Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

La guerra civile nel Regno delle Due Sicilie

Posted by on Mag 14, 2017

La guerra civile nel Regno delle Due Sicilie

La guerra civile, che infierisce vasta ed ostinata nel Regno delle Due Sicilie, può fornire un argomento, se altro ne fu mai, palpabile e convincentissimo, che la superstiziosa riverenza alla volontà popolare, onde alcuni Potentati tolsero pretesto d’intromettersi nelle faccende di altri, non è in sustanza che una pura e pretta ipocrisia, foggiata a strumento di ambizioni smisurate e di tirannide faziosa. Deh! Quanti consigli ufficiali! Quante insistenza ufficiose, a fine che quella pretesa volontà popolare in questo o quello Stato italiano fosse satisfatta!

Sono appena pochi giorni, e vedemmo il Ministro d’una grande Potenza mettere a condizione del Potere temporale del Papa il satisfacimento di quella stessa volontà del popolo, ricantando l’eterno ritornello delle Riforme da largirsi a sudditi, i quali o non ne sanno, o non se ne curano od eziandio di tutta la loro volontà le detestano. Tanto rileva ai burbanzosi paladini delle nobili idee che a nessun popolo si rechi violenza, che tutti camminino in quella via di progressi umanitarii, sulla quale essi si credono avere avanzato qualsiasi altro!

Ed intanto otto o nove milioni di creature umane sono lasciati straziare, assassinare, stritolare da armi straniere, però solamente che non vogliono accettarne l’inviso giogo, né rassegnarsi a vedersi orbati di quella patria dignità e di quella indipendenza di Stato autonomo, in cui la Provvidenza gli ha costituiti e da secoli li mantiene.

Quello che i Piemontesi stanno facendo in opera di forsennata ferocia e di eccidii truculenti vince di molto ciò che fingesi aver mai fatto o i Russi in Polonia o gli Austriaci in Lombardia, e non si divaria gran fatto da ciò che i Turchi fecero nella Grecia, quando l’intera Europa s’impietosì sopra le sventura di questa. Ma delle sventure napolitane e delle sicule chi è che si curi? La fazione piemontese ha maggiori titoli alla tolleranza europea, che non ebbero i Sultani di Costantinopoli, quantunque non ne siano meno nefande le opere. Alle popolazioni manomesse da una guerra di esterminio, si sta dicendo tacitamente che si aiutino da sé; e quando pure aiuto straniero, fisico o morale, vi dovesse intervenire, è indubitato che per ora quell’aiuto non agli oppressi sarebbe porto, ma agli oppressori: testimonio la ricognizione del nuovo Regno, la quale solo ai secondi potea profittare, a detrimento dei primi.

Intanto quelle popolazioni stanno mostrando al mondo che sanno aiutarsi da sé più assai efficacemente, che il bellicoso Piemonte non si pensava; e le intere legioni distrutte, ed i battaglioni disciolti, perché ricusatisi ad una lotta troppo inuguale, e i loro duci anche tra i più alti, per la stessa ragione, sommessi a consigli di guerra e puniti, e le borgate e le città e gl’interi Distretti e quasi le intere province fuggite di mano al conquistatore, che vi lasciava morti in gran numero e feriti e la propria memoria maledetta ed esecrata; tutti cotesti fatti dicono troppo chiaro in loro favella quanto sia naturale e desiderata questa unità italiana, inaugurata e mantenuta da tanto fratellevoli tenerezze. Queste scene di eccidii, di bruciamenti e di distruzione, che ricordano le desolata ed insanguinata Vandea, appena possono leggersi, senza sentirsi stretto il cuore da profonda pietà, e senza che l’animo atterrito chiegga a se stesso qual nome meriti una setta scellerata che, a nome della fratellanza nazionale, sguinzaglia ed aizza una parte della nazione a sterminio dell’altra, perché il sangue dei manigoldi e delle vittime sia titolo e strumento del suo dominio.

Non può prevedersi qual sarà l’esito di questa lotta disperata; ma se il Regno e la Sicilia non saranno in questo primo commovimento il sepolcro dei trionfi piemontesi, saranno a quella fazione prevalente tale spina ai fianchi, che presto la farà pentire di avere spinto tant’oltre le folli sue ambizioni, facendo così grosso boccone, che di necessità le si doveva attraversare nella strozza. Intanto alcune considerazioni, intorno ad un fatto sì grave e sì fecondo, saranno utilissime a sempre meglio conoscere gli uomini ed i principio che più influirono nei presenti scompigli della misera Italia; soprattutto ad intendere che valga nel gergo moderno la protezione e la tutela della volontà popolare. Con sotto agli occhi il già sì fiorente Regno di Napoli, messo a sangue ed a fuoco dal Piemonte, solo perché non vuol divenire provincia piemontese, le parole di qualche Ministro britannico o di qualche diplomatico di altra Potenza, a favore delle volontà popolari dei Ducati, esempligrazia, o delle Romagne, dovranno oggimai accogliersi col sorriso incredulo, onde ascolterebbesi l’avaro persuadere l’elemosina.

E prima di tutto quanta melensaggine ci volle per credere, quanta ipocrisia per mostrare di credere, che cinque Stati indipendenti ed autonomi volessero orbarsi da loro medesimi della propria indipendenza ed autonomia, affine di diventare province di un altro, che non vi avea altro titolo salvo la smisurata ambizione del volerlo e l’astuzia più che volpina del procurarlo? Che popoli aspirino a stare e far da sé, staccandosi da grandi corpi politici di cui sono parte, è cosa non rara, e se ne ha innanzi l’esempio nei conati rivoltosi dell’Ungheria, e nella risoluzione che gli Stati meriggiani della Confederazione americana stan mantenendo colle armi, di separarsi dai boreali. Ma che uno Stato indipendente con proprio Principe, con propria dinastia regnante, con proprie leggi ed istituzioni e consuetudini, e pel caso degli Stati italiani possiamo aggiungere con propria storia anche splendida, voglia rinunziare a tutto questo per diventare parte più o meno cospicua, ma parte sempre di un tutto non ancora costituito, è cosa tanto ripugnante alle umane propensioni che per poco non dovria dirsi moralmente impossibile. Certo noi non sappiamo se un tal fatto abbia riscontro di esempio nella storia: ma è indubitato che per gli Stati italiani non fu, non poté essere; e, per vane ragioni, meno di qualunque altro ciò era possibile pel Regno delle Due Sicilie.

Il concetto unitario, essendo di fresca data tra noi, siccome quello che, a confessione dei suoi più caldi propugnatori, germinò appena sugl’inizi del corrente secolo in alcuni cervelli patriottici, non ebbe tempo, non che di far presa nelle moltitudini, neppure di entrare nelle loro menti. Gran cosa fu se, vagheggiato da qualche politico o statuale speculativo, potè quel concetto essere messo a partito nelle discussioni private o nei libri; ed in quelle ed in questi i più savii ed i più famosi rigettarono senza più quell’idea, come innaturale ed impossibile, quand’anche non vi fossero stati altri motivi da rendesse eziandio iniqua e violenta l’attuazione. Dall’altra parte il decoro ed i vantaggi del fare Stato da sé essendo pratici, vicinisperimentati, e quelli che si promettono dalla grande unità non si mostrando che lontani, incerti ed accessibili solo a certe menti comprese dalla grandezza nazionale un poco all’inglese, un poco alla pagana (che forse è tutt’uno); è indubitato che per le moltitudini non potea avere alcuna attrattiva questa seconda maniera di essere Politico, laddove quella prima ne avea moltissime e prepotenti. Che se oltre a ciò si consideri come l’aspirazione alla unità italiana si è cangiata nel fatto in conquista piemontese, s’intenderà agevolmente stranissima e ripugnante ipotesi che è quella, per la quale si è voluto supporre che la Toscana, gli Stati della Chiesa, i due Ducati e le stesse Due Sicilie volessero cessare di essere Stati, per ottenere l’insigne privilegio di essere conquistate colle armi dal Piemonte, e poscia di essere governate da esso con quel dispotismo e con quel disprezzo, onde l’Austria non sognò mai di governare il Lombardo Veneto.

La quale impossibilità morale di quel voto, attribuito gratuitamente agli Stati italiani, era a cento tanti più manifesta pel Regno delle Due Sicilie, dove appena sariasi trovato qualche rarissimo che sommessamente osasse mormorare quella proposta, la quale all’universale delle popolazioni sarebbe paruta oltraggiosa e poco meno che proposta di suicidio. Il volersi sommettere ad altrui od anche solo incorporarsi come parte di un tutto, è agli uomini individui non meno che agli Stati tanto più ripugnante, quanto quelli e questi sono più grandi, più sufficienti a sé stessi in tutto che si attiene alla vita privata, alla civile ed alla politica. Ora un Regno di presso a dieci milioni di anime, forse la prima tra le minori Potenze, e per feracità di suoli, per frequenza di commerci, per isvegliatezza d’ingegno privilegiato quanto forse nessun altro paese di questo mondo, con esercito forte, con navilio fornitissimo, colle private fortune in fiore, con erario non pur senza debiti, ma ricco di parecchi milioni di sopravanzo, con fondi pubblicai più accreditati, e però i più cerchi tra quanti ne fossero in Europa, con istituzioni governative e con leggi che fonnarono l’ammirazione di quanti le vollero studiare, con propria e splendida dinastia regnante, con un giovane Re, fiore di virtù e di religione, frescamente montato sul trono dei padri suoi, ed alla cui bella riputazione la calunnia non avea avuto il tempo di avventare il velenoso suo dente; una tale Monarchia solo i pazzi avrebbero potuto pensare che sariasi voluta distruggere da sé, per darsi, senza patti o condizione di sorta, al piccolo Piemonte, che ne avrebbe fatto ciò che meglio gli sarebbe stato in grado.

Ed il Piemonte volle farne una provincia, niente altro che una piccoletta sua provincia di dieci milioni di sudditi, o piuttosto un gruppo di ventidue province, senza che Napoli o Palermo potessero presumere di valere alcuna cosa di più che Campobasso, Potenza o Caltanissetta. Quelle due contrade, nei tempi della meravigliosa ed unica grandezza spagnuola, portarono con non piccola impazienza la suggezione politica ai Re cattolici, la quale pure era condizione di mezzo mondo, e veniva lenita dal sentimento della giustizia, in cui quella suggezione si fondava, dalla qualificazione abbastanza splendida di Vicereami e dal mantenimento delle istituzioni napolitane e sicule, cui i due popoli vollero ed ottennero comunemente mantenute. Nondimeno quella non parve condizione che potesse durare lungamente; e Carlo III dovette venire alla ristorazione del trono di Roberto e di Ruggiero, fondando o piuttosto rinnovando la Monarchia delle Due Sicilie in uno dei due minori suoi figliuoli. Or si consideri, se popoli, ai quali non parea tollerabile la condizione di Vicereami a rispetto della Spagna nell’auge della sua grandezza, abbiamo potuto volere, a vero studio e ad occhi veggenti, diventare lontane province del piccolo Piemonte! E chi vide mai farsi da senno società del ricco col povero, del grande col piccolo, e quasi vorremmo aggiungere del savio col farnetico, per modo che il grande, il ricco ed il savio si voglia mettere anima e corpo alla mercè del piccolo, del povero e del farnetico? Ora niente meno di questo è uopo che s’ingoi chiunque vuol credere possibile che le Due Sicilie abbiano voluto annettersi o più veramente sommettersi, senza saper perché, al Piemonte.

Dirassi nondimeno che, ad onta di tutte coteste ripugnanze speculative, in pratica la cosa fu fatta; e per gli adoratori del successo e dei fatti compiuti non ci vuole altro, perché sia onestata l’annessione però solamente che si riuscì a compierla. Ma trattandosi di un mutamento, il quale, in sentenza dei suoi medesimi autori, non potea avere altro titolo di legittimità che la volontà popolare, è cosa al tutto assurda e ridicola che, in vece di argomenti che mostrino la realtà di quella volontà medesima, o che almeno confutino le ripugnanze morali che se ne ragionano apriori, si rechi il riuscimento, quasi fosse cosa impossibile ed inaudita che quella volontà sia tradita ed oppressa, e quasi l’essere riusciti a spogliare od uccidere altrui dimostri che quegli fu di sua piena volontà spogliato ed ucciso. Ora se per gli altri Stati italiani i famosi plebisciti furono un ludibrio parte ridicolo, parte atroce, per le Due Sicilie neppure quelle apparenze vi furono; ed un bel giorno due splendide Metropoli e ventidue province popolosissime si trovarono diventate colonie e possedimenti del Re di Sardegna, il quale vi avea meno diritto che non ai Regni di Cipro e di Gerusalemme, dai quali pure s’intitola. Le turpitudini, le nefandezze, le tradizioni, onde si venne a quel subito ed inopinato rivolgimento, ignorate da prima o sapute solo per metà da quei tanti milioni che n’erano state vittima, come furono loro rivelate nella schifosa nudità del vero, servirono a rendere più inviso un giogo imposto loro ad opera di tante nequizie ed al quale si trovarono sommessi prima ancora che potessero deliberare intorno alla convenienza di accettarlo. Che altro dunque poteano aspettarsi se non la tirannide, da un dominio usurpato con mezzi tanto scellerati e turpi?

Fu cardine dell’immenso disastro la compra defezione di alquanti duci supremi, ai quali né la coscienza, né la patria carità, né la infamia, onde sarebbero stati coperti, non bastarono ad atterrirli dal mettere a prezzo il proprio onore, la giurata fede al proprio Principe e la dignità e la pace ed o gni bene civile del proprio paese. A quei traditori vituperosi fu spesso da molti minacciato il severo giudizio della storia; ma, quella non è genìa che soglia curarsi gran fatto dei giudizii della storia. Che se allo stesso modo non si curano del giudizio di Dio, non è lontana l’ora che, a marcio loro dispetto, se ne dovranno curare; quando ad essi sarà chiesta ragione delle sventura, delle lagrime e del sangue di un popolo inconsapevole, per opera loro precipitato in tutti gli orrori della guerra civile e dell’anarchia.

Bastò la loro fellonia per rendere o dubbia od infruttuosa la lealtà e la valentia di un esercito che da sbandato sta mostrando quello che avria potuto fare guidato da capi meno imbecilli o meno iniqui; e, mancata così ogni forza materiale al giovane e nuovo Monarca, gli uomini, onde la fazione avealo circuito, o non seppero o non vollero valersi dei presidii morali, che pure si poteano trovare amplissimi e poderosi nell’affezione e nella fedeltà di popoli, che ad un cenno avrebbero saputo troncare il corso alla invasione straniera più agevolmente assai che ora non riescono a disfarla. Abbandonata la Capitale innanzi ad un nemico che non si era ancora mostrato, acciocché le province si dicessero acquistate al Piemonte, non si volle altro che cangiare la bandiera, sostituire un nome ad un altro nella intitolazione dei pubblici atti, ed insediare nei seggi precipui della pubblica amministrazione uomini o venduti al Piemonte o piemontesi: nell’uno o nell’altro caso cospiratori di professione.

Ora una dedizione di dieci milioni di umane creature, manipolata in un paio di giorni da un pugno di traditori nella metropoli, e la quale per tanti capi ripugnava agl’interessi ed alle inclinazioni di quelle contrade, come era mai possibile vederla accettata da quei milioni stessi, i quali si trovarono ceduti ad un padrone straniero con maggiore avventatezza e non curanza, che se si fosse trattato di uno stupido armento che acquista con solo averne sborsato il prezzo? Era dunque da aspettarsi che, dileguatosi il passaggero sgomento della sorpresa e ravvisate le cose pel loro verso, quelle popolazioni altiere e rubeste ripugnassero fieramente ad una dominazione, a cui la ribaldaglia fangosa e le codarde assentazioni della metropoli avevano fatto vista di plaudire od inchinarsi, secondo che plausi od inchini s’imponevano colle minacce o si comperavano colla pecunia.

Tuttavolta potria pensarsi che la ripugnanza delle province al dominio usurpato avrebbe indugiato a scoppiare in aperta violenza o saria scoppiata meno furiosa, quando il Piemonte avesse saputo o potuto usare un briciolo di quella temperanza e discrezione, delle quali esso nella sua minore fortuna si volle far maestro agli altri Stati italiani. Tant’è! I veri popoli sono più pazienti di quello che comunemente non credesi; e perché la gente tranquilla e morigerata e cristiana della campagna, lontana dalle corruzioni delle grandi città, dia di piglio alle armi e si levi in fascio ad una riscossa ancora feroce, pugnando con quella ostinata risolutezza, onde si pugna pro aris etfocis, è uopo che siano messi addirittura colle spalle al muro; ed il Piemonte può rallegrarsi di averlivi messi. In altri termini vogliamo dire che, se esso non avesse urtato bruscamente tutte le più delicate suscettività dei popoli delle Due Sicilie; se non ne avesse manomessi, nel brieve giro di pochi mesi, tutti i più vitali interessi; se non ne avesse insultate le credenze e vilipesi i costumi forse quei popoli si sarebbero rassegnati al giogo aborrito, e non sarebbero entrati nel proposito di rivendicarsi il diritto di essere governati solo da colui che la Provvidenza avea loro dato per governarli, e dal quale non ricordavano avere avuto altro che pace profonda e prosperità d’ogni maniera.

In quella vece il mutamento dei Gigli borbonici nella Croce sabauda significò, per quelle infelici popolazioni, lo sperpero della pubblica fortuna, essendo in pochi mesi scomparsi dall’erario non meno di 38 milioni di ducati che v’erano in serbo, colla giunta di un debito così smisurato che appena si arriva a calcolarlo; significò la ruina dei privati interessi per la sicurezza perduta, pei commerci o distratti o arrestati, per le industrie inaridite, pei balzelli stranamente cresciuti colla dolorosissima conseguenza di un incarimento strabocchevole dell’annona; il quale nel paese dell’abbondanza riusciva tanto più intollerabile al minuto popoletto, quanto che all’ora stessa gli si assottigliavano i mezzi di campare la vita; significò la perdita di ogni ordine cittadino, di ogni tutela delle proprietà e delle persone, che pur sono i beni più elementari e quasi primordiali del vivere civile: sicché nella sola Napoli in una sola notte fur trovati per le contrade non meno di quattordici uccisi, senza che se ne potesse sapere il come e da cui; significò il trovarsi la capitale e le province abbandonate alla mercé di uomini oscuri, nuovi, la più parte stranieri, che erano scaraventati da Torino a governare paesi che appena avevano visti sulla carta geografica, senza alcuna cognizione degli uomini e delle abitudini, ed i quali a quei posti erano scelti a merito di antichi servigi fatti alla fazione; significò il rovesciamento delle leggi, delle consuetudini, delle usanze anche antichissime, in quanto tutto dovea foggiarsi da capo sul tipo portato dal piè delle Alpi dai conquistatori, i quali, come in mezzo a Beozia od a nazione d’Iloti facean man bassa su quanto suol essere ai popoli più caramente diletto. E perciocchè a quelle contrade, profondamente cattoliche, sopra qualunque altra cosa è cara la Religione con tutto ciò che le si attiene di persone sacre o di sacri istituti, più di tutto dovette riuscir loro cocente la persecuzione religiosa, alla quale il mutamento del Giglio borbonico nella Croce sabauda fu segnale. E chi basterebbe a trarre il novero delle sacrileghe ruberie, degli sbandamenti di Religiosi e di Suore, degli esilii, delle prigionie, e perfino delle uccisioni di Ecclesiastici d’ogni ordine e d’ogni grado eziandio supremo?

Ora un cumulo di tante e tanto gravi calamità, scoppiate improvvisamente addosso a popoli, che non ha guari riposavano nel seno delle pace, ciascuno accanto alla sua vite ed all’ombra del proprio fico, secondo la frase biblica, un tal cumulo, diciamo, saria paruto insopportabile, quand’anche fosse venuto da Governo indigeno, antico ed avente radici ferme e molto intime in quei paesi. Si consideri quindi che dovrà essere, quando quelle calamità stesse si guardano come portate di fuori da gente straniera, sconosciuta e la quale essi cominciarono a conoscere la prima volta dalla boria del comando, dalla ferocia dell’opprimere, dall’avidità insaziabile del predare e dallo spregio di quanto tra genti cristiane e civili più si riverisce e si onora.

Questi sono i veri, i precipui motivi delle così dette Reazioni che infieriscono in Napoli e nella Sicilia; e gli eccitamenti che se ne pretendono ordinati e mossi da non sappiamo che comitati stabiliti in Roma, in Venezia ed altrove, sono invenzioni e menzogne che non hanno neppur l’ombra del verosimile. Certo le affezioni dinastiche, la tenacità degli antichi ordini e le speranze d’ogni gran bene concepite in un Principe, al quale poco tempo era bastato per farle di sé concepire grandissime, entrano per non poco in quel terribile commovimento, che ora agita i popoli dal Tronto fino all’estremo lembo meridionale della Trinacria. Ma già fu detto che essi forse si sarebbero rassegnati al giogo degli usurpatori, se la costoro o insipienza o nequizia non gli avesse sospinti alla disperazione colla realtà di quel mal governo, di cui essi attribuirono al Pontefice Romano ed al Re di Napoli la calunnia. Questa, camuffata sotto gli ipocriti e filantropici compianti di una diplomazia senza onore e senza coscienza, poté far buon giuoco nel Congresso di Parigi, per insidiare turpemente ai troni amici e che dicevansi protetti. Ma i popoli tranquilli e contenti non si muovevano, non zittivano; ed in un secolo di regno di Pio IX o di Ferdinando II non saria stato necessario un millesimo di quella sanguinosa repressione, di cui si è dovuto puntellare il Piemonte in sei o sette mesi di dominio. Proscritti senza processo a miriadi; incarcerati per politici sospetti più che a miriadi; dei trucidati per ordine o per connivenza della pubblica autorità non può trarsi più il novero; borgate, villaggi e perfino intere città arse ed incenerite, e tutto questo con un raffinamento di ferocia selvaggia che ne disgraderebbero al paragone le crudeltà croate descritte dai nostri poeti patriottici, con questa sola differenza, che per conto dei Croati quelle erano per nove decimi esagerazioni ed invenzioni poetiche; per gl’ltaliani nel Regno e nella Sicilia sono schietta verità di fatti, che attestano con quanto merito il Piemonte si arroga l’egemonia civile della nazione rigenerata.

Ma quello che nella presente materia dee recare maggiore maraviglia è il vedere come la fazione conquistatrice, la quale pel resto ha pure mostrato di non difettare di avvenimento e di astuzia, non abbia capito fin da principio che, quel contegno di alterigia sprezzante e di violenta compressione, avrebbe distrutto con una mano ciò che si contendeva di edificare coll’altra. Ma noi, più che insipienza od imperizia, vediamo in questo contegno del Piemonte, a rispetto delle Due Sicilie, quella ineluttabile e quasi fatale necessità, in che spesso si trovano gl’iniqui, quando, per compiere o mantenere l’opera loro, si trovano costretti a valersi di mezzi che di quella sono la distruzione e la morte. Quinci si origina nell’ordine pratico una specie di circolo vizioso, non guari díssomigliante da quello che i díalettici notano nello speculativo, quando a convincere vera una proposizione si reca un argomento che, in quella proposizione stessa attingendo ogni sua forza dimostrativa, non pure è incapace a convincerla, ma la distrugge.

Certo non ci voleva grande perspicacia per capire che a dieci milioni di esseri ragionevoli non si sottrae di punto in bianco l’autonomia di Stato politico, e non s’impone il giogo di un dominio nuovo ed ignoto, a furia di bruciamenti, di fucilazioni e di mitraglia: e la più volgare avvedutezza avrebbe suggerito di carezzare, di blandire al possibile, almeno sugl’inizii, le suscettività di quei popoli annessi alla corona sabauda, sicché essi appena si accorgessero del mutamento, e, se si fosse potuto, pensassero di avervi guadagnato qualche cosa. Non vi è sacrifizio che il Piemonte non avrebbe dovuto fare a questo intento; e piuttosto che farneticare intorno a Roma, saria stato molto sottile accorgimento tramutare dalla Dora sul Sebeto, anche solo temporaneamente, la sede del Governo; col che si saria forse assicurato il Regno, non saria pericolato il possesso del Piemonte e di Torino; pogniamo che ne dovessero restare alquanto ferite le pretensioni municipali. Ma ad ogni modo il non dar fondo alla pubblica e privata fortuna, il lasciare la pubblica cosa in mano ad indigeni, senza insediare troppi stranieri in uffizii anche supremi, e da ultimo il rispettare comunque, e fosse per semplice ipocrisia, la cattolica Religione, che in quelle contrade è parte principalissima della vita domestica e della civile, sarebbero stati tre avvenimenti facili, naturalissimi e da saltare agli occhi di uomini anche meno perspicaci che non sono gli statuali piemontesi, massime quando vi sedea a capo il perspicacissimo conte Camillo.

Ma, li vedessero o no, il certo è che essi furono nell’assoluta impossibilità di recarli in pratica; e ciò per la qualità medesima della loro opera, la quale gli strascinò pei capegli a fare precisamente il rovescio di quello che la più comunale prudenza avrebbe consigliato. E così si videro da ultimo ridotti a tutto dover commettere alla bestiale ferocia dei Cialdini e dei Pinelli, il cui solo intervento, in opera di vasta e sanguinosa repressione popolare, bastava a mostrare perduta moralmente innanzi all’Europa la causa della unità italiana, con molta probabilità che quell’intervento stesso non basterebbe ad impedirne eziandio la materiale ruina. Della quale durissima necessità, in che si trova la fazione piemontese, di non fare altrimenti da quel che fa nelle Due Sicilie, fia pregio dell’opera accennare la precipua ed intima cagione, perché meglio s’intenda la suprema nequizia dell’opera e la impossibilità, in che questa versa di pigliare mai consistenza od acquistare durevolezza.

Salvo poche aderenze, apparecchiate di lunga mano colla pecunia o colle promesse nella città di Napoli ed in Palermo, in tutto il resto del vasto Reame il Piemonte, a rispetto delle moltitudini, non che nelle simpatie, non era entrato neppure nella contezza, che pure era indispensabile al desiderio. Quindi avvenne che, compiutasi nel modo che tutti sanno nella capitale l’annessione, il Governo sardo si trovò sconosciuto e solitario in mezzo a popoli che, tenendosene in sospettosa distanza, stettero un tratto, guardinghi e diffidenti, osservando ove andassero a parare le cose. Esso intanto non ebbe per sé che i reduci dagli esilii, gli usciti dalle galee, un pugno d’illusi, le cui illusioni si dileguavano innanzi alla dolorosa realtà dei fatti, e più di tutti tenacemente gli aderiva quella ribaldaglia vituperosa che parteggerebbe, non che pel Piemonte, ma pel Turco, quando da questo potesse essere licenziata ad ogni genere di ribalderie e di delitti. Nel resto il clero maggiore ed il minore, il secolare ed il regolare, non volle aver che fare con un Governo che riputò scomunicato ed usurpatore; l’esercito anche sbandato gli si dichiarò fieramente avverso, e rientrato nei proprii focolari non aspettava che un segnale a riprendere le armi pel proprio Principe; l’aristocrazia se ne separò quasi in fascio, ed o si chiuse nei proprii palagi, o riparò a centinaia in Parigi, in Roma ed in altre contrade di Europa; la numerosa falange dei pubblici ufficiali, indigeni e non deposti dai nuovi padroni, se esternamente per domestiche necessità fe’ mostra di loro aderire, ebbe troppe ragioni di esserne stomacata, e non vedea l’ora di mostrare all’aperto ciò che pensa e vuole; l’immensa popolazione delle campagne, per le cagioni accennate di sopra, sospirando al ritorno dell’antico ordine di cose, stette un tratto spettatrice quasi indolente di quel subito rivolgimento, ma oggimai non sa più star alle mosse e si leva in armi e si ordina e combatte con disperato ardimento.

Che più? Quei medesimi, e non erano pochi, i quali, soprattutto nella Metropoli e nelle città maggiori, allucinati da non so che lustre di beatitudini mai più non viste, aveano vagheggiato o il Governo parlamentare come arra di libertà, o l’unificazione italiana come mezzo di prosperità e di grandezza, hanno avuto tutto l’agio di prendere dai fatti disinganni amarissimi, ma salutari, ed oggi accetterebbero con tutti i suoi difetti, come una benedizione del cielo, quel Governo, verso cui furono od indifferenti od ostili per improvvido speranza di meglio; né forse minori sventure sariano bastate a metter senno in quei cervelli. E così il Piemonte nelle Due Sicílie veggendosi solitario, diserto, abbandonato dal fiore e dal grosso delle popolazioni, ha dovuto afforzarsi della loro porzione putrida e cancrenosa, sotto pena di non avere, in paese che dice suo, anima viva che parteggiasse per lui. Or questa porzione corrotta e vituperosa del popolo è miserabile, è affamata, né si mantiene in fede che a prezzo di pronti contanti tratti dal pubblico erario già esausto e dalle private fortune lasciate alla mercé loro. Oltre a ciò essi vorrebbero pubblici carichi, come strumento di prepotenza e fondo da smungere pecunia; e pei minori sono comunemente fatti paghi, intantochè la polizia è tutta in mano di certa schifosa melma, che chiamano Camorra, con bacia di tutto fare contro i reazionari ed i sospetti di borbonismo; ma quanto ai più alti uffizii, questi alla gente onesta e capace fan ribrezzo, non si potrebbero commettere ai traditori dell’antico Governo, i quali, ricevutone il prezzo, dovettero essere, come merce contaminata, buttati via; e quindi la necessità, che si sperimenta in Torino di doversi valere di stranieri imperiti e nuovi, e che offendono i paesani colla medesima loro qualità di stranieri.

Da ultimo, appunto perché le aderenze piemontesi in quelle contrade sono quasi alla sola feccia ristrette, e questa abomina tutto che si attiene a Religione ed a Chiesa, il Governo sardo è obbligato, quando pure non lo volesse, a secondare quelle ire sacrileghe e quel furore di persecuzione ecclesiastica, la quale si mostra, come il carattere più scolpito del nuovo ordine introdotto, per somma nequizia, in quelle contrade.

Ed ecco chiarito quel circolo vizioso, al quale dicevamo sopra essere gli usurpatori colà condannati dall’indole medesima della loro opera innaturale e violenta. Essi, per mantenerla, sono trascinati col capestro alla gola a fare proprio quello che è il mezzo più spedito per distruggerla. Per avere aderenze e braccia che la sostengono, sono obbligati ad una dilapidazione della pubblica fortuna e ad uno smungimento della privata, che in men di un anno han condotto quelle già sì liete ed opulente regioni ad uno stremo di miseri, di cui ivi la presente generazione non ha memoria.

L’impossibilità di trovare nel paese persone sperimentate e capaci che vogliano aiutare dei loro servigi il Governo intruso, obbliga questo a mandarvi da Torino stranieri ufficiali, i quali, nuovi degli uomini e delle cose, appena fanno altro che arruffare via peggio la matassa, lasciando le popolazioni altamente disgustate ed offese dal vedersi padroneggiate da gente ignota, ed imposta ad esse da uno Stato che non è il loro. Si aggiunga finalmente che un riguardo, quanto che piccolissimo, alla Religione di un paese eminentemente cattolico è al tutto impossibile ad un Governo, condannato a non avere per sé che il rifiuto della società, in tutti gli atei e gli scredenti che gli si rannodarono attorno, per la speranza ed a patto di sfogarne gli antichi mal compresi rancori contro la Chiesa cattolica ed i suoi ministri, nella quale e nei quali aborrono la condanna viva, che quella e questi sono della loro vita inviziata ed infame.

Tra queste condizioni è naturalissima l’impossibilità, in che vedesi il Ministro sardo, di trovare un uomo che riesca a governare uno Stato, che pure era sì tranquillo e di sì facile contentatura governato dai suoi legittimi Principi. I Luogotenenti si succedono senza posa; e tutti dalla più deliziosa dimora d’Italia, da un seggio governativo che in ampiezza non ha l’ugual nel mondo, fuggono esterrefatti come se bruciasse colà sotto i loro piedi la terra, e talora neppur basta loro la pazienza di aspettare il successore; tanto tarda loro di far meno cospicuo il fiasco che pur sentono di aver fatto.

A dir solo dei più nominati e che vi durarono più di un mese, al Principe di Carignano non valse nulla il prestigio del nome regio; nulla al Nigra le attrattive di simpatia, onde diceasi adorno; nulla al Ponza la valentia nell’amministrazione, in cui è predicato maestro: e quand’anche Vittorio Emmanuele, aderendo al consiglio datogli, secondo che si riferisce dai giornali, da Napoleone III, fosse ito a piantare in Napoli la sua dimora, noi teniamo per fermo che la Maestà regale non avrebbe fatto in lui pruova migliore; e presto si saria visto obbligato a fuggire a precipizio una seconda volta dal mezzo di un popolo, che rimembrerebbe con rinnovato desiderio la vita intemerata e la pietà regalmente cristiana dell’esule suo Sovrano.

Che sia per ottenere il Cialdini, il quale in vece del prestigio, della simpatia e dell’astuzia, va a comprimere il Regno sotto la suprema ragione del ferro, non si può prevedere; ma tutti colà sono persuasi che la causa della giustizia trionferà presso assai; anzi se ne mostra persuaso lo stesso Piemonte, il quale, colla furia che reca nel saccheggiare Reggie, Musei ed Arsenali, rappresenta bene il ladro che svaligia la casa incalzato alle spalle dalla famiglia del criminale. Pure non è impossibile che quel feroce, usando ed abusando le forze di mezza Italia, riesca a spegnere nel sangue le legittime e generose aspirazioni dell’altra metà, alla quale indarno i giornali ufficiali ed ufficiosi regalano il titolo di briganti e di ladri. Ma, oltrechè quella prevalenza non potrebb’essere che passeggera, in quanto è impossibile che duri lungamente un dominio poggiato sulla sola forza; è grande acquisto per la causa della verità e della giustizia l’essere stata la fazione piemontese obbligata a rompere in un tanto estremo. Oh! I protettori dei popoli! I paladini dell’indipendenza! Gli odiatori magnanimi di ogni dominazione imposta colla forza!

I declamatori furibondi contro l’eccidio di Perugia ed il bombardamento di Palermo! E quale infamia potea venire loro addosso maggiore di questa, che fare essi davvero ciò che finsero aver fatto Pio IX e Ferdinando Il e la stessa Austria?

Se volete vedere un popolo che odia davvero un Governo e vuol sottrarsene, non lo cercate nelle campagne della Polonia russa, né nel Lombardo Veneto, e molto meno negli Stati della Chiesa; cercatelo e lo troverete nelle Due Sicilie, dove le intere popolazioni si battono coll’entusiasmo della disperazione, e si fan macellare per l’abominio che hanno ai veri Croati della Italia. E quando fu mai che una provincia della Lombardia o della Venezia facesse contro gli Austriaci quello che da sei mesi stan facendo le Puglie e le Calabrie, la Capitanata, la Terra di Lavoro, la Basilicata, il Contado di Molise, i Principati e gli Abruzzi contro il Piemonte? Ricordiamo le fazioni di Brescia e di Vicenza nel 1848; ma in quelle le popolazioni indigene pigliarono poca o nessuna parte; e l’Austria si trovò innanzi stranieri, quasi altrettanti che a Solferino ed a Magenta.

Ricordiamo i conati di Milano, di Bergamo ed eziandio delle Romagne; ma il paragonare questi moti colle immense sollevazioni napolitane e sicule, saria il medesimo che agguagliare gli attraimenti galvanici di una ranocchio cogli sforzi poderosi di un uomo vivo, che si contende di frangere i proprii ceppi. Torniamo a dire: potrebbe la forza bestiale prevalere; e la vendetta di tanto misfatto potrebb’essere dalla divina Giustizia differita ad altro tempo e forse ancora, ma infallibilmente, all’altro mondo. In ogni caso nondimeno l’Europa, spettatrice indolente di tanto assassinio, avrebbe col fatto rinunziato al nobile titolo di mantenitrice della ragione delle genti; i suoi Sovrani ed i suoi popoli che lasciano impunemente assassinare un Sovrano ed un popolo fratello, non potrebbero lamentarsi se loro incogliesse la stessa sventura; e l’Italia piemontese sarebbe convinta di non avere altra attinenza coi veri popoli della Penisola, che la fratellanza di Caino

Tratto da La Civiltà Cattolica Serie IV, vol. XI, 8 Agosto 1864

 di p. Carlo Maria Curci S.J.

fonte portaledelsud.org 

 

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