La casta degli storici che non insegna nulla

Gli accademici snobbano tutti i libri contro la versione “ufficiale” da loro accreditata.
E così i revisionisti impazzano: il caso dell’anti-risorgimento
di Marcello Veneziani
Egregi storici di professione che
liquidate con disprezzo i testi e le persone che a nord e a sud criticano il
Risorgimento e ne descrivono massacri e malefatte, dovreste tentare
un’autocritica onesta e serena. So che è difficile chiedere a molti di voi
l’umiltà di rimettere in discussione le vostre pompose certezze e il vostro
sussiego da baroni universitari, ma tentate uno sforzo. Se oggi escono libri e
libercoli a volte assai spericolati, poco documentati e rozzi nelle accuse,
nostalgici del passato preunitario, lo dobbiamo anche a voi. Se nei libri di
testo e di ricerca, se nei corsi di scuola e d’università, se nei convegni e
negli interventi su riviste e giornali, voi aveste scritto, studiato e
documentato i punti oscuri del Risorgimento, oggi non ci troveremmo a questo
punto. E invece quasi nessuno storico di professione e d’accademia, nessun
istituto storico di vaglia ha mai sentito il dovere e la curiosità di indagare
su quelle «dicerie» che ora sbrigate con sufficienza.
Ho letto e ascoltato con quanto fastidio – e cito gli esempi migliori –
Giuseppe Galasso, Galli della Loggia, Lucio Villari parlano della fiorente
pubblicistica sul brigantaggio, i borboni, i massacri piemontesi e i lager dei
Savoia. Ne parlano con sufficienza e scherno, quasi fossero accessi di follia o
di rozza propaganda. Poi non si spiegano perché tanta gente affolla e plaude i
convegni sull’antirisorgimento, a nord o a sud, e disprezza il Risorgimento, se
un libro come Terroni di Pino Aprile sale in cima alle classifiche, se nessuno
sa dare una spiegazione e una risposta adeguate alle accuse rivolte ai padri
della patria. Curioso è il caso di Galasso che prima accusa i suddetti
antirisorgimentali di scrivere sciocchezze e poi dice che erano cose risapute;
ma allora sono vere o no, perché non affrontarle per ricostruirle correttamente
o per confutarle? Ed è un po’ ridicolo criticare le imprecisioni altrui,
ridurle ad amenità, e poi non batter ciglio se il suo articolo, professor
Galasso, viene titolato sul Corriere della Sera «Nel sud preunitario», mentre
il brigantaggio di cui qui si tratta si riferisce all’Italia postunitaria. Par
condicio delle amenità.
Ma il problema riguarda tutto un ceto di storici boriosi, che detengono il
monopolio accademico e scolastico della memoria. Perché avete rimosso, non vi
siete mai cimentati col tema, non volete sottoporvi alla fatica di rimettere in
discussione quel che avete acquisito e sostenuto una volta per sempre?
Detestate i confronti e perfino la ricerca che dovrebbe essere il vostro pane e
il vostro sale. Il risultato è che per molta gente questi temi sono scoperte
inedite.
Per la stessa ragione, non è possibile trovare sui libri di storia, nei testi
scolastici e universitari o nei vostri interventi sui giornali, le pagine
infami che seguono alla rivoluzione napoletana del 1799 con intere città messe
a ferro e fuoco, migliaia di morti ad opera dei giacobini rivoluzionari.
Celebrate i collaborazionisti delle truppe francesi ma omettete i loro massacri,
le città rase al suolo. Non è ideologica anche la vostra omertà? O ancor
peggio, poi non vi spiegate, voi storici titolati del Novecento, perché libri
come quelli di Giampaolo Pansa esplodano in libreria con centinaia di migliaia
di lettori: ma perché voi, temendo l’interdizione dalla casta, non avete avuto
il coraggio di riaprire le pagine sanguinose della guerra partigiana, il
triangolo rosso e gli eccidi comunisti. Così fu pure per le foibe. Poi con
disprezzo accademico sbrigate questi libri come pamphlet giornalistici, roba
volgare e imprecisa. Ma quei morti ci sono stati sì o no, e chi li uccise, e
perché? Quelle ferite pesano ancora nella memoria della gente sì o no? Che
coesione nazionale avremo, caro Galli della Loggia, nascondendo vagoni di scheletri
negli armadi?
Sul Risorgimento non avete il coraggio di rispondere a quelle domande e così
contribuite in modo determinante a rendere le celebrazioni dei 150 anni
dell’Unità d’Italia come uno stanco rituale, estraneo agli italiani, dominato
dai tromboni e dalle stucchevoli oleografie. Salvo poi scrivere stupefatti e
indignati che il Paese non partecipa, è assente, è refrattario. Ma non vi
accorgete che lo diventa se continuate con il vostro manierismo e le vostre
omissioni?
Come forse sapete, sono tutt’altro che un detrattore del Risorgimento e
dell’Unità d’Italia, anzi sono un fautore di lunga data dell’identità italiana,
quando eravamo davvero in pochi a difenderla. Sono convinto che il processo
unitario fosse necessario, che molti patrioti fossero ardenti e meritevoli
d’onore, e che l’idea stessa di unire l’Italia fosse il sacrosanto coronamento
di un’identità, di una storia, vorrei dire di una geografia, di una cultura e
di una lingua antiche. Ma per rendere autentica quell’unità non possiamo negare
le sue pagine oscure e pure infami, non possiamo negare le sofferenze che ne
seguirono e lo sprofondare del sud nei baratri della miseria, della malavita e
dell’emigrazione. Quella malavita organizzata che dette una mano ai garibaldini
come poi agli sbarchi americani. Sono convinto che l’Unità d’Italia non portò
solo guai ma modernizzò il Paese, lo alfabetizzò e lo fece sviluppare; e
considero meritevoli di rispetto i cent’anni e passa che seguirono all’Unità
d’Italia, la nascita dello Stato italiano e di una dignitosa borghesia di
Stato, la graduale integrazione dei meridionali nello Stato, il loro grande
contributo alla scuola e all’università, alle prefetture e alle forze
dell’ordine, alla magistratura e all’alta dirigenza dello Stato, all’impiego
pubblico e militare. Non possiamo buttare a mare più di un secolo di storia per
qualche decennio finale di parassitismo.
Ma bisogna avere il crudo realismo di narrare anche l’altra faccia della
storia; per amor di verità, per rispetto di quei morti e per riportare dentro
l’Italia gli eredi di coloro che subirono l’Unità. Perché resta ancora da
costruire un’Italia condivisa e non da dividere un’Italia già costruita.
Sul Risorgimento non avete il coraggio di rispondere a quelle domande e così
contribuite in modo determinante a rendere le celebrazioni dei 150 anni
dell’Unità d’Italia come uno stanco rituale, estraneo agli italiani, dominato
dai tromboni e dalle stucchevoli oleografie. Salvo poi scrivere stupefatti e
indignati che il Paese non partecipa, è assente, è refrattario. Ma non vi
accorgete che lo diventa se continuate con il vostro manierismo e le vostre
omissioni?
Come forse sapete, sono tutt’altro che un detrattore del Risorgimento e
dell’Unità d’Italia, anzi sono un fautore di lunga data dell’identità italiana,
quando eravamo davvero in pochi a difenderla. Sono convinto che il processo
unitario fosse necessario, che molti patrioti fossero ardenti e meritevoli
d’onore, e che l’idea stessa di unire l’Italia fosse il sacrosanto coronamento
di un’identità, di una storia, vorrei dire di una geografia, di una cultura e
di una lingua antiche. Ma per rendere autentica quell’unità non possiamo negare
le sue pagine oscure e pure infami, non possiamo negare le sofferenze che ne
seguirono e lo sprofondare del sud nei baratri della miseria, della malavita e
dell’emigrazione. Quella malavita organizzata che dette una mano ai garibaldini
come poi agli sbarchi americani. Sono convinto che l’Unità d’Italia non portò
solo guai ma modernizzò il Paese, lo alfabetizzò e lo fece sviluppare; e
considero meritevoli di rispetto i cent’anni e passa che seguirono all’Unità
d’Italia, la nascita dello Stato italiano e di una dignitosa borghesia di
Stato, la graduale integrazione dei meridionali nello Stato, il loro grande
contributo alla scuola e all’università, alle prefetture e alle forze
dell’ordine, alla magistratura e all’alta dirigenza dello Stato, all’impiego
pubblico e militare. Non possiamo buttare a mare più di un secolo di storia per
qualche decennio finale di parassitismo.
Ma bisogna avere il crudo realismo di narrare anche l’altra faccia della
storia; per amor di verità, per rispetto di quei morti e per riportare dentro
l’Italia gli eredi di coloro che subirono l’Unità. Perché resta ancora da
costruire un’Italia condivisa e non da dividere un’Italia già costruita.
Bellissimo articolo di denuncia, ma alla fine oleografico esso stesso con conclusioni paradossali: “l’Italia unita bene necessario” quando la conclusione logica che ci si aspetta dovrebbe essere stata di un’ “Italia confederazione di stati, bene tragicamente mancato e ancora auspicabile”.
Così invece oggi alla “casta degli storici” si sta affiancando una “casta di scrittori” dove inserirei anche qualcuno che sembra andare per la maggiore tipo Saviano.. Per me è di buon auspicio che si sia tolta dai programmi scolastici la materia “storia”, credo riferita a quella recente… così potrebbe porsi un freno alla retorica e trasferirsi invece lo studio più approfondito sul piano dei diritti delle genti e loro affermazione o negazione in ambienti universitari. caterina ossi