Alta Terra di Lavoro

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La battaglia navale di Lissa, 20 luglio 1866

Posted by on Giu 9, 2021

La battaglia navale di Lissa, 20 luglio 1866

“NAVI DI LEGNO CON EQUIPAGGI DI FERRO CONTRO NAVI DI FERRO CON EQUIPAGGI DI LEGNO”

Lissa, isola nel mare Adriatico, è la più lontana dalla costa dalmata, conosciuta nell’antichità come Issa, più volte citata dai geografi greci. Fu base navale della Repubblica Veneta fino al 1797.

Il “fatal 1866” iniziò politicamente a Berlino con la firma del patto d’Alleanza fra l’Italia e la Prussia l’8 di aprile, che miravano rispettivamente alla conquista di Venezia, ed a sottrarre all’impero asburgico il controllo sugli Stati tedeschi. Come contromossa, alla fine di aprile del 1866 l’Austria cominciò la mobilitazione dell’esercito e della flotta. Il 16 giugno scoppiò la guerra fra Prussia e Austria. Il governo italiano dichiarò guerra il 20 giugno 1866, “ma già da sei settimane erano cominciati i preparativi da parte della Regia Marina. Il comando della squadra navale era stato affidato all’ammiraglio conte Carlo Pellion di Persano, nonostante la sua scarsa volontà di assumere questo incarico. Aveva già sessant’anni, nel 1865 era stato nominato senatore a vita dopo essere stato ministro della Marina, aveva fatto le leggi per la nascita di una flotta corazzata moderna, ma sapeva bene che non erano ancora stati costruiti gli uomini per questa flotta. […] Fra gli ammiragli c’erano attriti e gelosie, come pure fra i comandanti delle unità. […] Gli equipaggi non erano preparati e […] gli ufficiali dei quadri intermedi erano perlopiù ignoranti e privi di esperienza”. [1]

La baldanza degli italiani si infranse pochi giorni dopo, il 24 giugno, a Custoza ove l’esercito fu sconfitto dall’esercito asburgico (nel quale militavano anche Veneti).

Fra il 16 e il 28 giugno le armate prussiane invasero l’Hannover, la Sassonia e l’Assia ed il 3 luglio ci fu la vittoria dei prussiani a Sadowa. Due giorni dopo l’impero asburgico decise di cedere il Veneto alla Francia (con il tacito accordo che fosse poi dato ai Savoia) pur di concludere un armistizio. In Italia furono però contrari a tale proposta che umiliava le forze armate italiane e, viste le penose condizioni dell’esercito dopo la batosta di Custoza, puntarono sulla marina per riportare una vittoria sul nemico che consentisse loro di chiudere onorevolmente la guerra.

“Il 25 giugno 1866 la flotta arrivò ad Ancona, luogo stabilito come base operativa, e qui le navi cercarono di organizzarsi, pur fra grandi difficoltà. La città delle Marche, inoltre, non era un porto molto adatto per ospitare una grande squadra navale: era una rada aperta, con moli di dimensioni ridotte e senza grandi difese fisse che la facessero assomigliare a una vera base navale. Anche qui Persano, non appena arrivato, cominciò a tempestare il ministro della Marina Angioletti perché […] fosse accelerato l’arrivo dell’Affondatore, nave da lui ritenuta indispensabile per affrontare la flotta austriaca.

Nel frattempo, Persano proseguiva con l’addestramento dei fuochisti e dei cannonieri, ma la mattina del 27 giugno 1866 l’avviso Esploratore – che era di guardia allargo – entrò a tutto vapore nel porto segnalando che gli austriaci erano in vista. La Re d’Italia aveva un incendio nei depositi di carbone, la Re di Portogallo non riusciva a far partire le macchine; la Terribile aveva la metà dei cannoni, l’Ancona non era pronta a combattere, la Carignano era senza cannoni, Palestro e Varese avevano dei meccanici che non sapevano far funzionare le macchine. Il resto della flotta stava carbonando in confusione. Tuttavia, San MartinoMaria PiaCastelfidardo e Carignano (benché senza cannoni) manovrarono per uscire dal porto. Al largo, l’ammiraglio Tegetthoff incrociava con sei fregate corazzate e una pirofregata: per tre ore andò avanti e indietro, pronto all’azione e in attesa che la flotta italiana, superiore sulla carta, accettasse lo scontro, ma invano. Persano sostenne in seguito che aveva intenzione di adescare la flotta avversaria e distruggerla, ma se questo era il suo piano non se ne vide neanche l’inizio. Invece s’imbarcò sull’avviso Esploratore, ordinò alle quattro corazzate di formare una linea di fila e le fece dirigere in direzione opposta a quella della flotta austriaca, tenne un Consiglio di guerra sulla Carignano per decidere se e come si dovesse attaccare, poi tornò in porto quando ormai gli austriaci se n’erano andati. […]” [2]

La Marina Militare Austriaca era nata nel 1797 con il nome era estremamente significativo di “Oesterreich-Venezianische Marine” (Marina Austriaca e Veneziana). Equipaggi ed ufficiali provenivano nella maggior parte dei casi dall’area veneta dell’impero, con tutto il loro apporto di tradizioni nautiche, militari e storiche. La lingua corrente a bordo delle navi era il Veneto, a tutti i livelli. Nel 1849, dopo la rivolta capitanata da Daniele Manin, fu dato corso alla “austricizzazione”: nella denominazione ufficiale della Marina l’espressione “veneta” fu tolta, e ci fu un notevole ricambio tra gli ufficiali, nel 1850 la lingua tedesca divenne a bordo “primaria” in luogo del Veneto.. Ma questo cambiamento non poteva incidere più di tanto, e non si può quindi dar certo torto a Guido Piovene, il grande intellettuale veneto del novecento, che considerò Lissa l’ultima grande vittoria della marina veneta-adriatica.

I marinai infatti continuavano ad essere reclutati su base volontaria nell’area veneta dell’impero asburgico, ed a bordo il veneto continuò ad essere la lingua corrente, usata abitualmente anche dall’ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff che aveva studiato (come tutti gli altri ufficiali) nel Collegio Marino di Venezia.

Non vi fu mai alcuna sollevazione filo-sabauda tra gli equipaggi veneti della flotta austriaca, nemmeno quando si cominciò a parlare della cessione della Venezia all’Italia. Perfino Garibaldi s’infuriò “perché i Veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo!”.

La Marina Italiana, come accennato, subiva la rivalità fra le sue due componenti, la napoletana e sarda. I comandanti delle tre squadre nelle quali l’armata era divisa, l’ammiraglio Persano, il vice ammiraglio Albini ed il contrammiraglio Vacca erano separati da profonda inimicizia.

E la lettura del quotidiano francese “La Presse” è estremamente interessante: “Pare che all’amministrazione della Marina italiana stia per aprirsi un baratro di miserie: furti sui contratti e sulle transazioni con i costruttori, bronzo dei cannoni di cattiva qualità, polvere avariata, blindaggi troppo sottili, ecc. Se si vorranno fare delle inchieste serie, si scoprirà ben altro“.

“Ad Ancona accorsero Agostino Depretis e Alfonso La Marmora per convincere Persano ad agire. Il presidente del Consiglio gli ordinò il 7 luglio di attaccare gli austriaci, sbarcare sulla loro costa e occupare l’isola di Lissa, in mezzo all’Adriatico. L’8 luglio Persano si decise all’uscita in mare con la flotta e per cinque giorni andò senza una meta precisa e senza cercare di sfidare la flotta austriaca che si trovava nella base di Pola. Il 14 luglio 1866 la flotta tornò ad Ancona, con gli ufficiali in piena rivolta e i marinai fuori di sé dalla rabbia e dalla vergogna. Persano si giustificò ancora con l’assenza dell’Affondatore, promettendo meraviglie quando avesse avuto questa unità ai suoi ordini.

Infine arrivò l’ordine del re, insieme a quello di Depretis: doveva attaccare Lissa, anche se non aveva mappe dell’isola e nemmeno un piano operativo. Ma che cosa era Lissa? Era un’isola aspra e boscosa, distante circa 30 miglia dalle coste dalmate: era lunga circa 13 km e larga 6 km, nel 1866 era abitata da 4.200 civili. Era una posizione d’importanza strategica ed era stata potenziata dagli austriaci con 9 forti e 11 batterie, molte di queste sistemate in posizione molto elevata sul mare, con un totale di 88 cannoni. Fra questi, i maggiori erano pezzi da 24 libbre rigati e mortai da 48 e 60 libbre ad avancarica. La guarnigione era di 1.883 uomini, fra reparti da sbarco della marina e artiglieri da costa. […]

Il 16 luglio Persano, con riluttanza, diede alla sua squadra l’ordine di prendere il mare. Aveva con sé tutte le unità corazzate allora in servizio, meno l’Affondatore, con l’avviso ausiliario Flavio Gioia inviato in avanscoperta a Lissa. La sua flotta era così composta:

– divisione del contrammiraglio Vacca: Carignano (nave ammiraglia), Castelfidardo e Ancona;

– divisione dell’ammiraglio Persano: Re d’Italia (nave ammiraglia), Palestro e San Martino;

– divisione del capitano di vascello Riboty: Re di Portogallo (nave ammiraglia), Varese, Maria Pia, Terribile e Formidabile.

Era presente anche la squadra comandata dal vice ammiraglio Albini, composta da 4 pirofregate, 1 pirocorvetta, 5 avvisi, 3 cannoniere, 1 nave ospedale e 2 trasporti.

Persano era, però, sicuro che la sua forza da sbarco fosse insufficiente, composta da 500 marinai e 1.000 soldati. Aveva avuto la promessa di un altro battaglione di fanteria da sbarco, due compagnie del genio e 1.500 soldati, ma non erano ancora arrivati ed era dovuto partire lo stesso, anche senza sapere quale fosse la forza a difesa dell’isola.

Alle ore 15 del 16 luglio partì da Ancona e il Messaggero fu inviato a fare una ricognizione di Lissa, con una finta bandiera britannica. Al ritorno di questa nave Persano ricevette la notizia che Porto San Giorgio, Porto Manego e Comisa – i maggiori approdi dell’isola – erano ben difesi da batterie poste in posizione elevata. Era già il 17 luglio e l’ammiraglio dispose che l’attacco doveva avvenire all’alba del 18 luglio 1866.

Vacca, con le sue tre corazzate e l’avviso Guiscardo, doveva bombardare Comisa, Albini con le unità non corazzate doveva attaccare Porto Manego; il comandante Sandri, con le cannoniere, doveva tagliare il cavo telegrafico che collegava Lissa con la vicina isola di Lesina; l’avviso Esploratore doveva fare la sorveglianza a nord, l’avviso Stella d’Italia ad ovest. Il resto della flotta, al comando di Persano, doveva assalire Porto San Giorgio, la località principale di Lissa. La conclusione di questo piano, però, era il fatto che, se la flotta italiana fosse stata attaccata d’improvviso, si sarebbe trovata divisa in quattro gruppi. Molto tempo fu perso per dare gli ordini e, di conseguenza, le operazioni iniziarono alle 10 del 18 luglio, così Tegetthoff ebbe tutto il tempo di essere avvisato dell’arrivo degli italiani.

Alle 11 iniziò l’azione a fuoco e arrivò anche la pirofregata Garibaldi con altri soldati e l’informazione che altri erano in arrivo. Alle 15 saltarono in aria due depositi di munizioni all’entrata di Porto San Giorgio e alcune batterie smisero di fare fuoco, ma il consumo di munizioni della flotta italiana era stato elevato: la sola Re d’Italia aveva sparato 1.350 colpi. Arrivò anche la corvetta Guiscardo e il comandante annunciò che Vacca non aveva potuto fare alcunché perché i forti erano troppo in alto. Gli fu quindi ordinato di lasciare una sola nave a Comisa, per tenere impegnata la guarnigione, e portare tutte le navi a rinforzare Albini. A quel punto, però, arrivò da Porto Manego questo ammiraglio con le sue navi in legno: aveva fatto un debole tentativo contro gli austriaci, ma, quando tre proietti avevano colpito la sua nave uccidendo due uomini e ferendone tre, aveva concluso che le sue unità non potevano fare niente contro i forti austriaci e così, con un raro esempio di disobbedienza, aveva abbandonato la posizione assegnata. Il fallimento di Albini fece andare su tutte le furie Persano […]. Alla fine accettò la versione di Albini e gli ordinò di sbarcare le sue truppe a Porto Karober, presso Porto San Giorgio. All’interno di questa località c’erano due forti, la batteria della Madonna e quella del Telegrafo, ancora non colpite. Vacca ricevette l’ordine di entrare nel porto con Castelfidardo e San Martino, ma erano ormai le 18, i cannonieri erano esausti e Persano sospese l’azione, rimandando tutto al giorno dopo.

Al tramonto inviò l’avviso Ettore Fieramosca ad Ancona chiedendo rinforzi e alle 22 arrivarono le cannoniere annunciando il taglio del cavo telegrafico, ma ormai era tardi: Tegetthoff aveva ricevuto la notizia della presenza della flotta italiana e aveva ordinato alla guarnigione di Lissa di resistere. Persano non si era posto il problema dell’arrivo della flotta austriaca, sicuro che Tegetthoff non avrebbe osato affrontare una squadra di forza superiore, per cui diede le disposizioni per il giorno dopo, sicuro di non essere attaccato dal mare: Terribile e Varese dovevano assalire Comisa, Formidabile entrare in Porto San Giorgio con l’appoggio delle tre corazzate di Vacca; lui stesso, nel frattempo, avrebbe assaltato i forti esterni. Durante la notte, però, gli austriaci lavorarono sodo per rimettere a posto le batterie distrutte.

Al mattino del 19 arrivò infine il tanto atteso Affondatore, insieme alle pirofregate Carlo Alberto e Principe Umberto, con un convoglio di truppe che portò la forza da sbarco italiana a 2.600 soldati, cioè 800 in più della guarnigione austriaca. La forza, se condotta con abilità, sarebbe stata sufficiente per conquistare l’isola, ma questa dote era del tutto assente nei comandanti italiani. Il piano di Persano, nel frattempo, andava sviluppandosi: alle 15 la Formidabile entrò nel porto accolta da un violento fuoco degli austriaci e iniziò l’azione contro la batteria della Madonna ad una distanza di circa 150 m. Vacca seguì, ma la specchio d’acqua del porto era troppo ristretto e la batteria era coperta dalla Formidabile, per cui uscì senza aver combinato niente. Al tramonto del 19 luglio la nave si ritirò dall’azione senza essere riuscita a distruggere la batteria, ma dopo aver combattuto con coraggio e determinazione. Il suo comandante, Simone Pacoret di Saint Bon, poté fare a Persano un rapporto orgoglioso, ma pesante nei risultati: aveva a bordo 3 morti e 55 feriti, tutte le sovrastrutture, compresi fumaiolo e alberi, erano ridotte in pezzi e alcuni cannoni erano stati smontati; un colpo, entrato da una delle cannoniere divelte, aveva intossicato con i suoi gas quasi tutti i marinai.

Persano aveva una delle sue migliori unità fuori combattimento e Saint Bon decise di ritirarsi verso ovest e trasferire i feriti su una nave ospedale.

Nel frattempo Albini, dotato dello stesso livello d’incapacità di Persano, non aveva fatto niente: era rimasto tutto il. giorno fuori Porto Karober sostenendo che la risacca impediva lo sbarco del corpo di spedizione. Secondo Persano, il mare era calmo e non c’era nessuna oscillazione sulle navi che stavano cannoneggiando Lissa. Nel frattempo le difese di Porto Karober resistevano, ma alle 23 il vento rinforzò e, in effetti, da quel momento lo sbarco non fu più possibile. Un Consiglio di guerra fu tenuto a bordo della nave ammiraglia […]. L’ammiraglio italiano decise di riprendere l’attacco, ma questo andava fatto con prudenza e attenzione: Albini fu sollecitato a far sbarcare i suoi uomini, Vacca doveva incrociare a nord dell’isola, Terribile e Varese dovevano battere ancora Comisa mentre Persano sarebbe tornato contro Porto San Giorgio. Non era previsto ancora nessun piano operativo se fosse apparsa la flotta austriaca.

Il mattino del 20 luglio 1866 era fosco e minacciava tempesta; il trasporto Piemonte arrivò con un nuovo battaglione di truppe e Persano iniziò le operazioni. Le corazzate italiane erano disperse lungo la costa dell’isola per prendere le posizioni assegnate quando alle 7,50 apparve l’avviso Esploratore che segnalò: «Bastimenti sospetti nella direzione di ponente-maestro». Era Tegetthoff che avanzava a tutta forza.

Com’era dislocata la flotta italiana? Re d’Italia, Palestro, San Martino, Re di Portogallo e Maria Pia stavano bombardando Porto San Giorgio; Carignano, Castelfidardo e Ancona erano distanti, a nordest dell’isola, Terribile e Varese erano sul lato ovest, la Formidabile parecchie miglia a ovest, impegnata a trasbordare i feriti in condizioni critiche, con l’acqua che entrava dai portelli divelti dalle cannonate. La squadra di Albini, con i ponti ingombri di truppe e materiali, si preparava alle operazioni di sbarco. Una grande confusione attraversò tutta la flotta italiana, colta dal panico di una situazione prevedibile, ma non programmata e con di fronte un nemico temibile.

Il contrammiraglio barone Wilhelm von Tegetthoff era nato a Marburg (oggi Maribor, in Slovenia) nel 1827 e aveva quindi trentanove anni, molto giovane per l’incarico che ricopriva. Era già stato al comando della flotta austro-prussiana quando nel 1864 aveva dovuto affrontare un violento combattimento a Helgoland contro una formazione navale danese superiore di numero: aveva avuto la peggio con la sua unità, la pirofregata Schwarzenberg, molto danneggiata, ma aveva costretto i danesi a ritirarsi. Era un uomo coraggioso e deciso, che sapeva ispirare fiducia nei suoi uomini: passerà alla storia come uno dei migliori comandanti in mare. Quando assunse la guida delle forze navali austriache, le trovò in uno stato di trascuratezza, dopo che negli anni Cinquanta erano state comandate dall’arciduca Massimiliano d’Asburgo. Nonostante ciò, aveva convinto il governo di Vienna a potenziare la flotta che, nel 1866, disponeva della nuova base di Pola, di un ottimo polo cantieristico a Trieste e di una squadra di sette navi corazzate. Due di queste, la Ferdinand Max e Habsburgh, mancavano delle principali artiglierie che, ordinate alla ditta tedesca Krupp, erano state bloccate dallo stato di guerra fra le due nazioni: su queste due unità lo scafo e i motori erano a posto, ma le sistemazioni interne erano incomplete. La Don Juan de Austria era priva di una parte della corazza, pronte erano la Drache, SalamanderKaiser Maximilian e Prinz Eugen, tutte unità con dislocamento fra 3.400 e 3.800 t. Tegetthoff aveva a disposizione anche il pirovascello Kaiser, armato con 90 cannoni ma privo di corazza, le pirofregate Adria, Donau, Radetzky e Schwarzenberg, mentre la Novara aveva avuto un incendio a bordo ed era ai lavori. La squadra austriaca disponeva anche di 1 pirocorvetta, 2 yacht imperiali impiegati come avvisi e 7 cannoniere.

Un piroscafo fu requisito al Lloyd Austriaco come ulteriore avviso, Ferdinand Max e Habsburgh furono rapidamente completate con cannoni ad avancarica, la Don Juan de Austria ricevette un rinforzo dello scafo dove mancava la corazza, la Novara fu riparata a ritmo accelerato. Nonostante questi sforzi il rapporto di forza era a favore degli italiani: nel numero di navi era di 1,99 a 1, nel dislocamento di 2,64 a 1, nel numero di cannoni di 1,66 a 1, nella potenza dei motori di 5,7 a 1. I marinai della flotta austriaca erano per la maggior parte dalmati o veneti: 800 erano della laguna veneta, ma erano considerati affidabili e ben preparati. A conferma di questa situazione, gli ordini a bordo venivano dati in lingua veneta.

Il 30 aprile 1866 aveva ricevuto l’ordine di preparare la squadra e da quel giorno Tegetthoff aveva effettuato continue esercitazioni, cercando di comunicare agli equipaggi il suo ardore bellico. I suoi marinai non erano ancora abituati alle unità corazzate e ai cannoni rigati e inoltre, anche lui aveva urgente necessità di abili macchinisti e fuochisti, ma riuscì a trovarli nella numerosa flotta mercantile triestina. Tutto quello che poteva fare lo fece: Tegetthoff aveva continue riunioni con i comandanti delle navi, per risolvere soprattutto il problema della minore potenza dei suoi cannoni. La disposizione data era che tutti i pezzi d’artiglieria di una nave fossero puntati sullo stesso punto di quella avversaria, in modo da aumentarne la potenza. Le navi in legno ebbero un rinforzo esterno composto di catene di ferro: non sarebbe servito a molto, ma dava fiducia agli equipaggi. La flotta austriaca usciva in mare ogni giorno e manovrava di continuo, in modo che i comandanti imparassero ‘ad avere confidenza fra loro; anche l’addestramento ai segnali era continuo e così le esercitazioni di tiro per i cannonieri.

Il 24 giugno 1866 Tegetthoff aveva chiesto di poter passare all’offensiva. Gli fu concesso con alcuni limiti, ma già il 26 era in mare: credeva che la flotta italiana fosse ancora a Taranto e sperava di coglierla impreparata durante il trasferimento ad Ancona, ma, arrivato il 27 davanti al porto marchigiano, la vide già all’ancora in quella base. Osservò che la squadra avversaria non era in condizioni di combattere, ma la sua era in ogni caso inferiore (aveva solo 6 corazzate) e non volle rischiare per il momento, così durante la notte si ritirò nel canale di Fasana, presso Pola.

Il 6 luglio prese il mare verso Ancona, ma ancora non ci fu battaglia. Dopo alcuni giorni passati sempre in addestramento degli equipaggi, il 17 luglio arrivò un messaggio da Lissa con l’informazione che una nave, sotto bandiera inglese, stava effettuando una ricognizione della zona. Il 18 luglio, in rapida successione, arrivarono queste comunicazioni dall’isola: «Nove navi da guerra senza bandiere si dirigono verso l’isola», «Dieci navi da guerra s’avvicinano sotto bandiera francese.», «Le navi avvistate manovrano verso nordovest con le bandiere ammainate; date l’allarme.», «Le navi avvistate si avvicinano a Lissa e distano dieci miglia: attacco imminente.» «Comisa attaccato da dieci navi, bandiera italiana.», «Il porto di Lissa attaccato.», «Duro cannoneggiamento di Lissa: niente perdite.»

Dapprima Tegetthoff ebbe il sospetto che l’attacco all’isola rappresentasse una finta e che il reale obiettivo fosse un’azione contro Venezia, ma quando la mattina del 19 luglio 1866 il governatore della Dalmazia (il cavo telegrafico era ormai interrotto) avvisò che l’attacco era ripreso, Tegetthoff chiese a Vienna l’autorizzazione all’attacco, fece un’ultima conferenza con i comandanti, poi diede l’ordine alle navi di dare pressione alle caldaie e prendere il mare appena pronte.

La squadra austriaca era così disposta: prima c’erano le sette corazzate in una formazione a cuneo, con l’ammiraglia Ferdinand Max alla punta della formazione. Sulla destra c’erano Don Juan de Austria, Habsburgh e Drache, sulla sinistra Kaiser Max, Prinz Eugen e Salamander.

Seguiva poi la corvetta Erzherzog Friedrich come unità ripetitrice dei segnali. A un intervallo di 500 m seguivano, anche loro in formazione a cuneo, le pirofregate con al centro il pirovascello Kaiser al comando del commodoro Petz. Seguiva poi un’ altra unità ripetitrice e poi, sempre a cuneo, dieci unità minori, corvette e cannoniere. La formazione adottata metteva le unità più potenti in prima linea, a protezione delle altre, concentrando in un piccolo spazio il massimo della forza, favorendo l’impiego dello sperone e senza coprire il fuoco di fianco delle corazzate e delle altre unità. Era chiara l’intenzione di Tegetthoff: spezzare la linea italiana e concentrare poi l’azione sulla sezione più debole della flotta italiana, così divisa.

Alle 6,40 del 20 luglio 1866 le vedette avvistarono le unità italiane. Quasi subito arrivò un temporale che occultò la vista per un certo tempo, ma i marinai austriaci stavano facendo colazione e questo gli permise di prepararsi meglio all’azione. Alle 9 del mattino il tempo migliorò e il mare si calmò, benché restasse ancora abbastanza agitato da creare problemi ai cannonieri delle unità minori. Furono alzati i segnali «Pronti all’azione», «Macchine a tutta forza», e, alle 10,35, «Le corazzate carichino il nemico e lo affondino».

Quando vide gli austriaci, anche Persano fece molte segnalazioni alle sue navi. Dapprima ordinò a Terribile e Varese di raggiungerlo, poi diede ordine alle sue unità e a quelle di Vacca di disporsi in linea di fianco, rotta nordovest. Segnalò ad Albini di abbandonare le barche e gli uomini ormai a terra, lasciando il compito alle cannoniere e ai piroscafi minori di provvedere al loro recupero, e di sistemarsi in linea di fila dietro alle corazzate. Albini, però, non eseguì l’ordine perché sostenne di non averlo mai ricevuto.

Pochi minuti dopo si vide che la linea stava prendendo la direzione sbagliata, Persano ordinò allora di dirigere per un minuto a nordest, poi ordinò di essere pronti all’azione e infine di attaccare. Le corazzate raggiunsero la loro posizione con lentezza e Re di Portogallo e Castelfidardo segnalarono che avevano problemi alle macchine. La Formidabile comunicò che si dirigeva per Ancona e, in quel momento, a Persano venne l’intuizione di andare al combattimento secondo il vecchio stile nelsoniano, per cui ordinò alla flotta di assumere una linea di fila. L’ordine fu eseguito, pur con qualche difficoltà: prima la Carignano (nave ammiraglia di Vacca), poi Castelfidardo, Ancona, Re d’Italia (nave ammiraglia di Persano), Affondatore, Palestro, San Martino; in coda c’era Riboty con Re di Portogallo e Maria PiaVarese e Terribile erano rimaste distanziate, ma così la linea italiana era lunga circa 18 km. Persano, in seguito, affermò che il suo progetto era di entrare in azione con tre gruppi: Vacca con tre navi, lui con cinque e Riboty con tre, ma la mancata presenza di tre unità (TerribileVarese e Formidabile) gli creò molti problemi.

A questo punto Persano ebbe un’altra idea: ritenne giusto che il comandante della flotta dovesse stare su una nave veloce e maneggevole fuori della linea. Poiché la Re d’Italia non era né veloce né maneggevole, fece accostare l’Affondatore e, con una lancia, trasbordò su di esso. Anche l’Affondatore non era però maneggevole, inoltre era una nave a torri e nessuno sapeva ancora come utilizzarla in combattimento. Peggio di tutto, non aveva molti alberi adatti per i segnali e, ultima cosa tragica, Persano non avvisò nessun comandante che passava sull’Affondatore e lasciò l’insegna di ammiraglio sulla nave da cui si era allontanato, creando una notevole confusione; inoltre, la sosta per trasbordare scompaginò la linea italiana, creando un varco fra la sua nave ammiraglia e l’Ancona, nel quale quindici minuti dopo s’infilò la squadra austriaca, spezzando in due la flotta italiana.

Iniziò quindi un vivace scambio di cannonate fra le due squadre, ma nessuna nave, in questa prima fase fu speronata. Albini ebbe una buona intuizione e ordinò alle sue tre corazzate un’accostata a sinistra per cercare di colpire le navi in legno austriache, ma eseguì la manovra con troppa lentezza e la squadra di Petz era già passata e cercava di attaccare la squadra in legno di Albini; si trovò però di fronte le unità di Riboty che, rinforzate dalla Varese giunta nel frattempo, la tagliarono fuori da Tegetthoff. Albini, nel frattempo, restò del tutto passivo, mentre Riboty «ripassava» a cannonate il vascello Kaiser.

Tegetthoff, dopo aver oltrepassato la linea italiana, virò di 180° e tornò nell’azione: le navi austriache erano dipinte di nero mentre la squadra italiana era dipinta di grigio (meno l’Affondatore che aveva i colori vittoriani). Le navi austriache, inoltre, avevano strisce identificative sui fumaioli, per cui Tegetthoff poté dare l’ordine: «Speronate tutto ciò che è grigio!». Lo scontro diventò una mischia confusa nella quale le unità si tiravano cannonate e cercavano di speronarsi. La distanza di combattimento era tanto breve che la corazzata austriaca Prinz Eugen defilò contro bordo alla similare unità italiana Regina Maria Pia e i rispettivi comandanti, Barry e del Carretto, si salutarono con cortesia dai ponti di comando. La mischia si accese intorno alla Re d’Italia, che fu aiutata dalla Palestro, ma il tiro concentrato delle navi austriache, in particolare della Drache, provocò un incendio sul ponte di questa unità che fu costretta ad allontanarsi dall’azione. Una nave austriaca non identificata colpì con lo sperone la poppa della Re d’Italia, che ebbe il timone danneggiato e non poté manovrare. Tegetthoff si trovò davanti l’ammiraglia italiana quasi ferma: diede subito l’ordine all’equipaggio della Ferdinand Max «avanti a tutta forza» e, poco prima dell’urto nella fiancata, l’altro ordine importante «macchine indietro». Poco prima dello speronamento, Tegetthoff aveva raggiunto il timoniere Vianello, un veneto di Pellestrina soprannominato «Gratton», e gli aveva detto, esortandolo: «Vai Nane, ghe semo!».

La nave austriaca al momento dell’urto ebbe una scossa ridotta, anche se molti marinai caddero sul ponte in seguito all’urto. A macchine indietro la Ferdinand Max si scostò dalla Re d’Italia, che si era inclinata sulla destra, mostrando un enorme squarcio sulla fiancata sinistra. Questa s’inclinò subito e in pochi minuti affondò, trascinando con sé quasi 400 uomini, compreso il comandante Emilio Faà di Bruno. […] Tegetthoff […] non poté fermarsi a recuperare i naufraghi perché si stava avvicinando la corazzata San Martino e anche l’avviso Elizabeth non poté effettuare il salvataggio.

La battaglia proseguì con azioni fra gli austriaci e Re di Portogallo, Maria Pia e Varese. Intervenne anche l’Affondatore, con Persano a bordo, che cercò di attaccare due volte il vascello Kaiser, ma senza risultato. Un violento scontro avvenne fra questa unità e la Re di Portogallo, che fu speronata dalla nave austriaca. Non ci fu nessun effetto, eccetto il fatto che il Kaiser perse il bompresso e la polena rimasti a bordo della corazzata italiana. Una cannonata dell’Affondatore colpì il Kaiser provocando morti e feriti a bordo, ma questo evitò l’attacco di Ancona e Varese che entrarono in collisione fra loro.

La Palestro continuava a bruciare e non riusciva a spegnere l’incendio; sulle navi italiane cominciavano a scarseggiare le munizioni e gli equipaggi erano demoralizzati. Persano riuscì a riorganizzare la flotta su una linea di nove corazzate, parallela alla squadra di Tegetthoff, che era arrivato a Lissa e aveva notato con soddisfazione che era ancora in mano austriaca. Le due flotte si confrontarono ancora fino al tramonto poi, quasi di comune accordo, interruppero l’azione.

Tegetthoff tornò a Pola e Persano ad Ancona, ma gli italiani dovevano ancora subire un altro colpo: alle 14,30 la Palestro saltò in aria perché il suo comandante Alfredo Cappellini, dopo aver allagato il deposito munizioni, aveva conservato una riserva di cariche qualora fosse dovuto tornare in azione. Morì buona parte dell’equipaggio e, come Faà di Bruno, anche Cappellini sparì con la sua nave.

Alla fine dello scontro gli italiani riuscirono a salvare 166 marinai della Re d’Italia, che erano rimasti a galla aggrappandosi ai relitti della loro nave. Le perdite degli austriaci furono di 38 morti e 138 feriti e nessuna unità affondata; gli italiani, oltre a due corazzate, ebbero 620 morti e 161 feriti. Tornata in porto, la flotta italiana ebbe un altro colpo: un improvviso fortunale abbattutosi sul porto di Ancona il 6 agosto 1866. L’Affondatore imbarcò acqua e si adagiò sui fondali del porto. L’unità fu poi recuperata, ma l’umiliazione della flotta italiana era grande: questo enorme complesso navale, la cui realizzazione aveva pesato in notevole misura sui bilanci dello Stato, aveva fallito alla sua prima prova. […]

L’umiliazione militare del nuovo regno era completa. […] Persano e Albini furono subito sbarcati, e il primo, in quanto senatore, fu deferito al Senato, riunito in Alta Corte di giustizia, con l’accusa di incapacità, negligenza, disobbedienza, codardia e tradimento. Alcune accuse caddero perché vendicative in modo palese, ma fu condannato per disobbedienza con 83 voti a 48, e per incapacità e negligenza per 166 voti a 15. […] Fu privato del grado e della pensione, oltre a dover pagare le spese processuali.” [Achille Rastelli, La Corazzata – l’evoluzione della nave da battaglia in Italia, Mursia, ed. 01/05]

Nonostante le sconfitte di Custoza e Lissa, il Veneto passò all’Italia. E a Napoleone III, imperatore dei francesi, non resterà che dire riferendosi agli italiani: “Ancora una sconfitta e mi chiederanno Parigi“.

Persano perse il posto: dopo il processo in Senato, fu degradato con ignominia per incapacità. Forse fu il più umano dei suoi delitti. Questo “condottiero” si era già distinto in precedenza collaborando con il generale Lamarmora nel bombardamento di Genova, in occasione dei moti di del 1849. Venne utilizzato da Cavour nel 1860 per corrompere gli ufficiali napoletani, con l’aiuto di due zii di Francesco II, Leopoldo e Luigi, che avevano incredibilmente abbracciato la causa sabauda.

Bombardò la città di Ancona in cui si erano arroccate le truppe pontificie dopo la battaglia di Castelfidardo: il “glorioso marinaio dell’unità d’Italia”, come definito da Cavour, ottenuta la resa della città, proseguì il fuoco per altre lunghe 11 ore. Bombardò Gaeta. Si accingeva a farlo a Lissa, ma lì trovò chi era in grado di difendersi …

La flotta italiana si “rifece” al rientro bombardando la città di Palermo, 23 settembre 1866, insorta contro il governo oppressivo dei Savoia (rivolta del “Sette e Mezzo“).


Note

[1] Achille Rastelli, La Corazzata – l’evoluzione della nave da battaglia in Italia, Mursia, ed. 01/05


Bibliografia

  • Achille Rastelli, La Corazzata – l’evoluzione della nave da battaglia in Italia, Mursia, ed. 01/05
  • Ettore Beggiato, Vicenza, luglio 1998
  • Mazzini a Bagnasco in “Il precursore” Palermo 31 luglio 1865

a cura di Fara Misuraca e Alfonso Grasso

fonte

http://www.ilportaledelsud.org/lissa.htm

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