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La politica del vicerè Caramanico (1786-1792)

Posted by on Apr 9, 2025

La politica del vicerè Caramanico (1786-1792)

Il programma del Caracciolo suscitò, certamente, enorme impressione alla corte di Napoli e determinò una sorta di ribaltamento politico, infatti il ministro Sambuca, che era il rappresentante del baronaggio siciliano, si dimise ed il Caracciolo fu nominato primo ministro, mentre in Sicilia fu nominato vicerè Carlo d’Aquino, principe di Caramanico (1786-1792).

Questi proseguì sulla stessa linea politica del Caracciolo, ma con un atteggiamento meno duro e più rilassato, dal momento che egli veniva come rappresentante della classe intellettuale napoletana ed aveva l’appoggio incondizionato del primo ministro.

Nel quadriennio 1786-1789 il Caramanico dette vita ad un’azione di governo orientata verso quattro direzioni: inasprimento della politica giurisdizionalistica anticlericale con ulteriore chiusura di conventi e monasteri; inasprimento della politica antibaronale con incameramento dei feudi dei baroni morti senza eredi; avvio di una politica economica e sociale mirata alla costituzione della piccola proprietà contadina con quotizzazione dei demani comunali; avvio di una coraggiosa e consistente politica culturale con l’istituzione di scuole normali e di nuove cattedre universitarie, che portò molti intellettuali a partecipare alla vita pubblica del paese. L’obiettivo del vicerè era quello di dare in Sicilia larga diffusione alla Massoneria, perchè essa prendesse le redini del governo dell’isola in tutti i campi.

La reazione del baronaggio, che si sentiva ormai messo alle strette, fu diplomatica e meditata, infatti nel parlamento del 1786 dette il suo assenso al progetto, sempre avversato, della numerazione delle anime e del catasto dei beni, ma chiese che l’esecuzione del progetto fosse affidata alla Deputazione del Regno, composta da aristocratici. Il contrattacco dei baroni avvenne sullo stesso terreno delle riforme su cui si muoveva il Caramanico, infatti i baroni si richiamavano, per il progresso economico e civile dei popoli e per il rinnovamento dell’agricoltura promosso dal governo, alle tesi di Gaetano Filangieri, autore della “Scienza della legislazione“, che postulava l’abbandono del sistema feudale, ma che, sulla scia del Montesquieu, riconosceva il ruolo determinante del baronaggio, a cui spettava la leadership della nuova società non più feudale. Abolita la giurisdizione feudale, i nobili avrebbero detenuto i feudi a titolo di proprietà privata, con soppressione di manomorta ecclesiastica, usi civici e terre comuni. Il sovrano avrebbe, invece, rinunziato al diritto di devoluzione su detti feudi.

I nobili siciliani accettavano che le terre demaniali e le proprietà ecclesiastiche fossero destinate ai lavoratori della terra per una politica di promozione sociale; accettavano, poi, di costituire nei propri feudi dei centri abitati con la creazione di nuovi gruppi di proprietari, ma rivendicavano per sè il controllo del processo di trasformazione, chiedevano, cioè, che i baroni promotori all’interno delle loro terre di processi di trasformazione in tal senso, avessero la giurisdizione sulle nuove popolazioni, rimanendo, così, la forza dirigente dell’economia, della società e della cosa pubbica. Il manifesto emblematico del riformismo baronale siciliano fu la “Memoria” sull’agricoltura del principe di Trabia.

Il governo respinse la proposta di collaborazione dei baroni e preferì operare in modo autonomo, ma non seguì la linea filangeriana, che implicava la rinuncia da parte dei baroni alla giurisdizione sui loro feudi per trasferirla al sovrano, e da parte del sovrano la rinuncia al diritto di devoluzione. Il governo, pur di colpire il baronaggio, preferì non rinunciare al diritto regio di devoluzione, nonostante i maggiori intellettuali fossero contro la devoluzione ed a favore della libera commerciabilità delle terre. Questo fu un passo indietro del governo sulla via delle riforme e fu oggetto di una vertenza giudiziaria,che spaccò in due il fronte governativo e che tolse alle riforme del governo l’appoggio dei gruppi culturali più accreditati. I baroni ottennero, invece, l’appoggio dei magistrati della Giunta di Sicilia, della napoletana Camera di S. Chiara e di parecchi intellettuali.

Il 16 luglio 1789 la morte del Caracciolo modificò la scena politica e lo scenario che si delineò in Sicilia fu quello di una classe baronale partecipe, a suo modo, dei processi di trasformazione in corso, a simiglianza di quanto accadeva nell’Europa centro-orientale e nella Prussia in particolare, ma queste trasformazioni non erano di ordine strutturale e produttivo, ma di ordine giuridico-formale, e dunque di modesta efficacia.

Il governo centrale delle Sicilie, da parte sua, manifestava, sì, l’intento di costruire una nuova società meridionale dominata non più dai baroni, ma dal sovrano, promotore del sorgere di forze sociali nuove, e cioè piccoli proprietari e borghesi del commercio e dell’industria, però perseguiva questa linea in modo confuso e contraddittorio, senza scrollarsi di dosso le implicazioni politiche e culturali che investivano il rapporto tra Napoli e Sicilia, vanificando, così, il suo impegno riformatore.

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