La Degnità I di Giambattista Vico e la rivoluzione del 1799 di Giuseppe Gangemi
Nella Scienza Nuova terza, Vico chiama Degnità I il seguente assioma: “L’uomo, per l’indiffinita natura della mente umana, ove questa si rovesci nell’ ignoranza, egli fa sé regola dell’ universo” (1836, 93). Più avanti, ribadisce “che tutto va di seguito a quella degnità, che l’uomo ignorante si fa regola dell’universo”. E subisco dopo distingue tra la “Metafisica ragionata [quella di Cartesio che] insegna che homo intelligendo fit omnia” e la “Metafisica fantastica [la propria che] dimostra che homo non intelligendo fit omnia” (1836, 192).
Questa differenza dipende dal fatto che Cartesio è convinto che la logica sia la scienza che si impara per prima, mentre Vico ritiene che sia la scienza che si apprende per ultima. Come recita la Degnità LIII, “gli uomini prima sentono senza avvertire; dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso; finalmente riflettono con mente pura” (1836, 113). Di conseguenza, l’uomo ignorante si fa regola dell’universo in quanto costruisce il mondo a partire da se stesso; questo uomo, che non è ancora capace di riflettere con mente pura, agisce prima di comprendere e non tiene conto del fatto che la comprensione, se e quando arriva, non è la premessa del vero, ma è il risultato del fare: l’azione è, infatti, il criterio di verifica di ogni fare, sia materiale, sia intellettuale.
Un seguace delle “Metafisiche ragionate” alla Cartesio tenta sempre di costruire un intero mondo con il poco che sa; al contrario, un sostenitore della “Metafisica fantastica” alla Vico parte dal presupposto che, l’uomo, non comprendendo tutto il mondo, si muove con circospezione, un passo per volta. Vico fornisce, con queste parole, la descrizione di quello che, nelle moderne politiche pubbliche, si chiama metodo incrementale e che i detrattori chiamano minimalista. Questo metodo incrementale Pagano consiglia di utilizzarlo individuando e tentando di realizzare il massimo che si può fare in una situazione in cui i conflitti sono tanti e talmente virulenti che fare più di quel tanto significa ottenere risultati controproducenti che portano a più violenza nel sistema e non la fanno diminuire, come ragione vorrebbe.
Tornando al fare intellettuale di Vico, anche il suo filosofare è un fare incrementale. Ne è un esempio tutta la sua opera filosofica. Nella propria Autobiografia, egli spiega che il De Ratione [1708] è un abbozzo del De Universi Juris Uno Principio [1720] di cui è appendice il De Constantia Jurisprudentis [1721]. Ovviamente, la prosecuzione di queste opere sono le tre edizioni della Scienza Nuova [1725, 1730, 1744]. Quello che non dice, ma sta emergendo dagli studi più recenti, è che il precedente di questo filosofare è stato il fare politico di Vico il quale, da giovane, durante il periodo passato a Vatolla e il ritorno a Napoli, si è impegnato fino ad assumere alcune posizioni culturali contrarie alla Curia e alla feudalità. Queste posizioni gli procurano quelle alleanze che gli saranno appena sufficienti a ottenere la cattedra di retorica (vince con una maggioranza risicata).
La sua filosofia, quindi, comincia con un’azione politica discreta e attenta a non suscitare reazioni e con uno studio lungo, accurato e profondo finalizzato all’obiettivo di costruire una produzione filosofica argomentata nel modo migliore possibile. Tanto è vero che, quando la lettura pubblica del De Ratione gli crea problemi accademici, rischia di perdere il posto, e teologici, rischia un’accusa di eresia per alcune sue tesi, egli segue con molto zelo il consiglio di Paolo Mattia Doria di esplicitare meglio la propria metafisica, per difendersi. Nel 1710, ne pubblica il primo volume, il De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda, e risponde due volte, nel 1711 e 1712, a una recensione dell’opera. Poi, quando il pericolo sparisce, egli smette di pubblicare gli altri due libri di cui doveva comporsi la metafisica (ci è rimasto solo un riassunto del Liber Metaphycus, mentre l’opuscoletto del Liber Physicus si è perso). Quindi, Vico ritorna ai propri temi seguendo un metodo prudente e rispettoso del principio del verum ipsum factum: assumere d’istinto alcune posizioni culturali e politiche e lavorarci sopra per fare filosofia nel modo più argomentato possibile. Egli si muove nel fare intellettuale consapevole che non si può eliminare del tutto l’imprevedibilità del fatto storico e che, quindi, il verum si potrà raggiungere (si potrà manifestare in modo prevedibile) solo alla fine della storia e che il massimo della previsione umana è costituito dal certum (il solo vero possibile nello spazio e nel tempo, quindi nella storia).
Questo certum va raggiunto passo dopo passo, nel modo già descritto, con un metodo intellettuale esattamente contrario a quello di Pietro Giannone che, all’improvviso, dopo avere assunto d’istinto alcune posizioni culturali e ideologiche, le fissa in un volume, Dell’istoria civile del Regno di Napoli, uno zibaldone nel quale raccoglie contributi di altri filosofi e li assembla insieme per dare sostanza alla propria visione ideologicamente precostituita. L’Istoria civile di Giannone compare all’improvviso e stupisce l’Europa. Viene facilmente accettata e capita perché è fatta con materiali che, pur provengono da settori disciplinari diversi e da fonti diverse, oltre che da autori diversi, veicolano tesi che sono già nell’aria. Detto nei termini di Vico, Giannone costruisce la propria opera principale con la presunzione tipica di chi “intelligendo fit omnia” ed è talmente sicuro di avere capito tutto che raccoglie e mette insieme tutto quello che può essere portato a sostegno della propria visione ideologica che considera l’unica possibile e vera.
Questa contrapposizione di metodo tra Vico è Giannone permette una nuova chiave di lettura del Settecento napoletano: qui, gli allievi di Vico che procedono passo dopo passo nel costruire le loro teorie: Antonio Genovesi, Giuseppe Maria Galanti, Gaetano Filangieri, Mario Pagano; là, i massimalisti che operano come Giannone, pretendendo di costruire tutto in sol colpo, con un solo intervento intellettuale o politico. Solo questi ultimi, nel 1799, andrebbero definiti giacobini in quanto sono massimalisti che, come riconoscerà Vincenzo Cuoco, improvvisano, esagerano e sbagliano tutto (avrebbero dovuto lasciarsi guidare da Vico e dal suo metodo incrementale).