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La “battaglia” del Macerone (20 ottobre 1860)

Posted by on Mar 31, 2021

La “battaglia” del Macerone (20 ottobre 1860)

Garibaldi riuscì a conquistare il Regno delle Due Sicilie con grande facilità. Forse neanche lui, partendo da Quarto di Genova (oggi dei Mille) il 5 maggio del 1860, sperava di risolvere la questione in maniera così agevole.

Eppure le cose andarono davvero così, tanto che il generale di rosso vestito, viaggiando in treno da Salerno come un normale turista della domenica, poté fare trionfale ingresso a Napoli il 7 settembre, osannato dalla folla che i capibastone assoldati dall’ineffabile Liborio Romano aveva provveduto a catechizzare. Nessuna battaglia in campo aperto contro le truppe borboniche (lo scontro di Calatafimi, in Sicilia, del 15 maggio si risolse in una ridicola pantomima, con il tradimento del flaccido generale Landi che, essendosi venduto al nemico, fece ritirare i suoi soldati quando la vittoria era vicina) e questo la dice lunga su ciò che accadde in quel travagliato periodo, quando il tradimento e la pusillanimità la fece da padrone nelle altre sfere dei comandi militari di sua maestà Francesco II. Si dovrà aspettare il primo di ottobre per vedere una battaglia di quelle vere, combattuta con grande accanimento e valore sulle sponde del Volturno. E lì i soldati napoletani dimostrarono ampiamente la loro tempra e il loro coraggio giungendo ad un passo dalla vittoria che avrebbe potuto capovolgere le sorti del tutto. Chissà come sarebbero andare a finire le cose se l’esercito borbonico fosse stato guidato da generali degni di tal nome… Lo scontro del Volturno aveva di fatto lasciata inalterata la situazione: i garibaldini non erano riusciti a infrangere la linea di difesa borbonica attestata sulle sponde del fiume mentre i napoletani non erano stati capaci di acquistare slancio per partire alla riconquista della capitale. In questo scenario il comando militare borbonico pensò a rinforzare gli argini per contenere il più possibile l’avanzata garibaldina e, nello stesso tempo, a presidiare il confine abruzzese: l’esercito di Vittorio Emanuele II, infatti, stava scendendo di gran carriera verso sud e rischiava di prendere alle spalle i reparti attestati sul Volturno. Disegno ineccepibile ma affidato, ancora una volta, a persone imbelli, incapaci e inclini al tradimento. Come il brigadiere Luigi De Benedictis, comandante delle truppe borboniche negli Abruzzi, che ordinò la cessazione di ogni resistenza contro gli invasori. Il 15 ottobre, assieme a gran parte del suo stato maggiore, accoglieva alla frontiera il re di Sardegna rivolgendogli queste parole: “La provvidenza benedica i passi di Vostra Maestà, i popoli degli Abruzzi ansiosamente la attendono”. Cosa che suscitò lo stupore e, nello stesso tempo, il biasimo del sovrano sabaudo, non troppo propenso ad intrattenere rapporti con gli autori di gesti così riprovevoli. Ma, purtroppo, De Benedictis non fu il solo. Altro personaggio di tal fatta, se non peggiore, era il maresciallo Luigi Scotti Douglas, conte di Vigolino, nato da una nobile famiglia di origine piacentina, cui lo stato maggiore borbonico, nella seconda metà del 1860, ebbe la sciagurata idea di affidare il delicato compito di sovrintendere la zona che da Ceprano correva fino a San Germano (l’odierna Cassino) per poi inoltrarsi verso il Molise e il confine con gli Abruzzi. Un ruolo di vitale importanza: la truppa di Scotti Douglas infatti doveva arrestare in tutti i modi l’incedere dell’esercito sabaudo che, una volta sfondata la linea molisana, avrebbe preso alle spalle il dispositivo borbonico sul Volturno. Il maresciallo, però, non era un cuor di leone. Né era dotato di quella prontezza che la situazione avrebbe richiesto. Pur avendo avuto dai suoi informatori notizia della presenza di reparti sabaudi sulle montagne che sovrastavano Isernia, non dette alcun peso alla cosa tanto è vero che giunse in città soltanto il 18 di ottobre. E poi, fatto ancora più grave, dimenticò di far occupare dai suoi soldati il passo del Macerone, posizione strategica difficilmente scalzabile, proprio a causa della sua posizione dominante che, per di più, controllava l’unica via d’accesso al versante tirrenico. Errore che non fecero i piemontesi: non a caso il generale Griffini si portò subito con i suoi uomini a presidiare il valico. Soltanto la mattina del 20 Scotti Douglas, che si spostava in carrozza, inviò alcuni reparti sui tornanti che menavano al passo. I borbonici avanzarono su tre colonne, una al centro e le altre due agli opposti lati, mentre una nebbia fittissima avvolgeva il tutto. I piemontesi, che durante la notte avevano ricevuto cospicui rinforzi, dall’alto aspettavano solo che la visibilità diventasse apprezzabile per iniziare il tiro al piccione. E così il tutto si consumò in una manciata di minuti. Eppure i soldati napoletani avevano iniziato gagliardamente l’assalto costringendo i piemontesi a ripiegare. Quando però i bersaglieri e i Lancieri di Novara, accorsi a sostegno, irruppero nella mischia, la situazione mutò in un battibaleno e per i borbonici fu la fine: troppa la disparità numerica delle forze in campo. I soldati napoletani fuggirono precipitosamente lungo i crinali della montagna e raggiunti dai reparti nemici furono costretti ad arrendersi. La ritirata si trasformò in un’indecorosa rotta. Scotti Douglas e il suo stato maggiore con il colonnello Gagliardi, il colonnello Auriemma e il maggiore De Liguoro, vennero catturati ai piedi del Macerone. “Il generale Scotti – scrive Delli Franci nelle sue memorie – fu fatto prigione mentre stavasene nel suo cocchio per sapere notizie della guerra che combattevano le sue truppe e nel cocchio stesso fu condotto al quartier generale del nemico”. Così ebbe fine quella che la vulgata storiografica dominante chiama la battaglia del Macerone. Ma più che di una battaglia si trattò di una modesta scaramuccia, basti pensare che tra i piemontesi non si registrarono vittime mentre tra i napoletani, come riferisce il De Sivo, cadde il solo tenente Mattiello. Che ne fu del generale Scotti Douglas, conte di Vigolino? Fu prima inviato prigioniero a Sulmona e poi a Torino, per essere messo in libertà poco tempo dopo. Tornato in famiglia, a Napoli, scrisse un opuscolo sotto forma di lettera indirizzata al conte di Cavour nel quale si discolpava per aver militato nell’esercito borbonico. Chiese poi la pensione al governo italiano che gli fu accordata nell’aprile del 1861. Si spense a Napoli, rimpianto da pochi, nel dicembre del 1880. Poteva mai scaturire qualcosa di buono da cotanto personaggio? Assolutamente no. Eppure a lui fu affidato un compito di straordinaria importanza. Cialdini, parlando di Scotti Douglas dopo i fatti del Macerone, così ebbe a dire: “Se non è un grande imbecille è un gran furbo”. Per quel che mi riguarda, invece, non ho dubbi: fu soltanto un traditore. Uno di quei tanti che in quel delicato frangente voltò le spalle al suo sovrano e alla sua nazione. Un’onta questa che non potrà essere mai cancellata. Neanche dallo scorrere inarrestabile del tempo.

Fernando Riccardi

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