LA GUERRA CIVILE NEL REGNO DELLE DUE SICILIE
di p. Carlo Maria Curci S.J.
…………..La Civiltà Cattolica – Serie IV, vol. XI – 8 Agosto 1864
La guerra civile, che ingerisce vasta ed ostinata nel Regno delle Due Sicilie, può fornire un argomento, se altro ne fu mai, palpabile e convincentissimo, che la superstiziosa riverenza alla volontà popolare, onde alcuni Potentati tolsero pretesto d’intromettersi nelle faccende di altri, non è in sustanza che una pura e pretta ipocrisia, foggiata a strumento di ambizioni smisurate e di tirannide faziosa.
Deh! Quanti consigli ufficiali! Quante insistenza ufficiose, a fine che quella pretesa volontà popolare in questo o quello Stato italiano fosse satisfatta! Sono appena pochi giorni, e vedemmo il Ministro d’una grande Potenza mettere a condizione del Potere temporale del Papa il satisfacimento di quella stessa volontà del popolo, ricantando l’eterno ritornello delle Riforme da largirsi a sudditi, i quali o non ne sanno, o non se ne curano od eziandio di tutta la loro volontà le detestano.
Tanto rileva ai burbanzosi paladini delle nobili idee che a nessun popolo si rechi violenza, che tutti camminino in quella via di progressi umanitarii, sulla quale essi si credono avere avanzato qualsiasi altro!
Ed intanto otto o nove milioni di creature umane sono lasciati straziare, assassinare, stritolare da armi straniere, però solamente che non vogliono accettarne l’inviso giogo, né rassegnarsi a vedersi orbati di quella patria dignità e di quella indipendenza di Stato autonomo, in cui la Provvidenza gli ha costituiti e da secoli li mantiene.
Quello che i Piemontesi stanno facendo in opera di forsennata ferocia e di eccidii truculenti vince di molto ciò che fingesi aver mai fatto o i Russi in Polonia o gli Austriaci in Lombardia, e non si divaria gran fatto da ciò che i Turchi fecero nella Grecia, quando l’intera Europa s’impietosì sopra le sventura di questa.
Ma delle sventure napolitane e delle sicule chi è che si curi? La fazione piemontese ha maggiori titoli alla tolleranza europea, che non ebbero i Sultani di Costantinopoli, quantunque non ne siano meno nefande le opere.
Alle popolazioni manomesse da una guerra di esterminio, si sta dicendo tacitamente che si aiutino da sé; e quando pure aiuto straniero, fisico o morale, vi dovesse intervenire, è indubitato che per ora quell’aiuto non agli oppressi sarebbe porto, ma agli oppressori: testimonio la ricognizione del nuovo Regno, la quale solo ai secondi potea profittare, a detrimento dei primi.
Intanto quelle popolazioni stanno mostrando al mondo che sanno aiutarsi da sé più assai efficacemente, che il bellicoso Piemonte non si pensava; e le intere legioni distrutte, ed i battaglioni disciolti, perché ricusatisi ad una lotta troppo inuguale, e i loro duci anche tra i più alti, per la stessa ragione, sommessi a consigli di guerra e puniti, e le borgate e le città e gl’interi Distretti e quasi le intere province fuggite di mano al conquistatore, che vi lasciava morti in gran numero e feriti e la propria
memoria maledetta ed esecrata; tutti cotesti fatti dicono troppo chiaro in loro favella quanto sia naturale e desiderata questa unità italiana, inaugurata e mantenuta da tanto fratellevoli tenerezze.
Queste scene di eccidii, di bruciamenti e di distruzione, che ricordano le desolata ed insanguinata Vandea, appena possono leggersi, senza sentirsi stretto il cuore da profonda pietà, e senza che l’animo atterrito chiegga a se stesso qual nome meriti una setta scellerata che, a nome della fratellanza nazionale, sguinzaglia ed aizza una parte della nazione a sterminio dell’altra, perché il sangue dei manigoldi e delle vittime sia titolo e strumento del suo dominio.
Non può prevedersi qual sarà l’esito di questa lotta disperata; ma se il Regno e la Sicilia non saranno in questo primo commovimento il sepolcro dei trionfi piemontesi, saranno a quella fazione prevalente tale spina ai fianchi, che presto la farà pentire di avere spinto tant’oltre le folli sue ambizioni, facendo così grosso boccone, che di necessità le si doveva attraversare nella strozza.
Intanto alcune considerazioni, intorno ad un fatto sì grave e sì fecondo, saranno utilissime a sempre meglio conoscere gli uomini ed i principio che più influirono nei presenti scompigli della misera Italia; soprattutto ad intendere che valga nel gergo moderno la protezione e la tutela della volontà popolare.
Con sotto agli occhi il già sì fiorente Regno di Napoli, messo a sangue ed a fuoco dal Piemonte, solo perché non vuol divenire provincia piemontese, le parole di qualche Ministro britannico o di qualche diplomatico di altra Potenza, a favore delle volontà popolari dei Ducati, esempligrazia, o delle Romagne, dovranno oggimai accogliersi col sorriso incredulo, onde ascolterebbesi l’avaro persuadere l’elemosina.
E prima di tutto quanta melensaggine ci volle per credere, quanta ipocrisia per mostrare di credere, che cinque Stati indipendenti ed autonomi volessero orbarsi da loro medesimi della propria indipendenza ed autonomia, affine di diventare province di un altro, che non vi avea altro titolo salvo la smisurata ambizione del volerlo e l’astuzia più che volpina del procurarlo?
Che popoli aspirino a stare e far da sé, staccandosi da grandi corpi politici di cui sono parte, è cosa non rara, e se ne ha innanzi l’esempio nei conati rivoltosi dell’Ungheria, e nella risoluzione che gli Stati meriggiani della Confederazione americana stan mantenendo colle armi, di separarsi dai boreali.
Ma che uno Stato indipendente con proprio Principe, con propria dinastia regnante, con proprie leggi ed istituzioni e consuetudini, e pel caso degli Stati italiani possiamo aggiungere con propria storia anche splendida, voglia rinunziare a tutto questo per
diventare parte più o meno cospicua, ma parte sempre di un tutto non ancora costituito, è cosa tanto ripugnante alle umane propensioni che per poco non dovria dirsi moralmente impossibile.
Certo noi non sappiamo se un tal fatto abbia riscontro di esempio nella storia: ma è indubitato che per gli Stati italiani non fu, non potè essere; e, per vane ragioni, meno di qualunque altro ciò era possibile pel Regno delle Due Sicilie.
Il concetto unitario, essendo di fresca data tra noi, siccome quello che, a confessione dei suoi più caldi propugnatori, germinò appena sugl’inizi del corrente secolo in alcuni cervelli patriottici, non ebbe tempo, non che di far presa nelle moltitudini, neppure di entrare nelle loro menti.
Gran cosa fu se, vagheggiato da qualche politico o statuale speculativo, potè quel concetto essere messo a partito nelle discussioni private o nei libri; ed in quelle ed in questi i più savii ed i più famosi rigettarono senza più quell’idea, come innaturale ed impossibile, quand’anche non vi fossero stati altri motivi da rendesse eziandio iniqua e violenta l’attuazione.
Dall’altra parte il decoro ed i vantaggi del fare Stato da sé essendo pratici, vicini, sperimentati, e quelli che si promettono dalla grande unità non si mostrando che lontani, incerti ed accessibili solo a certe menti comprese dalla grandezza nazionale un poco all’inglese, un poco alla pagana (che forse è tutt’uno); è indubitato che per le moltitudini non potea avere alcuna attrattiva questa seconda maniera di essere Politico, laddove quella prima ne avea moltissime e prepotenti.
Che se oltre a ciò si consideri come l’aspirazione alla unità italiana si è cangiata nel fatto in conquista piemontese, s’intenderà agevolmente stranissima e ripugnante ipotesi che è quella, per la quale si è voluto supporre che la Toscana, gli Stati della Chiesa, i due Ducati e le stesse Due Sicilie volessero cessare di essere Stati, per ottenere l’insigne privilegio di essere conquistate colle armi dal Piemonte, e poscia di essere governate da esso con quel dispotismo e con quel disprezzo, onde l’Austria non sognò mai di governare il Lombardo Veneto.
La quale impossibilità morale di quel voto, attribuito gratuitamente agli Stati italiani, era a cento tanti più manifesta pel Regno delle Due Sicilie, dove appena sariasi trovato qualche rarissimo che sommessamente osasse mormorare quella proposta, la quale all’universale delle popolazioni sarebbe paruta oltraggiosa e poco meno che proposta di suicidio. Il volersi sommettere ad altrui od anche solo incorporarsi come parte di un tutto, è agli uomini individui non meno che agli Stati tanto più ripugnante, quanto quelli e questi sono più grandi, più sufficienti a sé stessi in tutto che si attiene alla vita privata, alla civile ed alla politica.
Ora un Regno di presso a dieci milioni di anime, forse la prima tra le minori Potenze, e per feracità di suoli, per frequenza di commerci, per isvegliatezza d’ingegno privilegiato quanto forse nessun altro paese di questo mondo, con esercito forte, con navilio fornitissimo, colle private fortune in fiore, con erario non pur senza debiti, ma ricco di parecchi milioni di sopravanzo, con fondi pubblicai più accreditati, e però i più cerchi tra quanti ne fossero in Europa, con istituzioni governative e con leggi che fonnarono l’ammirazione di quanti le vollero studiare, con propria e splendida dinastia regnante, con un giovane Re, fiore di virtù e di religione, frescamente montato sul trono dei padri suoi, ed alla cui bella riputazione la calunnia non avea avuto il tempo di avventare il velenoso suo dente; una tale Monarchia solo i pazzi avrebbero potuto pensare che sariasi voluta distruggere da sé, per darsi, senza patti o condizione di sorta, al piccolo Piemonte, che ne avrebbe fatto ciò che meglio gli sarebbe stato in grado.
Ed il Piemonte volle farne una provincia, niente altro che una piccoletta sua provincia di dieci milioni di sudditi, o piuttosto un gruppo di ventidue province, senza che Napoli o Palermo potessero presumere di valere alcuna cosa di più che Campobasso, Potenza o Caltanissetta.