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La narrazione di Giambattista Vico della congiura dei principi napoletani del 1701

Posted by on Giu 30, 2025

La narrazione di Giambattista Vico della congiura dei principi napoletani del 1701

Giuseppe Gangemi

Il Viceré Luigi De La Cerda, Duca di Medinaceli, che ha appena sventato brillantemente una rivolta di parte della nobiltà napoletana tendente a sostituire il governo della Spagna con quello dell’Austria, commissiona a un oscuro docente di retorica, Giambattista Vico, – che non ha pubblicato alcunché, ma solo letto in pubblico, in apertura dell’anno accademico, due apprezzate orazioni – di scrivere una relazione, da pubblicare, su quanto accaduto. Vico compila una narrazione fedele di come si siano svolti i fatti, un testo dal quale emerge che il motivo della vittoria del viceré non sta soltanto nel merito delle sue decisioni, ma anche nel fatto che è mancato ai rivoltosi l’appoggio della popolazione napoletana.

Non è chiaro perché la relazione non sia stata pubblicata. Cinque mesi dopo la vittoria sui congiurati, il Viceré viene sostituito. Quindi, o Vico non ha finito in tempo la relazione oppure l’ha finita, ma il Viceré De La Cerda ha considerato la relazione consegnatagli del tutto inutile ai suoi scopi, il principale dei quali, forse, era quello di avere garantito il mantenimento della carica.

La prima pubblicazione della relazione di Vico è stata realizzata, nel 1837, da Giuseppe Ferrari, e una seconda, nel 1939, da Fausto Nicolini. Quella qui considerata è la terza edizione, pubblicata da Claudia Pandolfi nel 1992, l’unica basata su due diversi manoscritti di Vico essendosi scoperta, nel 1981, una seconda bozza manoscritta del testo. Interessante è che Vico riferisca un’opinione dei congiurati, appartenenti all’aristocrazia napoletana che disprezzano gli scopi delle ribellioni del popolo ed esaltano gli scopi delle ribellioni dei nobili: “le congiure sono proprie di coloro che aspirano a grandi cose; i tumulti invece sono sollevati anche dalla più bassa plebe” (1992, 241); “vili sono i tumulti del popolino sollevati per vili interessi” perché solo quelle sollevazioni finalizzate a conquistare un regno sono degne di un re (1992, 242).

Il fatto che Vico accenni a congiure e tumulti al plurale fa pensare che recuperi generalizzazioni storicamente interiorizzate dagli aristocratici. Trattandosi di generalizzazioni, le espressioni di cui sopra non possono essere riferite alla sola congiura del 1701, ma vanno riferite a più di una rivolta popolare e a più di una rivolta di nobili. Ipotizzerei, per i nobili, alla guerra intestina dei baroni contro re Ferdinando I combattuta dal 1459 al 1564 e alla coda di questa, del 1485-1486, finita con la condanna a morte dei principali congiurati. Si tratta, quindi, di generalizzazioni prodotte su due esempi: la rivolta dei Baroni contro Ferdinando I e contro Filippo V, entrambi tentativi di sostituirli. Ipotizzerei, per il popolo, la rivolta di Masaniello d’Amalfi del 1647 e quella di Masaniello di Sorrento e Cesare Mormile del 1547. Si tratta di generalizzazioni su due tumulti per cambiare decisioni senza cambiare re o dinastie.

Le rivolte nobiliari del XV secolo sono state originate dalla reazione dei baroni ai tentativi del re di ridimensionare i poteri e i privilegi feudali. Il re stava tentando di incoraggiare l’emancipazione delle città dal diretto controllo dei feudatari anche per favorire lo sviluppo di un’economia borghese. Essendo le città sotto il controllo baronale, già solo questo avrebbe contribuito a ridurne il potere. Il re aveva anche tentato una riforma fiscale che trasferisse il controllo dei principali tributi dai feudatari all’amministrazione pubblica.

La rivolta del 1701 continuava nella stessa direzione dal momento che i congiurati volevano liberarsi di un Viceré che “era riuscito a sopprimere quasi totalmente gli abusi baronali, duro nel pretendere l’assolvimento degli oneri fiscali, rigido nell’amministrazione della giustizia penale” (1992, 195). L’obiettivo dei nobili, “degno di un re”, è sempre quello di liberarsi di un re o di un Viceré e sostituirvisi.

Le sollevazioni popolari sono, invece, rivolte a ottenere che una specifica decisione sia cambiata: nel 1547, la decisione di introdurre l’Inquisizione e di mutare il codice procedurale preesistente; nel 1647, la decisione di tassare la frutta che era, al tempo, il cibo dei poveri, una tassa che sarebbe pesata molto sui meno abbienti, mentre sarebbe stata irrilevante per i più abbienti (una tassa paragonabile alla tassa sul macinato che sarà introdotta in Italia nel 1869).  

Chiarita la differenza di interessi tra le due classi, Vico imposta la relazione in modo da far emergere l’opera di manipolazione del popolo tentata dai congiurati. Questi sono consapevoli che l’appoggio popolare è fondamentale per vincere la partita e, dopo aver fallito il tentativo di conquistare il Castelnuovo, o Maschio Angioino, si dirigono “verso le zone abitate dalla bassa plebe … e da trafficanti di ogni genere … I congiurati decidono dunque di smuovere le acque appunto là dove la natura stessa degli abitanti rende più facile eccitarne gli animi” (1992, 242). Procedendo verso i quartieri più popolari, liberano carcerati, distribuiscono armi e invitano alla rivolta millantando di essere più numerosi di quanto fossero realmente, millantando un imminente arrivo dell’esercito austriaco e millantando di avere avuto le adesioni, che non c’erano state, di quanti erano noti al popolo come uomini potenti e al comando di molti uomini. I congiurati, procedendo per i quartieri popolari, spargono voci false (“l’Arciduca d’Austria è già in Napoli”; ha portato 500 soldati), si chiamano l’un l’altro con nomi falsi per far pensare ai popolani che uomini potenti hanno aderito alla congiura, e fanno “largizioni di denaro” per ottenere che le loro parole siano rilanciate (1992, 243). Finisce che il Viceré non è più sicuro che i congiurati siano privi di consenso popolare. Per verificarlo, manda i propri soldati nei quartieri in cui si era manifestata molto forte la ribellione del 1647. Verificato che la popolazione è rimasta tranquilla, in quei quartieri, si decide di attaccare. I congiurati vengono sconfitti. 

Vico sintetizza in un discorso, che attribuisce a un anonimo popolano, la motivazione del mancato sostegno popolare e del relativo fallimento della congiura: “sotto la guida di Masaniello, noi tentammo di alleggerire la città del gravissimo carico di gabelle e di rivendicare l’osservanza dei privilegi dell’imperatore Carlo V. Vi poneste allora contro di noi quando sarebbe stato giusto che, secondando i desideri dei più deboli, i nobili ci sostenessero” (1992, 244).

Malgrado il pesante giudizio politico di Vico, una targa posta a Palazzo Marigliano tenta di presentare l’episodio come una congiura contro la tirannide.

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