La llengua nosta, storia e cultura dell’idioma napoletano
Era il 15 aprile 1689, quando un vietrese d’origine come Gabriele Fasano tradusse in napoletano la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Era, scriveva Fasano nel testo ristampato da un editore cavese con l’impegno del giornalista Vito Pinto, la riproposizione del capolavoro di Tasso nella “llengua nosta”.
Già, la nostra lingua, quella che si considera dialetto e che, invece, nei secoli andati era uno strumento di comunicazione così diffuso da essere utilizzato per libri ultra citati come, tra il 1634 e il 1636, Lo cunto de li cunti di Giovanbattista Basile. Un libro di 50 fiabe che Benedetto Croce tradusse in italiano, definendolo “il più antico, il più‚ ricco e il più artistico tra tutti i libri di fiabe popolari”. E la lingua non era stata certo un impedimento. Anzi. Alla stessa maniera, fu Croce ad esaltare le capacità liriche di Salvatore Di Giacomo. Amava meno Ferdinando Russo, più passionale e più popolare per argomenti delle sue poesie, espressione concreta del ceto basso. Cultura minore, provincialismo? C’è chi lo pensa, eppure, al netto del melodramma, l’unica forma musicale proveniente dall’Italia conosciuta nel mondo è la canzone napoletana. Torna a surriento, ‘O sole mio e chi ne ha più ne metta sono motivi fischiettati e conosciuti ovunque. Napoletano lingua o dialetto? Negli Stati Uniti, viene considerato titolo nei curriculum di assunzione la conoscenza anche del Neapolitan language. Sia per le aziende privare sia per la pubblica amministrazione. Spiegabile: in quel Paese, la massiccia emigrazione tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 proveniva soprattutto dal Sud d’Italia, tanto che negli States gli italiani sono identificati spesso con i napoletani o i siciliani. A Buenos Aires, la lingua napoletana è materia per un corso di studi. Il professore Nicola De Blasi, docente di Storia della lingua italiana all’Università napoletana Federico II, sta curando la stesura di un dizionario etimologico storico del napoletano con il suo collega Francesco Montuori. Verrà documentata l’evoluzione della lingua napoletana attraverso i primi testi scritti nel 1300 per arrivare ad oggi. Una lingua viva, in continua evoluzione. Già nel 1887, 26 anni dopo l’unità d’Italia, Raffaele Andreoli pubblicò un vocabolario italiano-napoletano, che dimostrava la necessità di un traduttore in aiuto degli italiani di altre regioni, sulla parlata meridionale. D’altro canto, è noto che, nella guerra del brigantaggio, gli ufficiali piemontesi avevano bisogno degli interpreti quando dovevano interrogare un prigioniero. Che dire poi della famosa frase, più di una volta sentita in occasione della sua morte, di Pino Daniele in uno dei suoi primi concerti a Milano “Parliamo napoletano, vabbè, tanto si capisce, la nostra lingua è musica e la musica si capisce ovunque”. Stesse idee espresse, in un’intervista a Pippo Baudo su Rai uno, anche Massimo Troisi. E il successo di Renzo Arbore con la sua Orchestra italiana? Non è curioso che il nome della band identifichi con l’Italia un repertorio che è prevalentemente di canzoni napoletane? Non credo sia casuale: la ricchezza culturale del Sud è patrimonio dell’Italia intera, esportabile all’estero. Anche se l’Italia intera spesso se ne dimentica. E poi, il teatro di Eduardo De Filippo, diventato arte conosciuta in tutto il mondo, dove abbondano le espressioni in napoletano, anche se in una lingua più italianizzata. E, il meno conosciuto teatro di Raffaele Viviani. Tutto in llengua nosta. Un regista teatrale colto come Ruggero Cappuccio sostiene che sia il napoletano la vera lingua italiana nella drammaturgia e nelle commedie in scena conosciute in tutto il mondo. Nessuno, tra i cantanti e i cantautori napoletani, oltre all’italiano ha disdegnato interpretazioni in napoletano. L’ultimo esempio è Gigi D’Alessio, con il suo ultimo Cd annunciato già negli spot pubblicitari come in “lingua napoletana”. Non risulta che uguale successo, o uguali tentativi facciano bravissimi cantanti o cantautori di altre regioni d’Italia. Insomma, la llengua nosta resta patrimonio culturale della Nazione italiana. Finita l’autonomia politica della Nazione napoletana con l’unificazione del 1861, ne restano le eredità culturali e storiche che non si possono cancellare. La lingua napoletana ne è dimostrazione. Se si fa una ricerca su Google. com, alla voce lingua italiana si trova anche il neapolitan. Insomma, è il riconoscimento di una realtà che nessun azzeramento culturale può cancellare, nessun cosmopolitismo può negare. Naturalmente, niente provincialismi, niente chiusure. Oggi, la lingua napoletana è una ricchezza in più, un elemento distintivo di radici e identità. Non certo un sostitutivo dell’italiano.
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Ecco, bravi, cominciamo a dare il buon esempio correggendo le didascalie del titolo e dell’illustrazione all’inizio dell’articolo, scritte in chissà quale lingua!