La fede e l’ortodossia di Dante Alighieri di Alfredo Saccoccio
Ci si chiede quale fu, rispetto al movimento ed all’insegnamento del misticismo,che dominano nella “Divina Commedia” e la ispirano, l’attitudine personale del Poeta : se il misticismo trovò la via facile ad un’assimilazione, da parte di lui, di motivi, di affetti e di idee, non costituenti solo un oggetto di speculazione e di studio, e conquista artificiale, ma fu sostanza e vita dello spirito nelle più alte aspirazioni ed operazioni.
Se, insomma,con schietta convinzione, l’anima aderì all’idealità cantata. Può rispondersi di sì: Dante ebbe la fede,malgrado che contrasti spesso con la vita non sempre coerente ai princìpì, macchiata di vizi e di passioni, che egli non nega. E con questa fede, che domina nel tumulto delle idee del tempo e che caratterizza un’epoca gloriosa della storia, egli recò profonda predisposizione verso le religiose elevazioni : “vita” del suo cuore, cioè del suo intimo “soleva essere – egli dice – un pensiero soave” che si rivolgeva spesso a Dio, sicché “pensando contemplava lo regno dei Beati”.
Il suo spirito, che nella visione ed interpretazione della realtà recava lo sguardo sorretto dal magistero della rivelazione professato con decisa, illimitata, devota soggezione e adorazione di Dio, concepito e sentito tutti i suoi attributi di bontà, provvidenza, verità e giustizia come creatore, padrone e signore delle anime e delle cose, e che una grande intensità e potenza di affetti e di pensieri plasmò e fuse nella sua diritta e salda coscienza religiosa e morale, aveva il dono della credenza: senza incertezze e senza dubbi. Ed essa, più consapevole e viva, gli fu resa dalla sua condizione di studioso e di teologo, che gliene permise una più larga conoscenza.
La teologia, cui si dette con trasporto, anche perché l’orgoglio filosofico postulava il soccorso di una illustrazione scevra da offuscamenti o non ne appagava le ansie investigatrici, fu un’esigenza della sua mente avida di approfondire, ma pure un bisogno dell’anima, che vi cercò la giustificazione “dell’ossequio razionale” e l’appoggio a quella fede che “vince ogni errore”. Il suo pensiero ed il suo sentimento hanno solida base nel dogma cattolico da cui partono.
Forse ci fu un momento in lui e, attratto dal dubbio, egli mancò verso la fede, se realmente il rimprovero di Beatrice nel Paradiso terrestre va esteso ad un traviamento di carattere intellettuale, oltre che morale.
Non sI trattò, in ogni caso, né di negazione né di apostasìa, ma di un’orgogliosa, eccessiva fiducia nei poteri della ragione, finchè nella “Commedia” egli ha coscienza dei suoi limiti e quasi un disprezzo per le pretese della filosofia a tutto comprendere e razionalizzare un’eco – diremmo – dell’ironia bonaventuriana contro le arroganze dialettiche, da cui bisogna guardarsi perché “a sapientia mundana” si vada “ad sapientiam christianam”.
Beatrice può rimproverare il gusto delle brillanti apparenze “ai filosofi che credendo e non credendo dicer vero” sognano senza dormire”, come già nella sommità del Purgatorio gli parlò della insufficienza della scuola filosofica seguita rispetto alla sua dottrina.
Le professioni di fede sono frequenti nel Poema. E possono aver valore di ritrattazioni o di rettifiche di opinioni, un tempo forse accolte senza ponderazione. Il periodo dell’allontanamento della terra via fu, semmai, breve e conchiuso presumibilmente con l’anno del Giubileo, in cui cade l’inizio della visione.
Ricordiamo una sua dolorosa pagina, bagnata di pianto. Con gli anni, con le sventure (quando, gettato fuori del “dolcissimo seno” di Firenze, con il tormento vano di tornarvi a “riposare l’animo stanco e terminare il tempo” che gli era dato, per quasi tutta l’Italia andò mendicando contro sua voglia e mostrando “la piaga della fortuna”) egli si rivolse con abbandono al mondo di là. E gli chiese la vita, quando la vita gli era negata, finché, presso una chiesa di Ravenna, si aprì alla pace eterna verso la quale si erano rivolti i desideri convergenti della filosofia e della credenza. Il dolore può averlo indotto a pregare di più, ma egli pregava anche prima del dolore. Niente di più contrario al vero che supporre “occasionale e passeggera” la religione che gli plasmò l’anima. Essa fu per lui professione e abitudine e bisogno. Non la sola sventura potè suscitare dalla “dura selce del bandito la mistica fiamma” e fargli sentire, sotto la pressione dell’odio umano, l’insufficienza della realtà terrena. Al di sopra e accanto all’impulso del cuore , verso la pietà era in lui la certezza della religione, non scaturita dalla mobilità del sentimento, ma dalla [A1] verità appresa dall’insegnamento della chiesa.
Così pure nulla di più soggettivo della supposizione che egli non ci avrebbe dato “il sacro poema della sua religiosità”, se non fosse passato attraverso l’angosciosa serie delle calunnie, dell’esilio, della povertà, costretto fino ai limiti estremi della sua forza di resistenza. La sventura può essere entrata tra i fattori della reazione e lo spasimo dell’anima offesa e torturata accompagna il cammino del poeta errabondo , che getta con rabbia nella morta gora d’inferno i suoi nemici. Però la sua concezione, anche se non anteriore all’esilio, causa indiretta delle sue maggiori calamità, si sarebbe ugualmente svolta sulla base etico-religiosa, l’unica su cui potevano trovarsi a proprio agio l’intensa spiritualità dell’uomo e la robusta quadratura del suoi genio cattolico.
Le congetture, però, non valgono. Bisogna accettare l’opera qual è: sintesi meravigliosa d’arte e di fede; della fede, uscita più decisa e ferma dalle rovine dei sogni e degli amori che gli caddero intorno, ed anche tra gli erramenti morali serbata, intatta, con la speranza e la carità: le tre virtù di cui si fregiava, come il suoCatone delle tre stelle, e su cui volle farsi “tentare” anzitutto dal maggior apostolo. L’esame gli fruttò il premio di in plauso dinanzi all’alta corte e di un abbraccio. Ed egli gioì al pensiero, se mai il poema potesse vincere la crudeltà degli uomini, che lo costringevano fuori “il dolce ovile”, di tornare con altra voce e autorità sul fonte del suo battesimo; di tornarvi con la consacrazione di “poeta laureato della verità rivelata”.
Abbiamo citato le tre virtù teologali .Esse hanno un fondamentale rapporto con il concetto e disegno del Poema: ne sono la preparazione ed il complemento psicologicoi alla fuizione di Dio, secondo un’insistente osservazione bonaventuriana. Con le tre virtù si ascende a “filosofare” nell’ “Atene celeste”, dice il “Convivio”, si arriva a Dio, Ed è on ciò un’eco e condensazione della pura dottrina seguita.
Perché, è vano insistervi, Dante è, quale si proclamava, figlio devoto della chiesa, “piissima madre” e “sposa del Crocifisso”, di sui sentì, come proprie, le sventure e le glorie, e su cotesto carattere integrale del suo cattolicesimo non cade dubbio. La svalutazione, tentata semptr inutilmente, del suo sentimento e dei suoi princìpi cattolici, parte da uno spirito di unilateralità e di passione di cui non è serio occuparsi. E solo “coloro che nutrono animosità contro la chiesa cattolica2, osserva il Vossler, possono sostenere indebitamente “che la Commedia non è posta su base ecclesiastica, e che Dante non è stato un cattolico ortodosso. Solo il malanimo e l’ignoranza possono oggi ancora compiacersi in così grave illusione. In realtà non c’è un sol punto essenziale, ove la fede di Dante si allontani da quella della chiesa”.
Sui Libri Santi e sul Vicario di Gesà posa, egli ammonisce, la nostra salute.
Sarebbe un contrastare al suo sentimento di devozione per il papato l’allegare talune aspre terzine che sono contro i “Pastor senza legge”, di cui l’umanità potè fallire, e non contro la potestà e dignità delle “somme chiavi”. Queste furono da lui venerate. Si tratta di sfoghi d’ira e di spiegabili errori storici, ma non di insulti né di bestemmie. Le sue parole hanno l’accorato sdegno di Pier Damiani e di S. Bernardo di Chiaravalle, che volevano idealmente pure le mani destinate a reggere la Chiesa, la quale, se a lui pareva “caduta nel fango” per aver confusi in sè in due reggimenti, restava, però, sempre nel suo concetto il “luminare maggiore” e l’autorità cui è dovuta, in materia di fede e di costumi, sottomissione e rispetto anche quando le due potestà, la papale e l’imperiale, si fossero svolte, secondo il suo presupposto, l’una indipendente dall’altra. La Chiesa avrebbe in ogni modo raggiunta la perfezione, come l’incrollabile parola di Beatrice assicurava.
L’astrazione dell’umanità dalla divinità è in lui, se pur occorrono esempi, nel ricordo dello schiaffo di Anagni, che è rievocato con dolore. Dante può odiare in Bonifacio VIII l’uomo, ma questi è sempre uno dei successori del “maggior Piero” ed egli quindi vede nel “Vicario suo Cristo esser catto”. L’Alighieri era uomo di impeti e di passioni. E non seppe né potè indulgere a quanti riteneva responsabili di una tragedia sempre viva nel sauo cuore, o dissentivano dalla sue idee politiche. E li flagellò con forti e dure parole, che non intaccano la credenza. La critica serena respinge, come intrusioni turbatrici della intelligenza e sincerità del Poema e ingiuriose al sentimento vero che lo ispira, le ghibelline,massoniche, liberali e settarie interpretazioni un tempo di moda. Ed è contro la pretesa di trovare nella “Commedia” tracce di un pensiero abìnticattolico di cui si voleva interprete e rappresentante, sulla cattedra dantesca da fondarsi in Roma, il Carducci. Egli onestamente e sdegnosamente rifiutò di prestarsi ad una bieca deformazione delle idee assolutamente ortodosse de Poeta foprentino. Egli la ritenne offensiva non meno allo spirito di lui che alla dignità sua personale.
Dante non fu mai nella pretesa attitudine di ribellione o di libertà rispetto alla Chiesa, alla fede e al dogma. Né mai ebbe la mentalità di un Arnaldo da Brescia, dei gioachimiti, dei Fraticelli e di quanti, settari o miscredenti, si schierarono contro l’idea guelfa. Diciamo di più: in realtà Dante, che ha rivissuto con il cuore, come pochi, la visione beata dell’al di là, fino a credersi assunto anche lui, come S. Paolo, alla gloria dei cieli, è, malgrado gli impulsi della sua umanità peccatrice, che tuttavia sente con rimorso il distacco della fede che professa con sincerità, tra i grandi mistici della storia.
[A1] LUI LA CERTEZZA DELLA RELUIGIONE, NON SCATURITA DALLA MOBILITà DEL SENTIMENTO, MA Dalla verità appresa dall’insegnamento della chiesa.