La classe politica italiana e la tradizione italiana di studi politici di Giuseppe Gangemi

La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha voluto concludere, in pieno Parlamento, perentoriamente il proprio intervento sul Manifesto di Ventotene: “non so se questa è la vostra Europa, ma certamente non è la mia!” Con questa conclusione, ha mostrato di non avere gli strumenti intellettuali e politici che le avrebbero permesso di capire sia l’idea federale di Europa, che sostengono di volere i suoi oppositori, sia quella confederale, in cui lei dice di credere.
Al 1941, Spinelli era stato espulso dal PCI per aver criticato Stalin il quale avrebbe trasformato la Dittatura del proletariato, che sarebbe dovuta durare il tempo per preparare una democrazia che desse reale potere al proletariato, in dittatura personale destinata a durare fino alla morte del dittatore. L’espressione “dittatura del partito rivoluzionario” adottata da Spinelli, Rossi e Colorni va, quindi, intesa come quel breve tempo necessario per operare la transizione dalla dittatura alla democrazia.
Nella mia opinione, alcune giustificazioni del linguaggio di Spinelli, Rossi e Colorni sono state decisamente inappropriate: 1) Spinelli ha ritrattato alcune parti del Manifesto; 2) ci sono parti nel Manifesto che anche a quelli che stanno dalla parte politica dei tre autori, oggi, suscitano parecchie perplessità; 3) il Manifesto non si può ridurre alle sole frasi evocate in Parlamento. Queste le ignorerò.
Altre giustificazioni sono state, invece appropriate: 1) le affermazioni citate da Meloni sono frasi che non vanno estrapolate dal contesto che toglie la connotazione “spaventosa” che, altrimenti, avrebbero; 2) bisogna considerare il fatto che i tre erano al confino ivi inviati dalla dittatura fascista e hanno usato un linguaggio che, oggi, sarebbe da considerare inappropriato; 3) valutare il testo facendo prevalere, nella sua interpretazione, l’opera poi effettivamente svolta dal MFE nella costruzione dell’UE. Pur essendo appropriate, queste giustificazioni non sono mai state argomentate, come avrebbero dovuto essere, agganciandole alla gloriosa tradizione di studi politici italiani.
Questa gloriosa tradizione comincia con Il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Niccolò Machiavelli, pubblicati nel 1513 e nel 1530, i Discorsi postumi, malgrado fossero mgià pronti dal 1519 e continua con il De Ratione di Vico, pubblicato nel 1708, la Scienza Nuova pubblicata dal 1725 (prima edizione) al 1744 (terza e postuma edizione). Machiavelli, nelle sue opere maggiori, delinea due diverse strategie politiche: nel Principe, quella per ricostruire uno Stato che si trova in una situazione di crisi talmente grave da potersi risolvere solo con metodi rivoluzionari e violenti; nei Discorsi, quella per far progredire lo Stato in una situazione di leggera crisi in cui si può intervenire con tempi lunghi, metodi diplomatici e dialogo. Vico, con la Scienza Nuova, che è da intendersi come Nuova Scienza della Politica, aggiorna la strategia dei Discorsi di Machiavelli e spiega come nasca quella crisi grave che battezza come Seconda Barbarie.
Nella Napoli del Settecento, i attenti primi lettori di Vico (Antonio Genovesi, Giuseppe Maria Galanti, Gaetano Filangieri, Mario Pagano, Francesco Lomonaco e Vincenzo Cuoco) imparano da lui come e del perché si possa cadere nella Seconda Barbarie, non per un’invasione straniera, ma soprattutto per quella che Vico chiama Boria dei dotti o Barbarie della riflessione.
L’esempio di Seconda Barbarie che ha di fronte agli occhi Galanti è quello degli esiliati napoletani che convincono il generale Championnet a occupare Napoli, dopo aver invaso il Napoletano, malgrado gli ordini contrari del Direttorio. Esempio non molto dissimile da quello che ha avuto Machiavelli ai suoi tempi, con Ludovico Sforza, detto il Moro che invita Carlo VIII di Francia a entrare in Italia, con quello che di tragico ne è seguito: le “Guerre horrende de Italia”, l’espressione è stata coniata da Machiavelli, che hanno caratterizzato il periodo dal 1494 al 1559.
Non è per caso che Galanti, che ha pubblicato un Elogio del Segretario Fiorentino nel 1779, scelga, nel 1799, di restare fedele ai Borbone perché consapevole che Championnet avrebbe riportato in Italia la Seconda Barbarie, come già aveva fatto, nel 1494, Carlo VIII di Francia.
Dopo la tragica fine della Repubblica Napoletana, Cuoco attribuisce la responsabilità di quella tragedia ai Francesi (ma solo per quanto ordito dal colonnello Méjan dopo la vittoria sanfedista). Poi, nel 1806, con il ritorno dei Francesi, cambia idea e, da trasformista qual è diventato, assolve Méjan e tutti i Francesi che, ritornando, avrebbero a suo dire impedito il riproporsi della Seconda Barbarie (le tre anarchie sanfediste) del 1799. Lomonaco, repubblicano intransigente, attribuisce ai Francesi, e specificamente a Napoleone, la responsabilità di quella Seconda Barbarie che è consistita nell’uccisione della Repubblica Francese e Napoletana.
E già queste tre letture diverse della Seconda Barbarie di Vico da parte di tre attenti lettori delle sue opere (Galiani, Cuoco e Lomonaco) mostra che la strategia per ricostruire uno Stato e la società civile uscendo dalla Seconda Barbarie è sempre soggettiva, divide gli intellettuali e condiziona le loro scelte. In particolare la posizione di Lomonaco legge Vico come il filosofo che intuisce che la Seconda Barbarie è la Tirannide (che nel Novecento prende il nome di Fascismo e Nazismo. Spinelli, Rossi e Colorni si rendono conto, pur operando in mancanza di esperienze concrete da cui generalizzare, quanto sia problematica la transizione dalla dittatura alla democrazia. Essi sono consapevoli che l’Europa dovrà emergere da una Seconda Barbarie attraverso una transizione dal fascismo alla democrazia in Germania e Italia, una transizione da un governo dittatoriale di militari alla democrazia in Grecia, Portogallo e Spagna e, infine, una transizione dal comunismo alla democrazia in Estonia, Lituania, Lettonia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Slovenia e Croazia.
Spinelli, Rossi e Colorni sono stati i primi ad intuire le problematiche della transizione, pur non disponendo dell’immensa filosofia di Vico che fornisce gli strumenti per comprendere queste transizioni (dato che Benedetto Croce e Giovanni Gentile avevano espunto queste tematiche da Vico “speculativizzando”, il termine è di Antonio Gramsci, il filosofo napoletano). In mancanza del linguaggio gradualista e incrementale di Vico per riformulare in chiave contemporanea la transizione dalla non democrazia alla democrazia, hanno dovuto cercare di adottare un linguaggio rivoluzionario esistente e universalmente noto (il linguaggio marxista) e riformularlo in termini post-marxisti (la dittatura del partito rivoluzionario di cui discettano non è, per loro, la dittatura del proletariato).