La metafora del colonialismo interno
Diffusione del concetto
A cominciare dagli anni Sessanta del Novecento si è fatto largamente ricorso all’espressione “colonialismo interno” per indicare condizioni di gravi differenze sociali ed economiche tra regioni appartenenti ad uno stesso Stato. In sostanza una colonia interna è una colonia che esiste all’interno dei confini dello Stato colonizzatore 1, ma la vastità della letteratura sul colonialismo interno ci presenta innumerevoli modelli interpretativi risultato di studi assai specifici e rigorosi che hanno toccato i cinque continenti. A volte le differenze tra i modelli sembrano irrilevanti, altre ragguardevoli.
La teoria del colonialismo interno si alimenta delle teorie economiche e politiche sull’imperialismo e sul neocolonialismo sviluppati per l’Asia, l’Africa e l’America Latina; del resto proprio Lenin, nell’analisi dello sviluppo del capitalismo in Russia, segnalò come l’impero russo fosse il mercato interno del capitalismo di San Pietroburgo e Mosca. Siamo negli anni della Rivoluzione Cinese, quelli in cui montavano le rivoluzioni anticoloniali ed il lancio dello Sputnik e il viaggio di Gagarin alimentavano la sensazione che prima o poi i livelli produttivi dei paesi capitalistici potessero essere superati da quelli dei paesi socialisti, anni di grande fortuna per il saggio di Lin Piao sulle “campagne del mondo”.
Addentrandoci in questa disanima terremo sempre presente queste parole di André Gunder Frank: ”Il sottosviluppo [in America Latina] era ed è generato dal processo stesso storico che anche generato sviluppo economico [negli Stati Uniti e in Europa]: lo sviluppo del capitalismo stesso… Questo processo ha portato ad una catena gerarchica di relazioni metropoli-satelliti, in cui ogni metropoli si appropria del surplus economico generato nei suoi satelliti, e ciascuno di i satelliti … serve come strumento per succhiare capitali o surplus economico di propri satelliti, e di incanalare parte di questo surplus alla metropoli mondo di cui tutti sono i satelliti”2.
La letteratura sul colonialismo interno
Si è indagato sulle tradizioni locali, sulla vita di famiglia e di quartiere, sul lavoro, sull’istruzione, sui mezzi di intrattenimento e sull’operato delle politiche sociali. Modelli di “colonialismo interno” sono stati utilizzati per indicare situazioni di oppressione di classe, di razza o geografiche, combinate o anche isolate. Le note a margine dell’intero testo intendono fornire al lettore un quadro approfondito degli studi sul tema ad oggi; di tutti i libri citati solo una piccolissima parte è stata da noi consultata e di altri ne siamo venuti a conoscenza solo grazie a recensioni. Studi di questo genere non sono mai arrivati in Italia neppure quando l’Italia stessa è stata l’oggetto precipuo delle ricerche3, mancano traduzioni ed approfondimenti e la percezione che si ha del fenomeno è praticamente nulla.
Sono state individuate come colonie interne il Sud degli Stati Uniti4, il nord della Nuova Inghilterra5, le Hawaii6, la Palestina7, alcuni territori dell’Australia8, Bangladesh9, Acadia e Québec in Canada10, Colombia11, Finlandia12, la Bretagna in Francia13, il Jharkhand regione dell’India14, Irlanda del Nord15, la regione giapponese di Sanya16, Paesi baschi e Catalogna in Spagna17, Sri Lanka18, il cantone svizzero di San Gallo19, zone della Thailandia 20, il Galles21, e l’Appalachia22, gli indiani23, i neri24 e i chicani25 negli USA, gli indigeni canadesi26, gli indigeni nel Centro-America ed in quella del Sud27.
Tutti i modelli esaminano i processi con cui gli interessi dell’economia esterna controllano l’economia locale ed impediscono lo sviluppo autonomo. Essi suggeriscono a volte la separazione, ma spesso una rivoluzione legata ad una sostanziale ridistribuzione delle risorse e ad uno sviluppo pianificato.
Il black colonialism
Il colonialismo interno nei paesi africani è stato definito da Ken Saro-Wiwa “black colonialism” con particolare riferimento agli Ogoni in Nigeria, la sua etnia. L’esistenza di un colonialismo interno africano non deve meravigliare, il primo uso conosciuto del termine è stato fatto da Leo Marquard in un libro del 1957 dedicato al Sudafrica. Dalle fonti che abbiamo consultato la creazione della Nigeria è stata considerata come un espediente dell’imperialismo britannico che ha messo assieme molte etnie con alcune (gli Hausa del Nord, i Yoruba e gli Ibo nel Sud) che dominano altre come appunto gli Ogoni che vivono sul delta del Niger, regione ricchissima di petrolio e gas eppure poverissima. Arriviamo ad individuare colonie nelle colonie che ci fanno meglio comprendere la “catena gerarchica di relazioni metropoli-satelliti” descritta da Gunder Frank 28. Possiamo provare ad immaginare il sistema economico come un grande cerchio, la metropoli, con all’interno tanti piccoli cerchi, le colonie interne, che a volte si intersecano.
Contributi alla definizione del colonialismo interno
Come osserva González Casanova, “il colonialismo non si verifica, a differenza di quanto comunemente si pensa, solo a livello internazionale bensì anche all’interno di una singola nazione, quando determinati gruppi etnici assumono stabilmente il dominio di altri” 29. Per il sociologo messicano il “colonialismo interno corrisponde ad una struttura di relazioni sociali basate sul dominio e sullo sfruttamento tra gruppi culturalmente eterogenei e distinti… Esso è il risultato di un incontro tra due razze, culture o civiltà, la cui genesi ed evoluzione è avvenuta senza alcun reciproco contatto fino a un momento specifico… La struttura coloniale e il colonialismo interno si distinguono dalla struttura di classe mentre il colonialismo non è solo un rapporto di sfruttamento dei lavoratori da parte dei proprietari di materie prime o di produzione e dei loro collaboratori, ma anche un rapporto di dominio e sfruttamento di una popolazione totale (con le sue classi distinte, proprietari, lavoratori) su un’altra popolazione che ha anche classi distinte (imprenditori e lavoratori)”30.
In questa definizione si intrecciano l’aspetto culturale, quello razziale, quello di classe e quello geografico. Il punto di partenza è l’avere gruppi culturalmente eterogenei e distinti che vengono a contatto in un dato momento storico sviluppando una relazione di tipo dominante-dominato.
Pierre Van den Berghe invece scrive: “Secondo me, il concetto di colonialismo interno, quando così diluito, perde tutto il suo utilizzo per i fini di analisi delle scienze sociali. Io propongo di trattare il colonialismo interno come un tipo ideale con le seguenti caratteristiche:
- Governa un gruppo etnico (o coalizione di gruppi di questo tipo) rispetto ad altri gruppi simili che vivono entro i confini continui di un singolo stato
- La separazione territoriale dei gruppi subordinati etnici in “homelands”, “native reservers”, e simili con i diritti di proprietà fondiaria distinti da quelli applicabili ai membri del gruppo dominante
- Presenza di un governo interno con un governo specificamente creato per dominare i popoli soggetti, con uno status giuridico speciale attribuito ai gruppi subordinati.
- Le relazioni di disuguaglianza economica in cui i popoli soggetti sono relegati in posizione di dipendenza e di inferiorità nella divisione del lavoro e nelle relazioni di produzione.
Una tale definizione di colonialismo interno esclude semplici differenze regionali di sviluppo economico, le semplici differenze di classe nel sistema di produzione e, in maggior ragione, le differenze in base a età, sesso, handicap fisici e innumerevoli altri. L’utilità del concetto per capire la situazione di un gruppo è una funzione di questa approssimazione del gruppo alle caratteristiche del tipo ideale”31.
Viene così introdotto come elemento caratterizzante il colonialismo interno l’idea di un governo nel governo deputato al controllo dei dominati attraverso una legislazione ad hoc, ma questo tentativo di creare un modello “largo” che risulti contemplativo di situazioni differenti in realtà fallisce e si presta solo per i casi di colonialismo interno etnico.
Nessuna delle due definizioni dunque può essere omnicomprensiva, neppure è utile la definizione di Blauner modellata sulla colonizzazione interna dei neri americani32. L’insieme dei modelli di colonialismo interno è una vasta gamma di teorie eterogenee che tentano di approntare una critica del potere e del dominio.
Infrastrutture di dipendenza
Un contributo fondamentale del modello di dipendenza è la nozione di “infrastrutture di dipendenza”, le strutture interne del paese dipendente includono l’organizzazione industriale, i modelli di urbanizzazione e le classi sociali. Nell’esposizione di Suzanne Bodenheimer, due esempi di infrastrutture di dipendenza sono i modelli di industrializzazione dipendente e la formazione di classi sociali clientelari. Caratteristiche di industrializzazione dipendente includono il dominio straniero dei settori più dinamici dell’industria, vantaggi competitivi per i monopoli stranieri sulle imprese locali, e l’introduzione di tecnologie avanzate ad alta intensità di capitale senza riguardo per la disoccupazione che ne deriva. Le classi clientelari hanno una “doppia posizione come partners di interessi metropolitani ed èlite dominanti all’interno delle loro stesse società”. Essi possono includere non solo la borghesia industriale, ma anche la burocrazia statale ed altri settori della classe media quando le loro posizioni sono legati agli interessi stranieri. L’infrastruttura di dipendenza è quindi “l’equivalente funzionale di un apparato formale coloniale”, ma nella misura in cui è interno e istituzionalizzato “è molto più difficile da superare”33.
La Celtic Fringe
L’unico scritto sul colonialismo interno arrivato in Italia ed ancor in circolazione è Internal Colonialism The Celtic Fringe in British National Development di Michael Hechter e dito col titolo Il colonialismo interno. Il conflitto etnico in Gran Bretagna, Scozia, Galles e Irlanda (1536-1966). Il testo era noto a Nicola Zitara che scrive: “sul piano teorico, la tematica del colonialismo interno è giunta in Italia dall’Inghilterra, parecchio dopo l’arrivo della saggistica marxista (nord- e latino-americana) sul sottosviluppo, la quale conteneva già le categorie politiche per analizzare quel fenomeno”. Zitara continua poi citando Michele Abbate: “Come ha rammentato recentemente Andrè Gorz, il colonialismo non è soltanto una pratica esterna del capitalismo monopolistico. Esso è infatti innanzi tutto un sua pratica interna. Le sue prime vittime non sono le nazioni sfruttate, oppresse, smembrate, ma proprio le popolazioni, o una parte delle popolazioni dei paesi dominanti. La concezione in base alla quale il mondo appare semplicisticamente diviso in nazioni imperialistiche e in nazioni sfruttate presenta, tra gli altri inconvenienti, quello di proporre una visione del mondo per la quale i cosiddetti popoli ricchi si troverebbero interamente da una parte della barricata e tutti gli altri dall’altra parte..”34.
L’americano Michael Hechter è stato influenzato dalla “teoria della diffusione” di Karl Deutsch che sostiene che la crescente interazione tra diverse etnie conduce ad una omogeneizzazione generale dei popoli. Hechter, tuttavia, ha respinto la teoria della diffusione, ed ha postulato il colonialismo interno; egli sostiene nel suo scritto che lo sviluppo britannico ha reso la “frangia celtica”, ovvero Irlanda, Scozia e Galles, una colonia interna a cui è stato negato lo sviluppo industriale, a seguito di un “divisione culturale del lavoro” per cui è possibile rilevare un sistema socio-economico assai stratificato in cui oggettive differenze culturali si innescano su linee di classe. Ciò permette alla popolazione “celtica” di mantenere alcune delle caratteristiche della sua cultura tradizionale.
L’interazione tra due o più gruppi etnici all’interno di un unico stato, dunque, non necessariamente genera unità etnica, come ipotizzato nella teoria della diffusione, ma anzi genera conflitto perché le disparità tra le regioni creano un centro ed una periferia, e se queste regioni hanno anche carattere nazionale allora il conflitto assume la forma del nazionalismo ed Hechter vede il nazionalismo scozzese, gallese e irlandese come il risultato del colonialismo interno.
NOTE
1 M. Sornarajah, “Internal colonialism and humanitarian intervention” in “Georgia Journal of International and Comparative Law”, 1981.
2 André Gunder Frank, “Lo sviluppo del sottosviluppo”, 1966
3 Federico Caprotti in “Mussolini’s Cities: Internal Colonialism in Italy, 1930-1939” del 2007 – opera che non ci risulta tradotta in italiano – qualifica come colonialismo interno il recupero delle paludi pontine e la migrazione di coloni selezionati.
4 Joe Persky, “The South: A Colony at Home” 1973 e Andre Gorz, “Colonialism at Home and Abroad” 1971.
5 Geoffrey Faux, “Colonial New England”, 1972
6 Noel J. Kent, “Hawaii Islands Under the Influence”, 1993
7 Elia Zureik, “The Palestinians in Israel: A Study in Internal Colonialism”, 1982; Emma C. Murphy, “Israel and the Occupied Territories of the West Bank and Gaza Strip: A case of internal colonialism”, 1991; Elia T. Zureik, “The Palestinians in Israel: A Study in Internal Colonialism, 1979.
8 Gunter Minnerup e Pia Solberg, “First World, First Nations: Internal Colonialism and Indigenous Self-Determination in Northern Europe and Australia”, 2010; Jeremy R. Beckett, “The Torres Strait Islanders and the pearling industry: A case of internal colonialism”, 1977; Gus Bernardi, “The CDEP scheme: A case of welfare colonialism”1997; Greta Bird and Pat O’Malley, “Kooris, internal colonialism, and social justice”, 1989; David Drakakis-Smith, “Advance Australia fair: Internal colonialism in the antipodes”, 1983 e “Internal colonialism and the geographical transfer of value: An analysis of Aboriginal Australia”, 1984; Mervyn Hartwig, “Capitalism and Aborigines: The theory of internal colonialism and its rivals”, 1978; Ian Hughes, “Dependent autonomy: A new phase of internal colonialism”, 1995.
9 Mitra Das, “Internal colonialism and the movement for Bangladesh: A sociological analysis”, 1978.
10 B. Brian McKee, “Ethnic maintenance in an internal colony: The case of the Acadians of New Brunswick, Canada”, 1987 e Kenneth McRoberts, “Internal colonialism: The case of Québec”, 1979.
11 A. Eugene Havens and William L. Flinn, “Internal Colonialism and Structural Change in Colombia”, 1970.
12 Risto Alapuro, “Internal colonialism and the regional party system in eastern Finland”, 1979.
13 Jack E. Reese, “Internal colonialism: The case of Brittany” 1979 e Maryon McDonald, “We are not French!: Language, Culture and Identity in Brittany”, 1989.
14 Stuart Corbridge, “Industrialisation, internal colonialism and ethnoregionalism: The Jharkhand, India, 1880-1980”, 1987 e Sachchidanand Sinha, “The Internal Colony: A Study in Regional Exploitation”, 1973.
15 Ulster Unionist Association/Queen’s University of Belfast, “Ulster: The Internal Colony”, 1986.
16 Brett Nee, “Sanya: Japan’s internal colony”, 1974 e Brent de Bary, “Sanya: Japan’s internal colony”, 1997.
17 Juan D. Medrano, “The effects of ethnic segregation and ethnic competition on political mobilisation in the Basque country,” American Sociological Review 59 (1994); and, Divided Nations: Class, Politics, and Nationalism in the Basque Region and Catalonia (Ithaca NY: Cornell University Press, 1995).
18 Lakshmanan Sabaratnam, “Internal colonies and their responses”, 1986.
19 Thomas M. Clarke, “The unfinished paradigm: Political economy of St. Gallen”, 1981.
20 David Brown, “Internal colonialism and ethnic rebellion in Thailand,”, 1994 e Bruce London, “Internal colonialism in Thailand: Primate city parasitism reconsidered”, 1979.
21 Glyn Williams, “Internal colonialism, space and underdevelopment in Wales”, 1983.
22 Samuel R. Cook, “Monacans and mountaineers: A comparative study of colonialism and dependency in southern Appalachia”, 1997; P.J. Nyden, “An internal colony: Labor conflict and capitalism in Appalachian coal”, 1979.
23 Gary C. Anders, “The internal colonization of Cherokee Native Americans”, 1979; Ward Churchill, “Indigenous peoples of the United States: A struggle against internal colonialism”, 1985; James V. Fenelon, “From peripheral domination to internal colonialism: Sociopolitical change of the Lakota on Standing Rock”, 1997; Al Gedicks, “Multinational corporations and internal colonialism in the advanced capitalist countries: The new resource wars”, 1985; Amelia W. Irvin, “The Black Hills ‘National Sacrifice Area’: A study in US internal colonialism”, 1980; Cardell K. Jacobson, “Internal colonialism and native Americans: Indian labor in the United States from 1871 to World War II”, 1984; Louise Lamphere, “The internal colonization of the Navajo people”, 1976.
24 Ronald W. Bailey, “Economic aspects of the black internal colony”, 1973 e Mary T. Texeira, “Policing the internally colonised: Slavery, Rodney King, Mark Fuhrman, and beyond”, 1995.
25 Tomás Almaguer, “Historical notes on Chicano oppression: The dialectics of racial and class domination in North America”, 1974; Victor V. Contreras, “Internal colonialism: A historical analysis of a conceptual model and its application to the Chicano population”, 1983; Guillermo V. Flores, “Race and culture in the internal colony: Keeping the Chicano in his place”, 1973; Manuel Hernandez-Gutierrez, “The barrio, the anti-barrio and the exterior: Semiotic textualisation of ‘internal colonialism’ in Chicano narrative”, 1984; Jose V. Martinez, “Internal colonialism and decolonisation in El Centro: A sociohistorical analysis of Chicanos in a Texas city”, 1981; Jorge R. Schement, “Primary Spanish language radio as a function of internal colonialism: Patterns of ownership and control”, 1996.
26 Menno Boldt, “Social correlates of nationalism: A study of native Indian leaders in a Canadian internal colony”, 1981; Rex Davis “Dene Nation: The Struggle of Canada’s Internal Colony for SelfDetermination”, 1977; Robert J. Devrome, “Indian education: Resistance to internal colonialism”, 1991; David G. Perley, “Aboriginal education in Canada as internal colonialism”, 1993; Paul Tennant, “Native political organisation in British Columbia, 1900-69: A response to internal colonialism”, 1982; Norman K. Zlotkin and Donald R. Colborne, “Internal Canadian imperialism and the native people”, 1977; Stephen E. White, “Migration trends in the Kansas Ogallala region and the internal colonial dependency model”, 1998; Rima C. Wilkes, “Competition or colonialism? An analysis of two theories of ethnic collective action”, 2001.
27 Pablo Gonzalez Casanova, “Internal colonialism and national development”, 1965; Walter G. Peacock, “Ethnocultural change in the central highlands of Guatemala: Acculturation and the legacy of internal colonialism”, 1986; Rodolfo Stavenhagen “Classes, colonialism, and acculturation: Essay on a system of inter-ethnic relations in Mesoamerica”, 1965.
28 Sulla Nigeria sono da consultare: Adetunji A. Bolade, “An investigation of the concept of internal colonialism in Nigeria’s recent economic development”, 1978 e Ben Naanen, “Oil-producing minorities and the restructuring of Nigerian federalism: The case of the Ogoni people”, 1995. Sul Sud Africa sono da consultare: Harold Wolpe, “The theory of internal colonialism: The South African case”, 1975. Sul Sudan sono da consultare: A.R.A. Ibrahim, “Regional inequality and under-development in western Sudan”, 1997 e Dunstan W. Wai, “Internal colonialism and political engineering in the Sudan”, 1982. Sugli indigeni africani: M.A. Mohamed Salih, “Indigenous people and the state: An unaccomplished colonial legacy and the dilemma of internal colonialism in Africa”, 1993.
29 Pablo González Casanova, “La democracia en México”, 1979 p. 89
30 Pablo González-Casanova, “Internal Colonialism…”
31 Pierre Van den Berghe, “Education, Class and Ethnicity in Southern Peru: Revolutionary Colonialism”, 1978.
32 Per Robert Blauner ci sono quattro componenti comuni al colonialismo interno e a quello esterno: l’ingresso violento del gruppo dominante, la distruzione dei valori autoctoni, l’amministrazione della colonia da parte di una élite di governo straniera, il razzismo. La definizione di Blauner è una di quelle più importanti date sul colonialismo interno, più che altro è un punto di partenza perchè è strettamente legata ad una concezione razziale del fenomeno incentrata sullo stato di polizia del gruppo dominante su quello sottomesso e non dà enfasi allo strato sociale di funzionari “indigeni” che governano nell’interesse del gruppo dominante. Vedere Robert Blauner, “Internal colonialism and ghetto revolt”, 1969 e “Racial Oppression in America”, 1972. Il modello ha dato vita a parecchie analisi ed è entrato negli scritti politici delle Pantere Nere che hanno rifiutato l’integrazione e visto il ghetto come il luogo di oppressione, ma allo stesso tempo come base potenziale della resistenza e del potere nero. Vedi Peter Bohmer, “African-Americans as an Internal Colony: The Theory of Internal Colonialism”, 1998.
33 Suzanne Bodenheimer, “Dependency and Imperialism: The Roots of Latin American Underdevelopment”, 1970, p. 339
34 Nicola Zitara, “L’invenzione del Mezzogiorno. Una storia finanziaria”, 2011, p. XVI
Angelo D’Ambra
fonte
https://www.eleaml.org/nofor/politica/ada_01_metafora_colonialismo_interno_2013.html
Mi sembra un tentativo di dare a tutti i costi un’accezione negativa al fenomeno delle commistioni successive ad amalgama di popoli che per tanto tempo hanno elaborato al loro interno usi e costumi del loro vivere quotidiano, che necessariamente era legato alle diversita’ delle fonti di provenienza di quanto occorreva alla sopravvivenza, dove terra e suoi elementi fondamentali che favorivano diversita’ vegetali, acque dolci o salate che fossero a disposizione, hanno sicuramente nel corso dei secoli caratterizzato il modo di vivere…. ma una volta che i popoli per vicende storiche di primazie o colonialismo si sono frammischiati, mi sembra che non sia molto appropriato il concetto di colonialismo, se non in senso metaforico, applicato ai consumi nella vita di tutti i giorni…ogni prodotto della terra ha un suo luogo di nascita originario…. ma poi i pomodori sono stati importati, il mais pure, il pane e’ universale e gli spaghetti anche…per non parlare della varieta’ dei pesci…altri cibi magari sono spariti dall’uso o sono diventati rarita’ riservate a occasioni speciali…ecco, la ricchezza delle varieta’di oggi e’ legata alle usanze locali e, molto, al portafoglio… non userei il termine dal sapore sempre negativo di “colonialismo”…ovviamente e’ la mia opinione! caterina ossi