La porta di Dunhuang, le opere di Yang Xianfei al Museo Archeologico di Napoli
Al Museo Archeologico di Napoli (dal 12 al 31 ottobre) c’è una mostra di opere del cinese Yang Xianfei intitolata “La porta di Dunhuang”. “Credevo di trovarvi un artista cinese e invece mi son trovato a guardare un artista occidentale, che sbatte il colore sulla tela con il gusto materico di molti pittori del Novecento” – mi ha detto un amico architetto. Un commento che sentivo su per giù condiviso da alcuni visitatori. Appare molto diverso, a tutta prima, il giudizio, di tutto rispetto, sull’opera di Yang, di Gao Tianmin, Direttore esecutivo dell’Istituto Belle Arti dell’Accademia Nazionale Cinese della Pittura, che vien riportato nel catalogo.
Questi considera che, invece, l’arte di Yang, soprattutto nella serie della “Dea volante”, esprime l’essenza della cultura etnica cinese. Ma dice anche (e in questo si accorda con il mio amico architetto) che la esprime attraverso un linguaggio contemporaneo. Un linguaggio che possiamo anche definire espressionista. La fonte di ispirazione di Yang Xianfei sono gli antichi affreschi di Dunhuang, un patrimonio artistico che Gao Tianmin ci dice cruciale per la ricerca di una identità storica e culturale della Cina di oggi.
La storia che ci vien narrata su Yang e la sua scoperta di questi antichi affreschi è affascinante. Si racconta che l’artista fin da ragazzo, quando studiava pittura a Pechino, aveva un sogno ricorrente. Immaginava una località desertica e sconfinata con templi e grotte decorate da sculture e affreschi di epoche lontanissime. Un giorno lo confidò al suo maestro di pittura, che gli mostrò una pubblicazione in cui si diceva di opere d’arte meravigliose che si trovavano nelle “Grotte di Mogao”, nei pressi della città di Dunhuang, al limite del deserto. Partì, vide e meditò.
Iniziando dal 360 d.C. circa – ci racconta Luca Misiano, il curatore della mostra – le cavità rupestri di Mogao avevano protetto dal deserto circostante quelle immagini di divinità e di Budda, che erano state realizzate dai viandanti che percorrevano la Via della Seta, attraversando il deserto: una sorta di ringraziamento o di preghiera per essere protetti dai pericoli che s’incontravano nel lungo viaggio attraverso il deserto. Una congerie di divinità, un intreccio di culture. “Era naturale destino – scrive nel catalogo Pasquale Minichino, il direttore artistico della mostra- che quella straordinaria arteria debordasse dal suo mero interesse commerciale. Come per altri luoghi di grandi interazioni umane, divenne perciò anche una via spirituale di molti alternativi saperi e millenarie religioni”.
Da parte sua Luca Misiano ci dice che ogni profondo rinnovamento si attua ripartendo dalle origini. In questo caso, per la cultura cinese, sono gli affreschi di Mogao. E’ stato anche affermato che in queste origini Italia e Cina si congiungono. In che modo?
Tentiamo di scoprirlo esaminando le pitture di Yang in mostra al MANN. Tra queste, ce ne è una diversa dalle altre per formato e anche per contenuto. “La porta di Dunhuang”. E’ una sorta di rettangolo allungato in orizzontale, diviso in tre parti. Più che i trittici delle nostre antiche pitture religiose, mi ricorda le teorie di figure femminili che si trovano nella pittura bizantina (cfr. Ravenna) e anche nelle più antiche pitture dell’Italia Meridionale, come quella, che ora si trova al MANN, intitolata “le donne di Ruvo” (V se. a. C.), perché trovata (1833) a Ruvo di Puglia.
La pittura di Yang di cui parliamo rappresenta una teoria di sette donne. Una teoria continua, che appare come strappata a metà, interrotta da un inserto centrale, che taglia in due la quarta donna, lasciandone metà a sinistra e l’altra metà a destra. Queste donne hanno sul capo un’aureola (come le “beate” di Sant’Apollinare Nuovo -VI secolo- a Ravenna), hanno i visi poco definiti e i corpi coperti da un panneggio costruito con grosse strisciate di colore, ondulate dall’alto verso il basso, che gli donano movimento e una fremente vitalità. L’inserto centrale lascia incertamente affiorare, da una oscurità quasi caravaggesca, ovvero seicentesca napoletana, un viso maschile (lo stesso Yang?) e due mani congiunte come in preghiera.
Gli altri quadri rappresentano soprattutto la Dea Volante, una figura solitaria, coperta da vaghi panneggi. Anche al MANN possiamo trovare figure femminili solitarie, coperte da vaghi panneggi; libere da una qualsiasi definizione spaziale, sono dipinte direttamente sulla nuda parete: sono le figure del cosiddetto “terzo stile pompeiano”. Le dee volanti di Yang, invece, si muovono in uno spazio costituito da mosse pennellate di vorticoso colore. Espressionismo occidentale. Ma non solo. Lo spazio di Yang non è statico, la bellezza della sua arte non consiste nell’armonica simmetria di uno spazio concluso nelle tre dimensioni tradizionali, ma è carico di energia, è una visione ampia che coinvolge la modernità delle imprese spaziali, della contemporaneità internettiana, dell’oggi e del futuro.
Il volgersi di Yang all’arte occidentale travalica la concezione classica dell’arte italo-toscana, per volgersi al barocco. Forse non è un caso che la sua prima tappa italiana sia a Napoli. Pasquale Minichino, il direttore artistico della mostra, nel suo saggio d’apertura del catalogo, scrive: “Napoli è la città filosofica per eccellenza … pregna da un’immanente anima greca”. La Magna Grecia, non è superfluo ricordarlo, è una civiltà diversa dalla Grecia balcanica. La sua filosofia non è quella dell’Atene del V- IV secolo a. C., non nasce dalle parole dei sofisti. Ma dalla visione naturalistica dei sofoi, dei saggi, come Pitagora, che, a Crotone, scoprì nella natura l’armonia numerica.
Una sofia antichissima e modernissima tanto che il 3e14, il noto pigreco pitagorico, poté essere spiegato solo nel secolo scorso, con l’affermazione scientifica moderna di uno spazio in movimento. E di Pitagora fu seguace il campano Parmenide, che disse di uno spazio che sempre si muove, mai diviso dal tempo, e poi…tanti altri e l’obliato Telesio, che esaltò l’energia della natura, che tanto mi ricorda l’energico colore di Yang.
E poi vi furono altri grandi pensatori meridionali, e Bruno, e Campanella, sempre in continuità di pensiero, fino a Vico. Pensiero che si espresse anche nell’arte figurativa napoletana. Benedetto Croce definì Napoli una città barocca, anzi la disse origine del barocco, e, come tale, fu disprezzata. L’arte napoletana di un naturale spazio in movimento fu tenuta in disparte, perché non rispettava le regole prospettiche toscane, e fu considerata arretrata.
Ma ora la modernità è il barocco, l’attualità è Napoli. Mentre la pittura tradizionale toscana, che si basa sulla prospettiva di uno spazio a tre dimensioni, pur con la sua armonia e la sua indiscussa bellezza, ha ormai fatto il suo tempo. E forse non è un caso che Yang abbia scelto Napoli per la sua prima mostra italiana. Quello che che lui ha cercato è qui, nell’arte napoletana, che realizza, con il suo movimento, uno spazio a 4 dimensioni, lo spazio-tempo, che trovò, nelle settecentesche vedute napoletane del Settecento, quella precisa definizione matematica che oggi è rappresentabile in grafic computer. (cfr. “L’arte a 4 dimensioni nell’arte napoletana/la scoperta di una prospettiva spazio-tempo” di A. Dragoni- ed. Tullio Pironti).
Yang è un artista che ricerca le origini ma non vuole arenarsi nel passato. Tende al futuro e ha compreso che a Napoli la cultura cinese potrà trovare lo spazio più consono al suo futuro migliore.
“La porta di Dunhuang”
Yang Xianfei
Museo Archeologico di Napoli
(dal 12 al 31 ottobre)
Adriana Dragoni
Fonte foto e testo
www.agenziaradicale.com