. 87.

[2] A. Solzenicyn, Onore alla memoria della resistenza e del sacrificio degli insorti vandeani del 1793, in P. Poupard, La guerra dei giganti, Il Cerchio, Rimini 2009, pp. 95-96.

di Paolo Gulisano

prefazione al romanzo Il conte di Chanteleine

ps: dopo aver letto il suddetto romanzo di Giulio Verne che attraverso le vicende del Conte di Chanteleine ci fa vedere uno spaccato della tragedia Vandeana poco divulgataa e poco conosciuta in Italia mentre in Francia non hanno nessuna paura a nasconderla, ho pensato di pubblicare l’introduzione al testo scritta da Paolo Gulisano perchè vale una recensione e non bisogna aggiungere altro per consigliare di leggerlo. Con la presente ringrazio il Dr. Filippo Peschiera di Fede&Cultura che ci ha permesso pubblicarla

Claudio Saltarelli

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