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LA GUERRA CIVILE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE 2^

Posted by on Lug 26, 2019

LA GUERRA CIVILE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE 2^

di p. Carlo Maria Curci S.J.
…………..La Civiltà Cattolica – Serie IV, vol. XI – 8 Agosto 1864

seconda parte

Quelle due contrade, nei tempi della meravigliosa ed unica grandezza spagnuola, portarono con non piccola impazienza la suggezione politica ai Re cattolici, la quale pure era condizione di mezzo mondo, e veniva lenita dal sentimento della giustizia, in cui quella suggezione si fondava, dalla qualificazione abbastanza splendida di Vicereami e dal mantenimento delle istituzioni napolitane e sicule, cui i due popoli vollero ed ottennero comunemente mantenute.

Nondimeno quella non parve condizione che potesse durare lungamente; e Carlo III dovette venire alla ristorazione del trono di Roberto e di Ruggiero, fondando o piuttosto rinnovando la Monarchia delle Due Sicilie in uno dei due minori suoi figliuoli.

Or si consideri, se popoli, ai quali non parea tollerabile la condizione di Vicereami a rispetto della Spagna nell’auge della sua grandezza, abbiamo potuto volere, a vero studio e ad occhi veggenti, diventare lontane province del piccolo Piemonte!

E chi vide mai farsi da senno società del ricco col povero, del grande col piccolo, e quasi vorremmo aggiungere del savio col farnetico, per modo che il grande, il ricco ed il savio si voglia mettere anima e corpo alla mercé del piccolo, del povero e del farnetico?

Ora niente meno di questo è uopo che s’ingoi chiunque vuol credere possibile che le Due Sicilie abbiano voluto annettersi o più veramente sommettersi, senza saper perché, al Piemonte.

Dirassi nondimeno che, ad onta di tutte coteste ripugnanze speculative, in pratica la cosa fu fatta; e per gli adoratori del successo e dei fatti compiuti non ci vuole altro, perché sia onestata l’annessione però solamente che si riuscì a compierla.

Ma trattandosi di un mutamento, il quale, in sentenza dei suoi medesimi autori, non potea avere altro titolo di legittimità che la volontà popolare, è cosa al tutto assurda e ridicola che, invece di argomenti che mostrino la realtà di quella volontà medesima, o che almeno confutino le ripugnanze morali che se ne ragionano apriori, si rechi il riuscimento, quasi fosse cosa impossibile ed inaudita che quella volontà sia tradita ed oppressa, e quasi l’essere riusciti a spogliare od uccidere altrui dimostri che quegli fu di sua piena volontà spogliato ed ucciso.

Ora se per gli altri Stati italiani i famosi plebisciti furono un ludibrio parte ridicolo, parte atroce, per le Due Sicilie neppure quelle apparenze vi furono; ed un bel giorno due splendide Metropoli e ventidue province popolosissime si trovarono diventate colonie e possedimenti del Re di Sardegna, il quale vi avea meno diritto che non ai Regni di Cipro e di Gerusalemme, dai quali pure s’intitola.

Le turpitudini, le nefandezze, le tradizioni, onde si venne a quel subito ed inopinato rivolgimento, ignorate da prima o sapute solo per metà da quei tanti milioni che n’erano state vittima, come furono loro rivelate nella schifosa nudità del vero, servirono a rendere più inviso un giogo imposto loro ad opera di tante nequizie ed al quale si trovarono sommessi prima ancora che potessero deliberare intorno alla convenienza di accettarlo.

Che altro dunque poteano aspettarsi se non la tirannide, da un dominio usurpato con mezzi tanto scellerati e turpi?
Fu cardine dell’immenso disastro la compra defezione di alquanti duci supremi, ai quali né la coscienza, né la patria carità, né la infamia, onde sarebbero stati coperti, non bastarono ad atterrirli dal mettere a prezzo il proprio onore, la giurata fede al proprio Principe e la dignità e la pace ed o gni bene civile del proprio paese.

A quei traditori vituperosi fu spesso da molti minacciato il severo giudizio della storia; ma, quella non è genìa che soglia curarsi gran fatto dei giudizii della storia. Che se allo stesso modo non si curano del giudizio di Dio, non è lontana l’ora che, a marcio loro dispetto, se ne dovranno curare; quando ad essi sarà chiesta ragione delle sventura, delle lagrime e del sangue di un popolo inconsapevole, per opera loro precipitato in tutti gli orrori della guerra civile e dell’anarchia.

Bastò la loro fellonia per rendere o dubbia od infruttuosa la lealtà e la valentia di un esercito che da sbandato sta mostrando quello che avria potuto fare guidato da capi meno imbecilli o meno iniqui; e, mancata così ogni forza materiale al giovane e nuovo Monarca, gli uomini, onde la fazione avealo circuito, o non seppero o non vollero valersi dei presidii morali, che pure si poteano trovare amplissimi e poderosi nell’affezione e nella fedeltà di popoli, che ad un cenno avrebbero saputo troncare il corso alla invasione straniera più agevolmente assai che ora non riescono a disfarla.

Abbandonata la Capitale innanzi ad un nemico che non si era ancora mostrato, acciocché le province si dicessero acquistate al Piemonte, non si volle altro che cangiare la bandiera, sostituire un nome ad un altro nella intitolazione dei pubblici atti, ed insediare nei seggi precipui della pubblica amministrazione uomini o venduti al Piemonte o piemontesi: nell’uno o nell’altro caso cospiratori di professione.

Ora una dedizione di dieci milioni di umane creature, manipolata in un paio di giorni da un pugno di traditori nella metropoli, e la quale per tanti capi ripugnava agl’interessi ed alle inclinazioni di quelle contrade, come era mai possibile vederla accettata da quei milioni stessi, i quali si trovarono ceduti ad un padrone straniero con maggiore avventatezza e non curanza, che se si fosse trattato di uno stupido armento che acquista con solo averne sborsato il prezzo?

Era dunque da aspettarsi che, dileguatosi il passaggero sgomento della sorpresa e ravvisate le cose pel loro verso, quelle popolazioni altiere e rubeste ripugnassero fieramente ad una dominazione, a cui la ribaldaglia fangosa e le codarde assentazioni della metropoli avevano fatto vista di plaudire od inchinarsi, secondo che plausi od inchini s’imponevano colle minacce o si comperavano colla pecunia.

Tuttavolta potria pensarsi che la ripugnanza delle province al dominio usurpato avrebbe indugiato a scoppiare in aperta violenza o saria scoppiata meno furiosa, quando il Piemonte avesse saputo o potuto usare un briciolo di quella temperanza e discrezione, delle quali esso nella sua minore fortuna si volle far maestro agli altri Stati italiani.

Tant’è! I veri popoli sono più pazienti di quello che comunemente non credesi; e perché la gente tranquilla e morigerata e cristiana della campagna, lontana dalle corruzioni delle grandi città, dia di piglio alle armi e si levi in fascio ad una riscossa ancora feroce, pugnando con quella ostinata risolutezza, onde si pugna pro arisetfocis, è uopo che siano messi addirittura colle spalle al muro; ed il Piemonte può rallegrarsi di averlivi messi.

In altri termini vogliamo dire che, se esso non avesse urtato bruscamente tutte le più delicate suscettività dei popoli delle Due Sicilíe; se non ne avesse manomessi, nel brieve giro di pochi mesi, tutti i più vitali interessi; se non ne avesse insultate le credenze e vilipesi i costumi forse quei popoli si sarebbero rassegnati al giogo aborrito, e non sarebbero entrati nel proposito di rivendicarsi il diritto di essere governati solo da colui che la Provvidenza avea loro dato per governarli, e dal quale non ricordavano avere avuto altro che pace profonda e prosperità d’ogni maniera.

In quella vece il mutamento dei Gigli borbonici nella Croce sabauda significò, per quelle infelici popolazioni, lo sperpero della pubblica fortuna, essendo in pochi mesi scomparsi dall’erario non meno di 38 milioni di ducati che v’erano in serbo, colla giunta di un debito così smisurato che appena si arriva a calcolarlo; significò la ruina dei privati interessi per la sicurezza perduta, pei commerci o distratti o arrestati, per le industrie inaridite, pei balzelli stranamente cresciuti colla dolorosissima conseguenza di un incarimento strabocchevole dell’annona; il quale nel paese dell’abbondanza riusciva tanto più intollerabile al minuto popoletto, quanto che all’ora stessa gli si assottigliavano i mezzi di campare la vita; significò la perdita di ogni ordine cittadino, di ogni tutela delle proprietà e delle persone, che pur sono i beni più elementari e quasi primordiali del vivere civile: sicché nella sola Napoli in una sola notte fur trovati per le contrade non meno di quattordici uccisi, senza che se ne potesse sapere il come e da cui; significò il trovarsi la capitale e le province abbandonate alla mercé di uomini oscuri, nuovi, la più parte stranieri, che erano scaraventati da Torino a governare paesi che appena avevano visti sulla carta geografica, senza alcuna cognizione degli uomini e delle abitudini, ed i quali a quei posti erano scelti a merito di antichi servigi fatti alla fazione; significò il rovesciamento delle leggi, delle consuetudini, delle usanze anche antichissime, in quanto tutto dovea foggiarsi da capo sul tipo portato dal piè delle Alpi dai conquistatori, i quali, come in mezzo a Beozia od a nazione d’Iloti facean man bassa su quanto suol essere ai popoli più caramente diletto.

E perciocchè a quelle contrade, profondamente cattoliche, sopra qualunque altra cosa è cara la Religione con tutto ciò che le si attiene di persone sacre o di sacri istituti, più di tutto dovette riuscir loro cocente la persecuzione religiosa, alla quale il mutamento del Giglio borbonico nella Croce sabauda fu segnale.

E chi basterebbe a trarre il novero delle sacrileghe ruberie, degli sbandamenti di Religiosi e di Suore, degli esilii, delle prigionie, e perfino delle uccisioni di Ecclesiastici d’ogni ordine e d’ogni grado eziandio supremo?

Ora un cumulo di tante e tanto gravi calamità, scoppiate improvvisamente addosso a popoli, che non ha guari riposavano nel seno delle pace, ciascuno accanto alla sua vite ed all’ombra del proprio fico, secondo la frase biblica, un tal cumulo, diciamo, sariaparuto insopportabile, quand’anche fosse venuto da Governo indigeno, antico ed avente radici ferme e molto intime in quei paesi.

Si consideri quindi che dovrà essere, quando quelle calamità stesse si guardano come portate di fuori da gente straniera, sconosciuta e la quale essi cominciarono a conoscere la prima volta dalla boria del comando, dalla ferocia dell’opprimere, dall’avidità insaziabile del predare e dallo spregio di quanto tra genti cristiane e civili più si riverisce e si onora.

Questi sono i veri, i precipui motivi delle così dette Reazioni che infieriscono in Napoli e nella Sicilia; e gli eccitamenti che se ne pretendono ordinati e mossi da non sappiamo che comitati stabiliti in Roma, in Venezia ed altrove, sono invenzioni e menzogne che non hanno neppur l’ombra del verosimile.

Certo le affezioni dinastiche, la tenacità degli antichi ordini e le speranze d’ogni gran bene concepite in un Principe, al quale poco tempo era bastato per farle di sé concepire grandissime, entrano per non poco in quel terribile commovimento, che ora agita i popoli dal Tronto fino all’estremo lembo meridionale della Trinacria.

Ma già fu detto che essi forse si sarebbero rassegnati al giogo degli usurpatori, se la costoro o insipienza o nequizia non gli avesse sospinti alla disperazione colla realtà di quel mal governo, di cui essi attribuirono al Pontefice Romano ed al Re di Napoli la calunnia.

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