La chinea
Per chinea si intendeva lo speciale omaggio che il re di Napoli pagava al Pontefice in monete e con la donazione di un cavallo bianco sulla cui groppa il sovrano, o un suo emissario, doveva presentarsi presso il papa.
L’uso di versare il tributo alla Santa Sede ebbe inizio nel 1059 con i Normanni e durò nei secoli fino al 1788. Già agli inizi del secolo, la chiena era stata fatta oggetto di
scherno e critiche da parte della stampa anticurialista. La polemica non verteva tanto sul tributo in denaro, ma sul dono del cavallo reputato un atto di sottomissione inaccettabile per i regalisti settecenteschi.
Nel 1776 a Roma la cerimonia di pagamento della chinea fu segnata da alcune turbolenze che dettero motivi per il riaccendersi delle diatribe. Il percorso del re di Napoli da Palazzo Farnese lungo il ponte Elvio diretto verso Piazza San Pietro fu disturbato da una lite di precedenza tra gli uomini del Cardinale governatore di Roma e quelli del ministro Tanucci. La faccenda alla corte napoletana fu presa con grande serietà e Tanucci dispose la sospensione di futuri omaggi col seguente dispaccio regale volto al Principe di Cimitile, ambasciatore a Roma: “E’ venuta a notizia del Re il disturbo scandaloso, per ideata e nuova pretensione di precedenza occorso tra la famiglia di cotesto Ministro di Spagna, e quella del Governatore di Roma, nella occasione della cavalcata per la presentazione della chinea, a vista di tutto il popolo radunato per tal funzione. Questo fatto ha richiamata tutta l’attenzione della Maestà Sua per le disgustose conseguenze, che avrebbe potuto produrre nelle circostanze del luogo, del tempo e della maniera, che si è tenuta. Il disordine, che non è ora accaduto, e che può accadere in avvenire, o tra li medesimi, o tra altri in cotesta capitale, ove tante e tanto varie sono le comparse, e li concorsi, non può prevedersi fin dove giungerebbe, e a quali impegni obbligherebbe questa Corte. Uno degl’inconvenienti più gravi, e che più dispiacerebbe alla Maestà Sua, sarebbe il rischio di alterarsi la buona e sincera corrispondenza della Maestà Sua con cotesta Corte, la quale l’è tanto a cuore. Sarebbe stato inevitabile questo rammarico in questa occasione, se le cose fossero passate più avanti; e sussiste il sospetto di quel, che possa avvenire in altro simile incontro. Desiderando dunque la Maestà Sua, per quanto possa dal canto suo, mantenere e conservare l’armonia e il rispetto suo verso la Santa Sede, ha creduto opportuno e necessario togliere tutti li motivi, che possano in menoma parte alterarli. E vedendo con molta amarezza che un atto di mera sua divozione, qual è la presentazione della chinea, è stato e può essere quello, che divenga la occasione di scandalo e del disgusto; ha Sua Maestà risoluto che tal presentazione non si faccia più per lo avvenire in quella forma che può produrre il pericolo del disordine. Quando la Maestà Sua voglia continuare questo atto di sua divozione verso li Santi Apostoli, vi adempierà col far presentare la solita offerta per mezzo del suo agente, o di altro, che venga destinato dal suo Ministro presso la Santità del Papa. Esempi, ragioni, riflessioni, cautela, umanità, rettitudine hanno concorso a determinare la previdenza del Re in uno assunto, la di cui forma dipende dal suo volere e dallo suo impulso della sua pietà e religiosa compiacenza. Questi sentimenti della Maestà Sua, che partono dalla più sincera e perfetta amicizia, e dal desiderio il più vivo e il più costante di mantenere tranquilla la sua filiale venerazione verso il Santo Padrea, verso la di cui persona conserva Sua Maestà un affettuoso riguardo, vuole la Maestà Sua che da V.S. Illustrissima sieno comunicati a cotesto Ministro, perché ne siano nella prevenzione”.
Il dispaccio è datato 9 luglio del 1776, ma già da qualche giorno la polemica s’era spostata a Madrid con un breve carteggio tra Florida Blanca, ministro di Carlo III, ed il cardinale Pallavicini. Quest’ultimo, entrato nel merito della questione, insisteva nel presentare la chinea non già come un atto volontario, ma come un debito contratto con l’investitura di Carlo nel 1738 e quella successiva di Ferdinando nel 1759. Il ministro napoletano Della Sambuca che aveva intanto preso il posto di Tanucci, interpellò senza risposte i consiglieri della Real Camera. Furono direttamente lettere provenienti da Madrid a portare Ferdinando IV a continuare la donazione dell’omaggio e così si procedette sino al 1788 nella formula seguente: “N.N. re delle due Sicilie, di Gerusalemme ec., mio sovrano signore, presenta a vostra Santità, ed io nel suo real nome, questa Chinea decentemente ornata col censo di settemila ducati pel regno di Napoli, e prego il Signore Iddio, che la Santità vostra possa riceverla per molti, e felici anni a maggior aumento della nostra santa fede cattolica, come l’istessa maestà sua coll’intimo del suo real animo augura, e sommamente desidera a vostra Santità”.
Nel 1787 si decise che, per l’anno seguente, di non presentare la chinea ma solo l’offerta di settemila ducati d’oro di camera senza alcuna pompa pubblica. Così Pio VI dopo i solenni vespri della vigilia dei Santi apostoli espose in una allocuzione ai fedeli accorsi le ragioni del mancato omaggio di Ferdinando di Borbone ascrivendo quell’avvenimento all’influenza di uomini corrotti. Il giorno seguente fu ribadito dal Procurator fiscale il diritto della chinea e fu spedita una formale protesta a Napoli. Tutta Roma attendeva i fasti dello spettacolare omaggio, ma ricevuta copia dell’allocuzione pontificia e della nota di protesta, il ministro Domenico Caracciolo, marchese di Villamaina, su ordine di Ferdinando IV, spedì la somma dell’annuo censo ma non presentò alcun cavallo. Fu così che scomparve l’antico omaggio della chinea.
n verità, Ferdinando, spodestato da quando Napoleone giurò a Pio VII che gli avrebbe offerto la chinea non appena riconquistato il trono. Però, ritornato al potere, il re negò il giuramento, offrendo la chinea solo per le enclavi pontificie di Benevento e Pontecorvo. Il Papa rifiutò tutto.
L’abolizione del tributo, ormai non più in essere da quasi settanta anni, fu riconosciuta ufficialmente dalla Santa Sede nel 1855, quando Ferdinando II donò diecimila scudi per la costruzione di un monumento all’Immacolata.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Bibliografia: G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni