Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

LA GUERRA AI BRIGANTI (1860-1870)

Posted by on Apr 27, 2025

LA GUERRA AI BRIGANTI (1860-1870)

Lo studio sul brigantaggio non è semplice, «è costantemente esposto al pericolo di frammentarsi nell’analisi di un fenomeno complesso e confuso nelle sue manifestazioni, per alcuni versi ancora tanto oscuro […] e quindi tutto sia frazionato, particolare, caotico».

La storia di quel complesso fenomeno storico sociale, politico, culturale e militare che va sotto il nome di “grande brigantaggio” è un fenomeno complesso e sanguigno, che si manifestò in coincidenza con il processo di unificazione, manifestandosi in forme molto vaste soltanto dalla fine del 1860, in coda alla spedizione dei Mille, e fino all’incirca al 1866, le sue radici erano radicate nei decenni precedenti, e neanche i Borbone erano riusciti a sradicarlo, quando ci provarono, a partire dagli anni Venti dell’Ottocento, dopo averlo sfruttato nel 1799 per le variegate truppe sanfediste del Cardinale Ruffo. Tuttavia dall’autunno 1860 fino al 1864 e oltre le bande dei briganti si moltiplicano e crescono periodicamente, dimostrando capacità militari sorprendenti, sciogliendosi e ricomponendosi rapidamente. Quando nel 1860 i piemontesi invasero, occuparono e annessero il Regno delle Due Sicilie, i briganti si moltiplicarono. La rivolta esplode e dilaga, ad alimentarla ci sono motivi sociali e politici; v’è il tentativo dei Borbone di riprendersi il Regno. I “galantuomini” liberali all’inizio avevano appoggiato lo sbarco e l’avanzata garibaldina. Occupando i territori, togliendo il potere ai borbonici, in nome di Vittorio Emanuele. Di fronte a queste minacce i borbonici reagiscono, ricorrono alla sollevazione contadina per reprimere la rivoluzione borghese. I contadini cooperano con le forze borboniche, al comando del colonnello Teodoro Klitsche de Lagrange, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre 1860, si cerca di ripristinare ovunque l’autorità borbonica, abbattendo i governi rivoluzionari.

«Il successo di questo piano fu quasi travolgente […] Il Klitsche respinse in un vivace combattimento a Civitella Roveto i Cacciatori del Vesuvio di Pateras, raggiunse Avezzano, e alla fine di ottobre, minacciava addirittura l’Aquila dall’altopiano di Rocca di Mezzo». La rivolta dei contadini dilagava violenta specialmente nell’Alto Molise e nel Sannio, i rivoluzionari sono costretti a fuggire e a rifugiarsi sotto la protezione dell’esercito piemontese. In poche settimane si assiste a passaggi di potere e a scontri sanguinosi, furono rialzati gli stemmi borbonici, abbattuti dai rivoluzionari.

In Sicilia invece i contadini siciliani in uno primo tempo appoggiano Garibaldi, «ma quando i loro obiettivi di classe li spingevano ad attaccare la borghesia agraria nei suoi organismi di potere locali, le municipalità e la repressione garibaldina si riversava su di loro». La mancanza di un “partito” borbonico in Sicilia, non ha permesso di sfruttare questa delusione dei contadini ed organizzare la loro reazione. Per la borghesia liberale l’unica salvezza per domare la rivolta contadina, veniva dall’invocare «l’annessione incondizionata e l’arrivo dell’esercito “piemontese”, abbandonando la dittatura garibaldina che disturbava con talune misure di carattere democratico gli interessi costituiti, senza peraltro garantire la proprietà terriera dagli attacchi dei ‘cafoni’». Ma i vari dirigenti del governo a Torino, a partire da Farini, Fanti, Della Rocca e lo stesso Cavour, sottovalutarono la sollevazione contadina a direzione reazionaria. Pensavano che una volta dispersi e allontanati i garibaldini e caduta Gaeta, «l’obiettivo di pacificare il Mezzogiorno e di restaurarvi l’autorità statale, sarebbe stato praticamente conseguito».

Nell’inverno 1860-61 inizia il grande brigantaggio; bande armate si andavano costituendo un po’ dappertutto, vi accorrevano ex soldati borbonici già congedati o “sbandati”, renitenti ai richiami, disertori, evasi dalle carceri, contadini e montanari ansiosi di libertà, di bottino e di vendetta. E’ un susseguirsi di nomi di comandanti briganti e di località, di continui scontri con gli eserciti regolari provenienti dal Nord e con la Guardia nazionale. L’epicentro degli scontri è stata la Basilicata nei boschi del Volture e di Lagopesole, di Rionero, dove primeggiava Carmine Crocco con la sua nutrita banda ed il suo luogotenente Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco-Nanco. Molfese, nell’appendice terza del suo libro, pubblica un elenco delle bande brigantesche attive fra il 1861 e il 1870 e ne individua ben 388 dalle piccole, composte di pochi individui (5-15), fino alle grandi, che raggiunsero e superarono talvolta i 100 uomini, con punte fino a 300-400. Fra le grandi bande, Molfese cita quelle di Giovanni Piccioni, Giacomo Giorgi, Berardo Stramenga nell’Abruzzo Teramano ed Aquilano; di Pasquale Mancini e Salvatore Scenna, Domenico Valerio [Cannone] e Policarpo Romagnoli, Giovanni Di Sciascio, Domenico Saraceni (Pizzolungo) nell’Abruzzo Chietino; di Domenico Coja (Centrillo), Luigi Alonzi (Chiavone), Cedrone, Capoccia, Alessandro Pace, Francesco ed Evangelista Guerra, Domenico Fuoco, Luigi Andreozzi, il generale Rafael Tristany nella Terra di Lavoro, Sorano e Stato Pontificio; di Nunzio di Paolo, Giuseppe Schiavone nel Molise, Sannio e Beneventano; di Cipriano e Giona La Gala, Agostino Sacchitiello nell’Irpinia e Salernitano; di Carmine Donatelli (Crocco), Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), Giovanni Fortunato (Coppa), Paolo Serravalle, Pasquale Cavalcante, Donato Tortora, Angelo Antonio Masini, Giuseppe Caruso in Basilicata; Michele Caruso, Angelo Maria Villani (lo Zambro) in Capitanata; Sergente Romano in Terra di Bari e Terra d’Otranto; Mittica in Calabria; Vincenzo Barone in Provincia di Napoli. Crocco al suo comando aveva formato una vera e propria costellazione di bande guidate da risoluti ed astuti capi contadini. Queste bande arrivarono a minacciare anche i grossi centri del Meridione come Caserta, Benevento, Potenza. E vi sono anche le brigantesse (Dinella, Marinelli, Pennacchio, Ciccilla).

«Le forze dell’esercito e le guardie nazionali sostennero il peso della lotta con non poca difficoltà. Il nemico agiva di sorpresa, mobilissimo, si ritirava fulmineamente dopo aver colpito, tendeva agguati continui, si batteva soltanto in condizioni favorevoli di tempo, di luogo e di forze. Le continue perlustrazioni non davano risultati apprezzabili; le piccole bande sfuggivano ad ogni rete: le bande più grosse, non appena strette davvicino, si frazionavano e si disperdevano. Gli scontri […] si riducevano in genere ad uno stillicidio di scaramucce con perdite esigue da ambedue le parti, ma che comportavano un grande logorio di forze fisiche […]». Meglio di così non si può descrivere la guerriglia ingaggiata dai briganti con i militari regolari.

La repressione ad opera dei piemontesi è spietata. La magistratura militare sostituisce quella ordinaria. «Cialdini impresse alla repressione un carattere spietato, la lotta non conobbe più quartiere e particolarmente efferate furono le rappresaglie indiscriminate sulle popolazioni insorte». Attorno ad un nucleo fisso di capi, o di soldati retribuiti inizialmente dai sostenitori di Francesco II. Molti erano briganti occasionali, come per un secondo o terzo lavoro, il che rendeva e rende difficile una seria contabilità storica. Sulle dimensioni numeriche delle bande e sui caduti disponiamo di tempi, più che di cifre precise, nel tempo rivalutate dalle 5.500 tra 1861 e 1864 secondo le prime ricerche di Molfese, le 8.500 secondo Enzo Ciconte, e le 15.000 vittime circa secondo Ciocca. Ma come scrive Pescosolido «pur sempre di un sacrificio di sangue superiore a quello di tutte le guerre di indipendenza risorgimentali». Sotto il governo di Bettino Ricasoli venne, ancora una volta, la repressione. Durissima e spietata come non mai. La barbarie della repressione con metodi ancor più feroci di quelli dei francesi venne accompagnata da una scaltra campagna di disinformazione: le regioni del Sud erano ancora una volta abitate dai diavoli, e contadino equivaleva a brigante. Se non si era brigante si era fiancheggiatore. I meridionali divennero, così, una razza maledetta, come nel saggio di Vito Teti che ha per titolo, per l’appunto, La razza maledetta. Venne, infine, decretato lo status quo in ordine alla questione demaniale con una legge del 1876, che legittimò l’usurpazione delle terre. Intanto, nel 1863 era stata emanata la famigerata Legge Pica che diede poteri speciali ai militari. Non è possibile riportare qui la mole di informazioni circa questo periodo crucciale della storia della Calabria e di tutto il Sud. Per tutti basti il giudizio di Antonio Gramsci: “Lo Stato italiano […] ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti”. Il governo Ricasoli nascondeva o minimizzava i fatti del brigantaggio non solo nel Paese ma anche all’estero. Si pensi che il rapporto Massari, ma anche quello di La Marmora sono stati segretati, il popolo non ne era a conoscenza. Il dibattito diventa acceso su cosa fare con il Mezzogiorno, viene redatto un documento, una ‘circolare’ dal capo del governo, Massimo D’Azeglio risponde che se i “napoletani” sono contrari all’unità, «non credo che noi abbiamo il diritto di prenderli a fucilate». Mentre Ricasoli ribadisce che c’era stato il plebiscito e che la nazione non poteva concedere a nessuna parte del Paese il diritto di separarsi. Inoltre si nega qualsiasi carattere politico all’azione del brigantaggio, in quanto svolto da “volgari assassini”, che agiscono di propria iniziativa, senza guide legittimiste o di ufficiali borbonici. Del resto per i governanti di Torino, il brigantaggio infestava soltanto cinque delle quindici provincie meridionali. Poi a causa delle rappresaglie ordinate da Cialdini sulle popolazioni, si nota un cambiamento di strategia delle bande e della guerriglia. Non si puntò più a invadere i paesi, ma a colpire i grandi possidenti, le loro terre e il loro bestiame. Preferirono adottare agguati e affrontare piccoli drappelli isolati di soldati e di guardie nazionali. Nella repressione l’esercito sardo-piemontese che si avvale della Legge Pica è il protagonista assoluto, con l’arbitrarietà dello stato d’assedio dei vari generali nei confronti dei “cafoni” meridionali. Bisogna distruggere radicalmente il brigantaggio mettendo a ferro e fuoco il Sud. Appare impressionante il numero di quasi 120.000 soldati impegnati dal governo “liberale” piemontese nell’opera di repressione, testimoniando come il brigantaggio in quegli anni sia stato un fenomeno di massa, che andava ben al di là dei briganti alla macchia. Si intendeva spargere un “salutare terrore” tra i briganti ed i loro sostenitori. Ma alla domanda quanti furono gli arrestati? E’ praticamente impossibile stabilirlo. Le fonti governative forniscono dati ridicolmente esigui. Si pensi che nella sola Sicilia in un anno ci furono quattromila arresti. Equanti furono i briganti fucilati o uccisi? Il numero preciso non lo si saprà mai, ma furono tantissimi. Molfese, dal secondo bimestre del 1861 e tutto il 1865, ne documenta 5.212. Ma si parla anche che i guerriglieri caduti in combattimento in quel decennio furono 155.620 e i fucilati o morti in carcere 120.327. Un massacro. L’olocausto del Sud.

Un fenomeno intricato, sulle cui cause gli storici non hanno mai cessato di interrogarsi. Nel grande brigantaggio confluirono sia una sorda rivolta contro il presente, sia una congerie di faide locali, sia le culture coeve della violenza, sia le speranze di restaurazione e di riaffermazione del potere secolare ecclesiastico. Non vi è dubbio che inizialmente, nel 1861, una componente importante delle insorgenze fu alimentata dal legittimismo borbonico e dalla sua promessa di quotizzazione dei demani, che né Garibaldi né Cavour furono in grado di esaudire. Il brigantaggio non fu un fenomeno meramente ideologico. Perchè è figlio della rabbia che si produce con la miseria e la fame di terra, l’odio maturato dalla popolazione rurale nel corso di tutto l’Ottocento contro i possidenti i cosiddetti “galantuomini”, ma poi non si spiega come mai il fenomeno si dispiegasse ancora e in forme criminali dal 1862 in poi – trascinandosi fino al 1870 e oltre – quando le speranze di restaurazione erano tramontate. I meridionali come gli ebrei, vengono discriminati per la loro ‘razza’; il Mezzogiorno come territorio coloniale, dove tutto era permesso agli ‘invasori’; rimossi i meridionali liberali, i protagonisti del 1848 nei garibaldini; il passato borbonico divenne così come una sorta di originario paradiso perduto. Di fronte a tali processi, profondi e diffusi, lo stato unitario non ha avuto una propria politica della memoria, non sapendo quindi offrire al Meridione d’Italia, anzi ai suoi vari Meridioni, una versione adeguata del processo di Unificazione. Troppo pochi, peraltro, sono stati gli storici che si sono posti questo problema (a la loro giustificazione, comunque, un problema più delle istituzioni e della politica che della storiografa). D’altronde, proprio una versione ufficiale dell’Unificazione privata dalle asperità delle sue contraddizioni sociali e politiche possono ingannare e finire per presentare quella brigantesca come l’unica forma di opposizione sociale alla ‘guerra regia’ e all’unificazione in una ‘rivoluzione passiva’. Si cancella così la memoria dei liberali, dei democratici, dei garibaldini e dei mazziniani che sognavano un’altra Italia e per essa combatterono. Infine, in ambienti anarchici così come in ambienti di destra radicale la riproposizione di visioni romantiche del brigante come masnadiero “schilleriano” può trovare una sua collocazione. Attorno al brigantaggio bisogna ampliare lo sguardo al suo “manutengolismo”, cioè ai ceti e alla società politica che lo sosteneva, e più in generale alla società civile nelle sue diverse articolazioni territoriali. Anche Molfese aveva guardato non solo ai briganti ma alla società che li esprimeva: ma le categorie con cui vi guardava erano quelle dei suoi tempi, in cui si cercava di inserire tutto il Mezzogiorno dentro una unica questione sociale. La classe dirigente liberale e i suoi storici diedero spesso dei briganti un’immagine tutta negativa e criminalizzante, spesso sottacendo il consenso politico e sociale che essi avevano riscosso e dal quale la loro azione si era mossa. Più rari, ma suggestivi e durature, furono in quei decenni le ricostruzioni romantiche della guerra del brigante. Si mise in evidenza il dato di lungo periodo di un Meridione solcato da forme di insubordinazione e di ‘malandrinaggio’, fu possibile mettere l’accento sulle diversità territoriali nelle forme tattiche, nei risultati e nei consensi dell’azione brigantesca, l’articolazione delle bande in sottogruppi, le differenze tra bande costituite da contadini, da sottufficiali e da ex soldati o da pastori, si esaltò il dato della conflittualità fra unitari e antiunitari nelle vicende politiche locali. Insomma si misero in discussione alcuni aspetti delle interpretazioni precedenti, ma nell’insieme senza rigettarli. C’è stato un ceto dirigente che ha imposto uno Stato unitario anti-cattolico, non rispettoso delle altre entità statali della penisola, diverse per storia, costumi e cultura. La questione meridionale nacque allora, così pure quella cattolica e quella federale. È un processo storico che merita di essere riconsiderato. Ma quali sono le cause reali della sconfitta del brigantaggio antisabaudo?: La grande emigrazione transoceanica, che ridusse la pressione sociale; le predicazioni socialista e cattolica, che incanalarono verso forme di protesta sociale lecite le rivendicazioni dei contadini poveri del Sud. Il brigantaggio uscì, così, dalla “storia” ed entrò definitivamente nel “mito”.

Leggendo l’approfondito saggio di Enzo Ciconte, ci si rende conto del fatto che, pur essendo passati poco più di centocinquant’anni dai fatti narrati, ancora oggi l’eco di quegli avvenimenti si ripresenta proponendoci i temi più volte dibattuti sulla cosiddetta “questione meridionale” e sulle divergenze tra il nord e il sud del nostro Paese. “La grande mattanza”, del 2018, in cui viene trattata con ricchezza di particolari la guerra al brigantaggio, nell’Italia dell’800. Guerra feroce, spietata, senza esclusione di colpi, soprattutto nel decennio 1860-1870 ad opere delle truppe piemontesi. Ciconte spiega che il termine “brigante” deriva dal francese “brigand”, ed ha un significato piuttosto ampio, da soldato di ventura a malvivente propriamente detto. Bande dedite al brigantaggio infestavano già l’Italia negli Stati papalini, in Sicilia, a Napoli, in Calabria; alla fine del ‘500 si usava impiccare i condannati, squartarli ed esporli come mònito; nel ‘600 e nel ‘700 si tagliavano le teste e si facevano girare ingabbiate per dissuadere i malintenzionati; sotto i francesi e Napoleone i calabresi erano definiti “gente cattiva” “abominevole” “sauvages” addirittura, ed è famosa la repressione del generale Manhès per le atrocità commesse, le torture e le inaudite crudeltà. Grande spazio viene dato nel saggio alla guerra dal 1860, anche perché il cosiddetto brigantaggio ha spesso l’appoggio dei contadini in miseria vessati dai grandi proprietari terrieri. I piemontesi, come si suol dire, non fanno prigionieri, le fucilazioni di massa sono all’ordine del giorno, non si contano i villaggi dati alle fiamme e rasi al suolo. Famosa, cita l’autore, la frase del Presidente del Consiglio Carlo Luigi Farini (1862) : ” … altro che Italia, questa è Affrica (sic), i beduini al riscontro con questi caffoni (sic) sono fior di virtù civiche”. Tanto per sottolineare qual era l’idea che allora aleggiava sul Sud e come la repressione feroce fosse quasi un dovere (famose le fucilazioni indiscriminate, al minimo sospetto, ordinate dal generale Fumel), senza attendere che il potere giuridico potesse impostare processi seri e giudicare caso per caso con giustizia. E finalmente nel 1869 cade l’ultima testa, quella del bandito Palma. Il brigantaggio sta per esaurirsi, tanto che il Presidente del Consiglio Lanza il 9 gennaio del 1970 dichiarava che il brigantaggio poteva considerarsi definitivamente sconfitto. I briganti non ricompariranno più sia, spiega Ciconte nell’epilogo del saggio, per la migrazione di lavoratori in terre lontane, sia per le predicazioni socialista e cattolica che educheranno le masse a lotte più civili e consapevoli.

I moderati liberali non avevano una conoscenza della vera realtà nel Mezzogiorno, però avevano capito che si stava profilando una controrivoluzione in cui i contadini occupavano una parte fondamentale. I moderati erano convinti che occorreva prima ristabilire l’ordine a Napoli e liquidare la “rivoluzione” garibaldina, poi fare i conti con i borbone. Senza dimenticare il fenomeno della Piemontesizzazione: applicazione in tutta la penisola della legislazione vigente nel Regno di Sardegna; al Sud vennero inviati molti funzionari del Nord.
Tra le nuove leggi piemontesi:
-libero scambio (permise l’ingresso nel paese di manufatti britannici a basso costo; nel Sud ciò provocò la rovina di moltissimi artigiani e la chiusura di tutti gli impianti industriali che il governo borbonico aveva attivato).
-coscrizione obbligatoria ( giovani si diedero alla macchia, dopo il 1861, per evitare l’odiato servizio militare).


Chi sono. banditi, criminali comuni, assassini, ladri, disperati, nobili decaduti, artigiani, contadini, giovani ribelli che non accettano il giogo attorno al collo, sia quando viene da un aristocratico del luogo sia quando arriva da un invasore straniero. La loro presenza causa incertezza nelle strade, difficoltà nelle comunicazioni, violenza diffusa. E tuttavia, quando c’è aria di mutamenti di regime essi rappresentano un’opportunità per i potenti che li utilizzano contro i propri nemici. Emerge un quadro complesso che vede al centro questioni sociali legate alla terra. La lotta del regno sabaudo contro il brigantaggio propriamente detto è quindi solo l’ultimo capitolo di una secolare storia di sanguinose repressioni, in cui i poteri statali che si sono via via avvicendati non sono stati in grado di trovare altra risposta che non fosse il sangue. Certo, è soprattutto in uno stato che si definisce liberale che colpisce la delega assoluta concessa ai militari che governano con leggi eccezionali, stati d’assedio e tribunali militari. Ma le truppe venute dal Nord sono state aiutate anche con le armi da tanti meridionali espressione di una borghesia in ascesa.

fonte

https://unpopolodistrutto.com

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